Travolge gli Stati Uniti
La catena di attentati dell’11 settembre costituisce indubbiamente l’attacco terroristico più spettacolare, più temerario e più spietato che sia mai stato condotto.
Non certo, però, come ora ci si dice, la peggiore strage mai perpetrata a sangue freddo nella storia, neppure in quella recente. Ora la stampa e la Tv speculano sul sangue di migliaia di innocenti. Politici e commentatori levano le mani inorriditi: attacco alla civiltà, barbarie, queste sono le parole impiegate.
A questa ipocrisia bisogna rispondere, bisogna che si dica ad alta voce che quelli che si stanno stracciando le vesti sono i responsabili di molti dei peggiori crimini condotti in nome del "diritto", della "civiltà" e della "democrazia". Non c’è bisogno di andare indietro nei secoli, nella barbarie del capitalismo nascente, e neppure è necessario tornare alla Seconda guerra mondiale, alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, al bombardamento di Dresda (150.000 morti) o di Tokyo(100mila morti).
Basta restare nel "pacifico" dopoguerra, e ricordarsi della guerra in Vietnam (due milioni di morti) in una guerra che non venne mai neppure ufficialmente dichiarata; della guerra contro l’Irak (100mila morti) e dell’embargo che attraverso fame e malattie ha ucciso in questo decennio forse 300mila persone; dei bombardamenti con le armi all’uranio impoverito, nel Golfo e in Jugoslavia; delle dittature sostenute, finanziate e armate dagli Usa in Argentina, Cile, Turchia, Indonesia e tanti altri paesi, regimi che hanno fatto centinaia di migliaia di morti. La lista potrebbe continuare a lungo.
La vera differenza non sta nel grado di ferocia, né questo può costituire per noi un elemento di giudizio. La differenza sta nel fatto che l’imperialismo e il capitalismo perpetrano i loro peggiori crimini al riparo di una fitta cortina fumogena di menzogne, di propaganda, di falsità, mentre l’attacco terroristico è stato deliberatamente condotto con l’intento di suscitare il massimo clamore, di creare non solo distruzione materiale, ma anche panico e paura.
Le reazioni dell’establishment Usa e internazionale sono univoche. L’attacco viene definito un atto di guerra, al quale rispondere con uguale violenza.
Basandosi sulle forti emozioni provocate dal massacro, Bush ha parlato ieri di una "lotta tra il bene e il male". Il massacro di New York fornirà un importante alibi alla borghesia di tutto il mondo per combattere ogni critica al sistema "occidentale" (leggi capitalista), allo stesso modo una parte importante della popolazione israeliana è disposta ad accettare le azioni di terrorismo di Stato che l’esercito definisce "preventive" per paura del terrorismo palestinese.
Il marxismo condanna il terrorismo perché aiuta la borghesia invece di combatterla, rafforza i pregiudizi e le chiusure mentali di una parte importante della popolazione e anche nei casi in cui suscita entusiasmo (vedi la reazione delle masse arabe) non accelera la presa di coscienza e l’organizzazione della lotta, ma al contrario la svuota di contenuto e la conduce fuori strada.
A cosa serve la lotta quotidiana per dare fiducia agli oppressi sulla loro forza per cambiare il mondo se basta un’azione terrorista per ottenere molto di più e più in fretta? Solo la frustrazione e la disperazione accumulata dalle masse arabe può far dimenticare che 30 anni di terrorismo dell’Olp non hanno fatto avanzare di un millimetro l’indipendenza dei palestinesi a differenza della prima Intifada che ha messo in crisi il dominio dello Stato israeliano sui Territori di Gaza e Cisgiordania per circa due anni.
E’ certo in Medio oriente c’è in corso una guerra, anzi più guerre, per quanto non dichiarate. C’è in primo luogo la decennale guerra contro l’Irak, bombardato quasi quotidianamente dall’aviazione americana a britannica, e sottoposto a un embargo che ha messo in ginocchio l’economia e le infrastrutture, un embargo che si estende a generi di prima necessità, ai medicinali, grazie al quale sono morte finora forse 300, forse 500mila persone. C’è soprattutto la questione palestinese, che a partire dallo scorso anno, con lo scoppio della nuova Intifada, ha mostrato inequivocabilmente come né la repressione, né l’inganno possono trattenere a lungo la rivolta delle masse palestinesi. Per un decennio, a partire dalla guerra del Golfo nel 1991, gli Usa hanno fatto il bello e il cattivo tempo in Medio oriente: hanno installato i loro soldati in Arabia Saudita, hanno sostenuto la restaurazione del peggior regime reazionario in Kuwait, hanno soprattutto lavorato indefessamente al grande inganno degli accordi di Oslo del 1993, quegli accordi che avrebbero dovuto, a loro dire, risolvere in modo equo la questione palestinese.
Otto anni dopo i palestinesi hanno scoperto di non avere in mano altro che un pugno di mosche: non la terra, non le risorse economiche non un vero autogoverno: solo dei bantustan, delle riserve indiane nelle quali marcire, ghetti nei quali l’alternativa è tra crepare di fame o continuare ad essere la manodopera di riserva dell’economia israeliana. Neppure l’installazione dei coloni ebrei, che di fatto costituiscono un secondo esercito di occupazione, è stata arrestata.
Ingannati, derisi, traditi da una direzione ormai completamente corrotta, hanno ripreso la strada della lotta, strada che hanno pagato con centinaia di vite sacrificate, fino alla disperazione degli attentati suicidi.
C’è forse da stupirsi che vi siano state, nei campi profughi e nei quartieri palestinesi, manifestazioni di giubilo per gli attentati in Usa? Se palestinesi e iracheni (ma anche al Cairo pare vi siano state scene analoghe) hanno esultato nel vedere che le torri di Manhattan, che lo stesso Pentagono sono vulnerabili quanto una baracca di Gaza?
Per un decennio gli Usa hanno costruito un sistema di dominazione mondiale senza precedenti, la loro arroganza e la loro sfrontatezza parevano non conoscere limiti. Una reazione era già chiaramente avvertibile negli ultimi anni, un antiamericanismo crescente, una volontà di non accettare più le intrusioni della superpotenza, fossero queste in Colombia o nei Balcani, in Medio Oriente o nel Pacifico. Quest’onda, che si è espressa persino nell’Onu, come dimostrano gli esiti della conferenza di Durban, si è materializzata nel modo più drammatico e inatteso negli attentati suicidi dell’11 settembre, chiunque ne sia stato l’autore.
Si impone una conclusione, che non scaturisce da valutazioni morali, ma dalla dinamica degli avvenimenti mondiali: hanno raccolto quello che hanno seminato.
Nel dire questo non proviamo nessun compiacimento: la guerra all’imperialismo, la guerra che può liberare l’umanità a partire dai popoli oppressi non può essere vinta con atti di terrore come questo, che ha colpito indiscriminatamente decine di migliaia di lavoratori, famiglie, gente comune che in nessun modo può essere identificata con l’oppressione esercitata dalla classe dominante. E, aggiungiamo, non può essere vinta, anzi non può realmente neppure cominciare sotto la guida di cricche reazionarie e corrotte fino al midollo come quelle che dirigono la gran parte dei movimenti "rivoluzionari" islamici, gruppi che non hanno esitato in passato a schierarsi con l’imperialismo Usa, e in alcuni casi lo fanno tutt’ora (ad esempio in Cecenia, dove il comandante della guerriglia Basajev è stato sostenuto dagli Usa e dal loro fantoccio giordano). Lo stesso Bin Laden è stato in passato collaboratore degli Usa, quando questi fomentavano il fondamentalismo islamico in chiave antisovietica.
La lotta contro l’imperialismo potrà vincere solo con altri protagonisti e altri metodi, con i metodi della lotta di massa, dello sciopero generale, dell’insurrezione, e, se fosse necessario, anche con guerre di liberazione come quella d’Algeria o del Vietnam, che, nonostante tutti i limiti e le distorsioni indotte dallo stalinismo e dal nazionalismo, coinvolsero realmente le masse del mondo coloniale. Attentati come questi non costituiscono in nessun modo un passo in questa direzione, anzi: dopo le migliaia di americani incolpevoli che ne sono state le vittime, è fin troppo facile prevedere che gli Usa e i loro alleati faranno pagare ai popoli del Medio oriente, in primo luogo ai palestinesi, il prezzo maggiore della loro rappresaglia.
La risposta del governo Usa non lascia infatti molto spazio all’immaginazione: i parlamentari Usa chiedono una risposta "di guerra" contro i responsabili, che indicano quasi unanimemente nell’organizzazione di Osama Bin Laden.
In realtà, come è noto, l’attacco non ha avuto finora nessuna rivendicazione ufficiale. Le organizzazioni palestinesi Hamas, Fplp e Fdlp, indicate nelle prime ore come responsabili, hanno seccamente smentito. Lo stesso regime dei Talebani afgani ha smentito il coinvolgimento di Bin Laden, dichiarando inoltre che se fosse stata provata una sua responsabilità sono disposti ad estradarlo negli Usa.
Si tratta quindi, di una attribuzione di responsabilità del tutto arbitraria, alla quale dovremmo credere sulla parola dei servizi segreti americani.
È possibile che vi sia stato un elemento di provocazione generato addirittura all’interno della stessa classe dominante americana, dei servizi segreti o dei vertici militari? Ci pare un’ipotesi fuorviante.
Se è vero che gli autori materiali di questo attentato, i dirottatori che hanno condotto l’attacco suicida, possono certamente essere stati reclutati in organizzazioni terroristiche palestinesi o in altri paesi arabi, è altrettanto vero che rimangono molti lati oscuri in questi attentati. Vale anche la pena di notare che già nel 1995 l’attentato dinamitardo di Oklahoma City venne inizialmente attribuito al terrorismo islamico, solo per poi scoprire che l’autore era un estremista di destra americano, ex combattente della guerra del Golfo, che è stato giustiziato alcuni mesi fa. Un infernale gioco di inganni fra servizi segreti e gruppi terroristici potrebbe avere avuto una parte nella preparazione degli attentati. Ma sarebbe del tutto fuorviante pensare che sia questo l’elemento decisivo. Lo smarrimento, lo spettacolo di panico che ha dato il vertice Usa, a partire da Bush, nelle ore dell’attentato, parla da solo.
Se qualche elemento dei servizi segreti ha giocato col fuoco (e non sarebbe la prima volta), è chiaro che la faccenda è andata di gran lunga fuori dal controllo di qualsiasi aspirante apprendista stregone.
Bush ha dichiarato: "Non faremo distinzioni tra i terroristi che hanno commesso questi atti e coloro che li ospitano". Una dichiarazione che lascia prevedere un attacco contro l’Afghanistan (dal quale l’Onu sta ritirando tutto il proprio personale), e forse anche contro l’Irak. "Non faremo distinzioni" significa che saranno considerati anche attacchi indiscriminati su obiettivi civili.
Al tempo stesso, è probabile che l’esercito israeliano conduca nei prossimi giorni un’offensiva nei territori palestinesi, e forse anche in Libano. Lo scenario di una guerra in Medio Oriente si è drasticamente avvicinato, e non si può escludere un coinvolgimento diretto degli Usa, che a questo punto farebbero inevitabilmente di tutto per trascinarvi anche i paesi europei.
Da questo punto di vista, le stragi dell’11 settembre facilitano di gran lunga il compito a Bush: il 90% degli americani sarebbe, secondo un sondaggio, favorevole a una guerra contro i responsabili.
La politica Usa sul Medio Oriente era chiaramente in un vicolo cieco: la linea perseguita in passato da Clinton, di ingabbiare i palestinesi con la trattativa è ormai impraticabile. Il ritiro di Israele e Usa dalla conferenza di Durban, pochi giorni fa, era in qualche modo una dichiarazione di cambiamento di rotta, e solo l’Europa, in particolare la Germania, insisteva sulla linea del "dialogo", patrocinando l’incontro Peres-Arafat.
Una situazione difficile per Israele e per gli Usa, che ora viene ribaltata. Commenta, con cinico realismo, il Sole 24ore del 12 settembre: "Era quasi impensabile - almeno prima di questo attacco a New York e Washington - l’ipotesi di un appoggio internazionale per un’azione di forza contro qualunque attore di questa regione strategica". Ma se prima era impensabile, oggi tutto cambia, se Bush deciderà di lanciare un’offensiva in Medio Oriente sarà ben difficile sottrarsi per i "cari alleati europei", e in prima fila ci saranno Berlusconi e Blair.
Il primo passo in questo senso è stato già fatto ieri dalla Nato, che con un voto all’unanimità ha dichiarato che l’attentato è da considerarsi un’azione di guerra che rientra nell’ambito dell’articolo 5 del trattato fondativo.
Avviene così che senza neanche consultare i parlamenti (cosa che non si rende necessaria per la Nato) tutti i paesi aderenti sono pronti ad azioni militari di qualsiasi portata quando saranno individuati "i responsabili".
A breve termine, il primo effetto in Usa e occidente è di alimentare un’ondata isterica di reazione antiaraba e sciovinista, e in generale di favorire un clima di repressione e caccia alle streghe. Significative, ancora le posizioni del Sole 24ore: "Da ieri l’attacco sincrono da parte di questo nemico fantasma cambia la storia. E non soltanto per l’America, ma per tutti noi. Da oggi dovremo chiederci quali sono i valori ai quali teniamo davvero come società, senza troppe sfumature, postille o note a pie’ di pagina. Perché da ieri abbiamo uno spartiacque che separa i valori della democrazia e della libertà da quelli della violenza, del sopruso e del fanatismo. O si sta da una parte, o si sta dall’altra".
Più chiaro ancora un altro articolo, in cui si accusa (e come poteva essere altrimenti?) il movimento antiglobalizzazione: "…le centinaia di giovani anti-global hanno agito nella più perfetta buona fede, nell’invocare un mondo migliore. Ma sta di fatto che da Seattle a Nizza, da Davos a Praga, da Washington a Genova (…) si è dipanato il fil rouge di una protesta che al fondo ha due soli obiettivi: imperialismo americano e sionismo israeliano. (…) Solo in un clima surriscaldato su scala mondiale come quello che si è creato con le battaglie anti-globali ha potuto essere attuato l’efferato piano di battaglia di ieri, preparato con mezzi enormi, lunghissima preparazione, segretezza totale, logistica da fantascienza".
Uno sbocco reazionario, quindi, che nel breve termine può avere un’eco anche tra le masse, in particolare in Usa. La spia più eloquente è la reazione dei vertici della sinistra e dei sindacati, in Italia come in tutto il mondo. Tutti, senza eccezione, si sentono parte colpita, parte di questa presunta "civiltà", minacciata, si suppone, dai nuovi barbari. No, compagni, non può essere così: questa "civiltà" non è la nostra, ed è all’interno di questa "civiltà" che sprofonda tante parti del mondo nella barbarie che è nato anche un atto barbaro come l’attacco a New York.
Per questo il movimento operaio deve essere vigile, rifiutando qualsiasi confusione provocata dall’immensa emozione che un fatto può generare.
La nostra solidarietà con le vittime non può essere estesa alla grande borghesia nordamericana, a quei politici e generali ipocriti che per decenni hanno sostenuto le peggiori dittature e le organizzazioni più reazionarie (tra cui lo stesso Bin Laden).
Questi signori alzano le spalle quando viene ricordato loro che all’inizio del XXI secolo due terzi dell’umanità è povera e un quinto muore letteralmente di fame. Indubbiamente nell’attentato di New York migliaia di persone hanno avuto una morte tragica sotto gli occhi del mondo, persone che vivevano nel paese più ricco e potente del mondo, ma la reazione indignata non dovrebbe essere la stessa per i milioni che muoiono senza fare notizia nel terzo mondo, schiacciati da un sistema economico che nega loro un futuro, vittime di un oppressione di cui il governo Usa il primo responsabile?
L’attentato cade in un contesto di recessione economica internazionale in sviluppo, di conflitti crescenti, di mobilitazioni politiche e sociali che crescono nei cinque continenti: seppure lo sbalordimento e lo choc possono per un momento "congelare" gli sviluppi in corso, è indubbio che successivamente vedremo una nuova, drammatica accelerazione.
La coscienza di massa è stata scossa e rimarrà segnata profondamente da questo avvenimento. La prima sensazione è di incredulità, e certo tanti vorrebbero distogliere gli occhi, vorrebbero poter pensare che si tratti di qualcosa di estraneo al proprio mondo, alla propria vita quotidiana, un’aberrazione inspiegabile. "Sembra di essere a Beirut", commentava un poliziotto di New York, come se Beirut, Sarajevo, Belgrado, Baghdad e le cento altre città martoriate che certo era abituato a vedere in Tv fossero su un altro pianeta, in una dimensione irraggiungibile. E invece no: questo è il mondo di oggi, questa è la barbarie che avanza e sconvolge le "regole del gioco" che nei paesi capitalisti avanzati parevano ormai stabilite dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Coloro che a sinistra pensano di risolvere la crisi in atto "ricostruendo il ruolo dell’Onu", "recuperando autorità morale per parlare ai popoli del mondo", stanno solo sollevando una cortina fumogena per confondere i lavoratori e i giovani in Italia e nel mondo.
La cosiddetta comunità internazionale può solo approfondire questa crisi, facendo sprofondare il mondo in una guerra senza quartiere. L’unica via d’uscita è nelle mani dei lavoratori di ogni parte del mondo. Solo la lotta all’imperialismo e all’oppressione su milioni di persone generata dal dominio capitalista può portarci alla pace e alla fratellanza che né la Nato, né l’Onu, né la cosiddetta civiltà occidentale potranno mai garantire.
12 settembre 2001