Con la legge 243/2004 venne stabilito il dirottamento automatico alla previdenza complementare, salvo diverso avviso da parte del lavoratore, della liquidazione, il cosiddetto tfr.
Nel corso degli anni ’90 ci sono state due grandi riforme del sistema previdenziale, la Legge Amato del 1992 e la Legge Dini del 1995, nonché una serie di continui aggiustamenti tra il 1996 e il 2003, che nel loro complesso hanno ridotto la pensione pubblica, un tempo pari all’80% dell’ultima retribuzione, a circa la metà di quel valore. Il ritornello, fatto proprio dalla Cgil e dal centrosinistra, è che la previdenza pubblica è al collasso e che i fondi pensione devono costituire “l’altra gamba” di un sistema altrimenti avviato al baratro. Le cose però stanno diversamente.
Il mancato decollo dei fondi pensione
Già nel 1998 spiegavamo la miopia di affidarsi ai fondi pensione. Bisogna constatare che nonostante anni di crisi dei mercati finanziari, la Cgil vi continua a riporre un’incrollabile speranza, incomprensibile se si considera quello che è successo non solo con il crollo della “new economy”, che ha causato ribassi di oltre la metà del valore delle borse, ma anche la continua serie di scandali aziendali (si pensi a Cirio e Parmalat in Italia), che hanno dimostrato che le grandi aziende fanno quello che vogliono con i soldi degli azionisti, dei creditori e anche dei dipendenti. Persino la borghesia ha scarsa fiducia nei mercati finanziari e preferisce speculare sugli immobili, ma i dirigenti riformisti hanno più fiducia nel capitalismo degli stessi capitalisti. Quegli episodi hanno dimostrato un’ovvia verità: i fondi pensione trasferiscono per intero sui lavoratori i rischi dell’instabilità dei sistemi finanziari mondiali e delle frodi aziendali, mentre l’Inps garantisce il tfr anche in caso di fallimento dell’azienda.
Nonostante dieci anni di terrorismo psicologico sul crollo dell’Inps e la pubblicità fatta dagli stessi sindacati, i lavoratori italiani non hanno abboccato. Aderiscono a tutte le forme di previdenza integrativa appena 2,8 milioni di lavoratori, dei quali 700mila tramite polizze individuali e altrettanti con fondi pensione preesistenti (creati prima del ‘96). Dei potenziali iscritti, appena l’8,5% partecipa ai fondi (fonte: autorità di vigilanza sui fondi pensione).
A giudicare dai dati hanno fatto benissimo: il rendimento complessivo del tfr dal ’99 a oggi è stato maggiore rispetto sia ai fondi pensione aperti che a quelli negoziali (17,7%, contro 16,1% e 10,6% rispettivamente). Solo a partire dal 2004 la ripresa della borsa ha ricondotto i fondi pensione in linea col tfr, ma fino a quando? Il più grande fondo pensione italiano, quello dei metalmeccanici (Cometa), ha reso dalla sua nascita una media dell’1,7% l’anno, il fondo dei quadri e dirigenti Fiat lo 0,5%. Se a ciò si aggiunge che il tfr è gratis mentre i fondi costano l’1,5-2% l’anno di commissioni, si comprende come la “professionalità dei gestori” sia una favola molto costosa. Sarà per questo che, secondo una recente indagine dell’Isae solo il 13% dei lavoratori pensa di aderire a un fondo mentre l’80% vuole tenere il tfr. Questo fallimento si riflette anche nel misero flusso di contributi raccolto dai fondi, appena 150 milioni di euro al mese, contro gli oltre 15 miliardi di euro l’anno di tfr. Logico che una torta così vasta faccia gola a banche e assicurazioni, anche a quelle, come Unipol, vicine al “cuore” di molti dirigenti del centrosinistra.
Sebbene i fautori dei fondi pensione ripetano sempre che “nel lungo periodo” con la borsa si guadagna, i lavoratori che si affidano ai fondi possono subire delle perdite colossali. Ad esempio, dal 1999 al 2002 il calo delle borse ridusse il valore dei fondi pensione a livello mondiale di circa 2.800 miliardi di dollari (due volte il Pil italiano). Inoltre, molte aziende hanno grossi debiti verso i propri fondi pensione, e molte altre, si pensi a Enron o a United Airlines, sono fallite azzerando i fondi pensione e lasciando i dipendenti con un sussidio statale minimo. Altrettanto illusoria è l’idea che i fondi investano in “titoli sicuri”, cioè obbligazionari. Dopo tutto anche quelli Cirio, Parmalat e i bonos argentini erano obbligazioni.
Ma oltre al fatto che comunque la gran parte dei lavoratori non avrà nessuna possibilità di integrare una pensione da fame, i fondi pensione comportano un enorme spostamento di denaro tra lavoratori e aziende. Attualmente quasi tre quarti dei contributi sono a carico dell’impresa. Con i fondi pensione il contributo a carico del lavoratore sale a quasi il 90%. È dunque falso ritenere che i fondi convengano perché “anche i padroni versano”, infatti tali versamenti rientrano nel costo del lavoro concordato in fase contrattuale e lo sarebbero comunque se quei soldi finissero direttamente in aumenti salariali o a incremento del tfr. Lo stesso discorso vale per le agevolazioni fiscali.
Infine, fa parte del mito dei fondi pensione anche l’idea che possano costruire le basi per un capitalismo popolare dove le ricchezze della borsa vadano a tutti e a governare le aziende siano appunto i fondi e non più il ristretto circolo delle famiglie che contano. Peccato che, secondo gli studi della banca centrale americana, l’85% del valore dei guadagni del mercato azionario degli ultimi dieci anni sia andato al 10% più ricco della popolazione. E guardando agli Stati Uniti o al Regno Unito, dove i fondi pensione esistono da decenni e controllano immani ricchezze, si vede forse un controllo effettivo sulle grandi aziende? O semmai l’incapacità del sindacato di opporsi a ogni brutale attacco padronale?
Invertire la marcia
I fondi pensione sono una trappola. I lavoratori l’hanno capito. Ma non basta non aderirvi, perché la pensione dei lavoratori attuali sarà ancora più misera di quella di oggi. Occorre dunque far fallire lo scippo del tfr, ma soprattutto invertire il quadro, partendo dal fatto che la crisi della previdenza pubblica, nella misura in cui non è montata ad arte, è determinata da cause che nulla hanno a che vedere con il rapporto contributi/pensioni e dipendono invece: a) da un’evasione contributiva abnorme, che supera i 30 miliardi di euro l’anno; b) dalla precarizzazione dei rapporti di lavoro che consente alle imprese di sostituire i lavoratori a contribuzione piena con lavoratori a contribuzione ridotta (la decontribuzione dei nuovi assunti toglie all’Inps da subito 5 miliardi l’anno che diventeranno 25 nel 2010); c) dall’uso dei fondi dell’Inps per coprire i buchi dello stato sociale; d) e infine dal buco delle pensioni per i dirigenti d’azienda che il governo Berlusconi ha caricato su tutti i lavoratori fondendo l’Inpdai nell’Inps.
Bisogna invertire completamente la marcia prevedendo: 1) l’abolizione delle controriforme a partire da quella Dini; 2) l’aumento delle pensioni minime ad almeno 750 euro (si consideri che ancora oltre 10 milioni di persone ricevono pensioni inferiori o vicine ai 500 euro); 3) la scala mobile dei salari e delle pensioni; 4) Una lotta a tutto campo contro il precariato, necessaria non solo per la difesa dei diritti nei luoghi di lavoro, ma anche per garantire adeguati livelli contributivi a tutti i lavoratori.
Le risorse si possono trovare, per esempio nell’evasione fiscale e contributiva, un’arma che rimane spuntata se, come fa il sindacato, si rifiuta di comprendere che combattere l’evasione fiscale è impossibile senza colpire al cuore il capitalismo italiano che di quell’evasione vive da decenni (secondo la Corte dei Conti, il 98,4% delle grandi imprese evade il fisco).
Infine, visto che il tfr costituisce una fonte economica di finanziamento per i padroni, occorrerebbe che fosse remunerato a un tasso vicino a quello che questi pagherebbero chiedendo quei soldi altrove. Se così si fosse fatto, ad esempio, dal ’99 a oggi, il tfr avrebbe reso non un terzo, ma oltre due terzi più dei fondi pensione.
La distanza tra queste e le proposte del “cantiere per il programma” dell’Unione marca la differenza tra la difesa intransigente dei diritti dei lavoratori e l’utopia del capitalismo riformato.