Dell’Expo di Londra del 1851 Marx disse, condannandola, che era “l’emblema del feticismo capitalista”. Dopo quasi due secoli possiamo denunciare la totale perversione di questo feticismo.
Le cronache giudiziarie riportano la dilagante corruzione, la connessione con le mafie, le leggi d’emergenza che tutto coprono e giustificano: ne abbiamo ampiamente parlato in questa rivista per evidenziarne il carattere intrinseco al capitalismo. Tuttavia non è questa sporcizia a condannare senz’appello Expo 2015.
Il punto è che un sistema che produce il 44,2% di disoccupazione giovanile, e il dramma della povertà anche fra chi lavora, si basa su un accumulo di ricchezze spropositate di una ristrettissima minoranza. Expo 2015 è l’ennesimo strumento di trasferimento di ricchezze dal lavoro al capitale e a questa rapina partecipano solerti tutti i rappresentanti delle istituzioni, tanto di destra quanto di sinistra.
Ci sono tre grosse partite: l’acquisizione dei terreni e i relativi lavori sul campo, le infrastrutture e soprattutto il lavoro umano per far marciare tutta la baracca.
Speculazione senza fine
L’area dell’esposizione universale, poco più di un milione di metri quadrati, insiste su una superficie che era di proprietà privata, prevalentemente della Fondazione fiera e della famiglia Cabassi. Formigoni, all’epoca presidente della Regione Lombardia, insiste ed ottiene che la Expo spa (società costituita da Ministero dell’economia, Regione, Comune, Provincia di Milano e Camera di commercio) debba comprare quei terreni. I terreni, fino a quel momento agricoli, con la previsione della modifica della destinazione d’uso passano da 10-15 euro a 164 al metro quadro. Cabassi e Fiera ringraziano. Il Comune di Milano svende Sea e Serravalle per coprire il buco di bilancio derivato dall’onere dell’acquisto. L’accordo prevede che, finita Expo, i terreni saranno ulteriormente rivalutati, si vedrà a chi andranno, forse il Milan ci costruirà un nuovo stadio o la cosiddetta Cittadella dello sport.
Le infrastrutture sono varie autostrade e tangenziali, di cui al momento solo una è conclusa, la BreBeMi (collegamento Brescia, Bergamo, Milano) e l’impareggiabile progetto delle Vie d’acqua, per il quale inizialmente era prevista una spesa di un miliardo e mezzo, poi ridotta a 70 milioni di euro per portare un po’ d’acqua dal Villoresi al Naviglio pavese, passando per il Parco di Trenno, in parte costruendo un letto di cemento o interrando. La BreBeMi è costata oltre 2 miliardi di euro, la Teem è la tangenziale più costosa d’europa (80 milioni a chilometro), pagata per il 70 per cento con contributi pubblici, nonostante le promesse che lo Stato non avrebbe messo un centesimo. Questi costi saranno tutti pagati con il pedaggio che è effettivamente il doppio rispetto alla vicina Milano-Venezia.
Oltre alle infrastrutture, ci sono i lavori di sistemazione e costruzione sull’area su cui insisterà l’esposizione. La spartizione è stata equa, un po’ al centrosinistra e un po’ al centrodestra (Cmc, nel cui cda siede Enrico Letta, e la Mantovani spa, area ex Pdl, il cui amministratore delegato è in carcere, per citare gli appalti più grossi). Pur con dirigenti indagati o addirittura incarcerati, poche delle società appaltanti hanno perso il lavoro, anzi se lo sono aggiudicato al ribasso per poi lievitare i costi e guadagnarci due volte, una pratica consolidata.
Curiosamente, nonostante Expo spa sia prevalentemente una società pubblica, la presidente è Diana Bracco, presidente della multinazionale farmaceutica omonima, vicepresidente di Confindustria, nonché ex presidente di Assolombarda.
Una figura importante che conosce bene il mondo dell’imprenditoria e che ha dato “importanti consigli” sulla scelta delle società appaltatrici. D’altra parte tutti gli apparati dello Stato sono al servizio del perpetuarsi di questo sistema: il commissario anticorruzione Cantone non ha alcun potere reale, non può sospendere gli appalti e congelare i profitti nemmeno delle società in odore di mafia, e in ambito giudiziario abbiamo visto negli ultimi vent’anni un tracollo delle condanne per reati economici. In Italia in galera per tali reati sono in tutto in 156, lo 0,41% della popolazione carceraria.
Uno studio della Bocconi del 2013 sosteneva che con il piccolo investimento pubblico previsto, intorno ai 3 miliardi di euro, si sarebbero generati benefici strepitosi: 200mila posti di lavoro, 25 miliardi di maggiore prodotto interno lordo, 20 milioni di turisti. Al di là del metodo di calcolo furbesco, la realtà appare molto diversa. Intanto i costi a carico dello Stato e degli enti locali sono già di molto superiori alle attese. E questi costi aumentano ulteriormente i debiti pubblici e rientrano poi con i tagli ai servizi sociali e l’aumento delle tasse agli unici che sono costretti a pagarle, cioè i lavoratori. Fra infrastrutture e appalti vari si prevede un trasferimento dalle casse pubbliche alle tasche dei padroni fra i 9 e gli 11 miliardi di euro.
Difficile rientrare da questa spesa con il biglietto di ingresso di 32 euro anche nell’ipotesi più rosea dei 20 milioni di paganti.
Schiavi invece di lavoratori
Sempre a pensar male… ma i padroni ci daranno ben 200mila posti di lavoro!
Vediamo qualche dettaglio. Per ora si viene assunti da Expo spa che a regime avrà un migliaio di dipendenti, di cui 195 stagisti, con rimborso spese di 516 euro, e gli altri in apprendistato, ovviamente con contratto a termine. A questi si aggiungono fin da subito 4mila lavoratori impiegati nella costruzione dei padiglioni a cui si aggiungeranno fra i 9 e gli 11mila impiegati negli appalti dei vari servizi (pulizie, biglietteria, parcheggi, navette, logistica, ecc). Arriviamo a 16mila e già così, rispetto alle aspettative, mancherebbero all’appello 184mila posti. Ma qui siamo oltre ogni inganno immaginabile, infatti da un po’ di mesi a questa parte la città di Milano è tapezzata di manifesti per reclutare i volontari di Expo. Obiettivo, reclutare ben 18.500 lavoratori a gratis. Nel contratto Expo chiede ai volontari tre turni di lavoro da 5 ore e 30 minuti, per almeno 15 giorni, se arrivi alla fine del pattuito ti viene regalato un tablet. Probabilmente acquistato con soldi pubblici.
Molti, nell’area dei centri sociali che ha contestato in questi anni il “Grande evento”, hanno teorizzato che la ricchezza viene estratta dal consumo del suolo, dalla speculazione immobiliare e finanziaria. La lotta sarebbe quindi per la riappropriazione del territorio e per la liberazione degli spazi. Contestiamo questa idea: la ricchezza viene prodotta e spremuta dal lavoro, dal lavoro degli schiavi di Expo e dal lavoro che concorre ad alimentare le casse dello Stato e degli enti locali i quali abbiamo visto dove mettono questi denari. Senza questo lavoro non ci sarebbe nessuna ricchezza. La lotta contro Expo è una lotta contro questo furto, è una lotta per liberare il lavoro salariato.
L’amministratore delegato di Expo, il signor Sala, e Matteo Enrico Letta hanno avvinto in spire soporifere il gruppo dirigente della Cgil. Fin dal luglio 2013 i sindacati confederali hanno firmato accordi nei quali hanno concordato tutte queste forme di “assunzione”. A giugno scorso hanno sottoscritto due grossi accordi con Expo e Manpower (l’agenzia interinale che gestirà tutte le assunzioni per la costruzione e la gestione dei padiglioni) nei quali vengono accolte tutte le deroghe possibili, anche alla legge Poletti, escludendo ogni limite al numero dei contratti a termine, sull’uso deregolamentato dell’apprendistato, sull’organizzazione del lavoro, oltre alle immancabili procedure per risolvere le controversie sindacali (leggi: “non si può scioperare”). Giuseppe Sala ha ringraziato “le organizzazioni sindacali che si sono dimostrate ancora una volta collaboratrici”.
A luglio scorso i lavoratori del Comune e la loro rappresentanza sindacale unitaria hanno respinto il protocollo di intenti del Comune sulla gestione di Expo e in particolare l’uso di lavoro volontario. Questa è la via, riprendiamoci il sindacato che deve tutelare i lavoratori e le lavoratrici a partire dalle nostre esigenze non dalle compatibilità aziendali: no al lavoro volontario, uguale mansione, uguale salario, a tutti non meno di 1.200 euro, contratti a tempo indeterminato per tutti e riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.