L'editoriale del nuovo numero di FalceMartello
Con piglio berlusconiano Matteo Renzi ha lanciato l’offensiva finale contro lo Statuto dei lavoratori. Come il primo governo Berlusconi nel 1994 quando attaccò le pensioni, come il secondo Berlusconi del 2002, che tentò di far saltare l’articolo 18, l’erede designato prova a calzare le scarpe del suo maestro. Nel 1994 finì male per l’allora Cavaliere, che dopo dieci mesi dovette sloggiare da Palazzo Chigi di fronte a una lotta di massa dei lavoratori che solo a fatica i vertici di Cgil Cisl e Uil riuscirono a contenere sulla soglia dello sciopero generale. Nel 2002 dopo uno sciopero generale della sola Cgil e dopo l’enorme manifestazione del Circo Massimo del 23 marzo 2002 dovette nuovamente desistere, facendosi coprire la ritirata da Bonanni e Angeletti.
Deve finire così anche questa volta, la posta in gioco è troppo alta per puntare a un pareggio per il quale non c’è oggi spazio possibile.
Il disegno del Jobs Act ha un titolo molto chiaro: il lavoratore deve diventare uno schiavo. Il lavoro deve diventare una lotteria in cui si entra in giorno senza sapere se si entrerà il giorno dopo (liberalizzazione dei voucher); dove si lavora sorvegliati a distanza dalla telecamera o dal computer a piacimento dall’azienda (manomissione art. 4 dello Statuto); dove se a giudizio dell’azienda non rendi abbastanza, o se magari pretendi il rispetto del tuo lavoro, puoi essere demansionato a piacere perdendo qualifica e salario (attacco all’art. 13 dello Statuto); dove, infine, chi alza la testa e prova a organizzare la protesta può venire sbattuto fuori senza colpo ferire (abolizione definitiva dell’art. 18). Altro che “battaglia ideologica”!
Ce n’è stato a sufficienza per spaccare pesantemente il Pd, e il punto non è secondario. Non parliamo degli equilibri parlamentari, ma di un fatto più profondo. Il Pd attuale, col suo 40,7 per cento alle elezioni, partito pigliatutto fino al punto che sia i suoi alleati di governo che persino l’“opposizione” di Forza Italia sembrano sue appendici, incorpora una grande contraddizione. Il “partito della nazione” viene lacerato se la nazione è a sua volta tagliata in due dal conflitto di classe. Alla Direzione Pd il ministro del lavoro Poletti ha aspramente redarguito Massimo D’Alema che in un eccesso di foga aveva osato definire “padroni” quelli che oggi si possono solo chiamare “imprenditori”. Non è solo un aneddoto carico di ironia, è la lontana eco verbale di un conflitto sociale.
Da parte governativa la produzione di balle spaziali prosegue a tutto spiano: aboliremo il precariato! basta con l’apartheid nel mondo del lavoro! vi faremo ricchi mettendovi il Tfr in busta paga! (questa è una delle più belle: farsi belli offrendo soldi che sono già nostri).
Stavolta tuttavia Renzi rischia di addentare un osso troppo duro. Certo, se si guarda all’azione dei dirigenti sindacali in questi anni è fin troppo facile dedurne che l’attacco può passare senza colpo ferire, o quasi. In effetti il centro della scelta del governo è qui: dimostrare che la Cgil ormai è una facciata di cartapesta e che basta una spinta per farla venire giù.
Ma qui non è in ballo solo il ruolo delle burocrazie sindacali. Al di là degli apparati, oltre i dirigenti, ci sono in gioco le condizioni materiali, di vita e di lavoro, di milioni di persone. La barzelletta che restringendo un po’ i diritti dei “vecchi garantiti” si allargheranno quelli dei giovani precari o disoccupati sono ormai vent’anni che ci viene servita come una minestra sempre più rancida. Di diritti, salario e tutele ne sono stati demoliti fin troppi, ma non c’è un solo lavoratore che ne abbia beneficiato.
È lotta di classe “dall’alto”, quella di Renzi, ma può e deve fare esplodere la lotta dal basso. Come? Trasformando l’opposizione di maniera, fiacca, tardiva, tremebonda, dei dirigenti della Cgil, in una insubordinazione generale che blocchi il paese e lasci il governo appeso per aria.
Il 25 ottobre la Cgil convoca una manifestazione nazionale a Piazza S. Giovanni, rilanciando la proposta iniziale della Fiom, contro il Jobs Act. È un passaggio decisivo e come tale dobbiamo prepararlo. Ci si dirà “ma come, dovremmo allinearci come soldatini dietro a quei sindacalisti che ci hanno mille volte tradito?” Lo scetticismo è fondato, ma la risposta è molto chiara: se il 25 ottobre la manifestazione fallisce, ad essere sconfitti non saranno i dirigenti sindacali, dei quali sinceramente non ci interessa più di tanto, ma saremo tutti noi. L’arroganza del governo raddoppierebbe e la partita sarebbe chiusa, almeno per questa fase.
Non andiamo in piazza per salvare l’onore di Susanna Camusso né tantomeno per rilasciare assegni in bianco. Bisogna essere in tanti e non deve essere una passeggiata, ci vuole una manifestazione combattiva che prenda (metaforicamente) per il collo i dirigenti della Fiom e della Cgil e li costringa ad assumersi le loro responsabilità. Quella data deve diventare il grimaldello per rompere definitivamente la fase della ritirata in ordine sparso, per serrare le fila e aprire una battaglia campale il cui passo successivo deve essere uno sciopero generale di 24 ore che blocchi il paese e apra una fase di mobilitazione prolungata, alternando iniziative di categoria, territoriali, articolate, a ulteriori scadenze generali. Il paese deve diventare ingovernabile. Una piattaforma offensiva, che a partire dalla difesa dello Statuto dei lavoratori metta la centro l’abolizione delle mille forme di precariato, la lotta al sottosalario, l’estensione dei diritti, può creaere le basi per una riunificazione nella lotta di tutta la classe lavoratrice.
A differenza del 2002 e del 1994 l’apparato sindacale è orfano della famigerata sponda politica. Non c’è ricambio di “governi amici” all’orizzonte e questo fatto mette i sudori freddi ai dirigenti sindacali. Anche sommate, le forze di sinistra che in parlamento potrebbero opporsi al Jobs Act (Sel, sinistre Pd da Civati a Bersani) non costituiscono uno schieramento sufficiente, per non parlare della loro mancanza di coesione (Bersani già annunciato “lealtà” al governo) e della loro piattaforma, comunque interna alla riforma Fornero e alla logica delle “tutele crescenti”.
Questa inadeguatezza di fondo dello schieramento riformista, che oggi viene costretto a questa battaglia suo malgrado, sicuramente costituisce il principale ostacolo per dispiegare il conflitto al livello imposto dalla sfida di Renzi. La medaglia ha tuttavia il suo rovescio: proprio la debolezza e il discredito dei gruppi dirigenti faranno emergere ogni giorno più chiaramente il problema politico del movimento operaio nel nostro paese: il partito di classe è necessario per dare spina dorsale al movimento, ma il movimento incipiente può creare un terreno più avanzato per affrontare il problema. Se le masse entrano in campo nessun ostacolo è insuperabile, e l’apparenza di invincibilità del Pd renziano può essere rapidamente messa a nudo.
6 ottobre 2014