L'editoriale del nuovo numero di Falcemartello
Riforme, riforme e ancora riforme. Il governo Renzi oramai produce riforme a livello industriale, annunciando “rivoluzioni” in tutti i campi possibili e immaginabili. Legge elettorale, Costituzione, lavoro, scuola, Rai e chi più ne ha più ne metta…
In Questa sarabanda legislativa si può però chiaramente riconoscere un unico filo conduttore: limitare le complicazioni della democrazia parlamentare, aumentare i poteri del governo e delineare un modello ben preciso di società in cui chi sta in alto decide e chi sta sotto obbedisce senza fare discussioni.
Basti pensare alla riforma costituzionale, in cui il parlamento viene di fatto dimezzato con un Senato ridotto di numero (da 315 a 100), non più eletto dal “popolo” (ma designato dai Consigli regionali) e mutilato di buona parte del suo potere legislativo. Anche la competenza legislativa delle Regioni viene decurtata, mentre l’unica istituzione a vedere rafforzati i propri poteri è l’esecutivo, i cui disegni di legge dovranno essere votati alla Camera al massimo entro 70 giorni.
Il governo si ergerà quindi minaccioso di fronte a un mezzo-parlamento e, giusto per star sicuro di non aver problemi con l’ultima Camera rimasta, potrà usufruire della nuova legge elettorale interamente volta a garantire al governo una maggioranza stabile in ogni caso… anche quando la maggioranza degli elettori non è d’accordo. Calcolatrice e risultati delle ultime elezioni europee alla mano, Renzi ha infatti confezionato l’Italicum come un vestito su misura per il suo Pd. Con almeno il 40 per cento dei voti si ottiene il premio di maggioranza, che garantisce il 54 per cento dei seggi. Se anche qualcosa dovesse andar storto, c’è il secondo turno dove solo le due liste più votate si contenderanno il premio di maggioranza, escludendo tutte le altre. All’atto pratico potrebbe avere la maggioranza assoluta in parlamento anche un partito che non ha ottenuto più del 30 o del 25 per cento dei voti al primo turno. Nel ballottaggio peraltro non è previsto alcun quorum di partecipazione e quindi il vincitore delle elezioni potrebbe anche essere consacrato da una parte molto ridotta dell’elettorato, il che non è secondario viste le percentuali di astensione
di questi tempi.
Nello stesso solco si muove peraltro la riforma della Rai, con cui il governo vuole aumentare la sua stretta sulla televisione pubblica. La commissione di vigilanza designata dal parlamento infatti passerà in secondo piano rispetto al super-amministratore delegato nominato direttamente dal governo.
Con tutto questo Renzi non fa che ratificare formalmente quella che è già una realtà di fatto in cui le vecchie forze politiche che hanno dominato il parlamento nell’ultimo ventennio sono a tal punto screditate e impopolari da dover cercare rifugio tra le forti braccia del potere esecutivo per poter sopravvivere. Basta dare un’occhiata alla vita parlamentare di questi tempi per vedere un’assemblea delegittimata di nominati (imposti dall’alto nelle liste bloccate senza essere stati votati da nessuno) e di transfughi (in 235 hanno già cambiato gruppo parlamentare dall’inizio della legislatura ad oggi e molti ne potrebbero seguire), terrorizzati dalla prospettiva di non essere rieletti in caso di nuove elezioni e pronti a stringersi attorno al governo per non perdere le proprie prebende. Dalle opposizioni parlamentari (o aspiranti tali) c’è quasi una gara a chi si precipita a sostenere la maggioranza: ex-berlusconiani orfani del Patto del Nazareno, fuoriusciti grillini in cerca di autore e bersaniani intenti a prendere le distanze più da Landini che da Renzi…
Le bordate del governo non sono dirette solo contro l’impalcatura istituzionale e i riti della democrazia formale, ma soprattutto contro quei diritti democratici ben più sostanziosi che nel corso degli anni sono stati conquistati con dure lotte dal movimento operaio e dal movimento studentesco. Sul posto di lavoro, con il Jobs act, i lavoratori che osano alzare la testa o mettere in discussione i diktat aziendali rischieranno di andare ad ingrossare le già numerose fila dei disoccupati. Nei luoghi di studio, con la riforma della “Buona scuola”, i vecchi organi collegiali democraticamente eletti verranno messi ai margini a favore dell’onnipotente preside manager, che tra le sue prerogative avrà pure quella di valutare e premiare gli insegnanti.
A onor del vero non si può certo dire che in passato si sia potuto godere di una democrazia piena ed effettiva. Dietro la facciata della sovranità “popolare”, tutte le decisioni importanti sono sempre state prese sotto l’influenza e nell’interesse dei grandi gruppi economici e finanziari, cui i “rappresentanti del popolo” erano legati da mille fili, non ultimo quello della corruzione. Ma oggi con la crisi che ancora incombe, il debito pubblico fuori controllo e l’abbraccio asfissiante dell’Unione europea che toglie ogni margine di manovra, la borghesia italiana deve indebolire quelle stesse istituzioni democratiche dietro alle quali ha nascosto in tutti questi anni il proprio dominio. Basta con le lungaggini, con le leggi che vengono rimbalzate da una Camera all’altra, con i compromessi tra i vari partiti e la concertazione con i sindacati. Questo è il grido di battaglia della classe dominante, schierata in una falange compatta a sostegno di Renzi, che passa come uno schiacciasassi sulle opposizioni parlamentari e sui sindacati.
Se Renzi sta riuscendo a fare tutto questo è per l’inadeguatezza delle politiche riformiste dei gruppi dirigenti della sinistra e dei sindacati, che non solo non sono stati in grado di organizzare una mobilitazione degna di questo nome contro il governo, ma soprattutto si illudono ancora di poter contrastare l’autoritarismo del premier appellandosi ai vecchi valori della Costituzione repubblicana e alla difesa delle istituzioni. Non si rendono conto che oramai non è più possibile tornare al passato. Di fronte alla classe dominante che svuota di significato i principi democratici per conservare il proprio potere, il compito delle classi oppresse non è certo quello di “riavvicinare i cittadini alle istituzioni” e cioè di rivitalizzare la democrazia borghese contro la volontà della borghesia stessa. Se il movimento operaio si vuole porre all’altezza della sfida, deve invece essere in grado di offrire un programma rivoluzionario ai quei milioni di lavoratori, studenti e disoccupati che con il loro rifiuto per la politica esprimono potenzialmente anche il rifiuto nei confronti del sistema capitalista nel suo complesso.
20 marzo 2015