Il capitalismo è in crisi. La produzione industriale, l’occupazione, il commercio mondiale crollano a ritmi che non si vedevano da tre generazioni. Gli strateghi del capitale si guardano attorno incapaci di proporre soluzioni efficaci, mentre sui media da tempo si è smesso di fare finta di nulla. Anzi a cominciare dal Sole-24 Ore, il quotidiano della Confindustria, si prova a far passare un messaggio che possiamo riassumere così: la causa della crisi è il risultato della mancanza di regole, dello strapotere della finanza. Ora servono tanti soldi pubblici per salvare la finanza, poi con nuove regole tutto tornerà a funzionare. Puniremo i banchieri corrotti e tutto andrà bene. Buoni ultimi, i dirigenti riformisti del movimento operaio si sono accorti della crisi e provano a sganciarsi anche loro dal treno del liberismo ormai deragliato.
Questa operazione, tipica di tutti i periodi di crisi, è ancora agli inizi, ma possiamo già coglierne alcuni elementi salienti, peraltro per nulla nuovi: recupero di alcuni aspetti del marxismo sterilizzati di ogni contenuto rivoluzionario, sottolineatura degli aspetti più secondari della crisi, pessimismo cosmico, proposte parziali e futili.
Il recente libro “Goodbye liberismo” dell’ex consigliere economico di Bertinotti Alfonso Gianni è un concentrato di tutti questi aspetti. Nel titolo c’è già contenuto il senso dell’impostazione: l’identificazione del capitalismo con il liberismo e dunque, a contrario, di ogni intervento pubblico con qualcosa di progressista. La storia dimostra come, identificare il capitalismo con la politica economica dominante in un determinato periodo, sia un errore colossale. La borghesia è molto flessibile e l’unica cosa che le interessa è conservare il suo potere, ossia il dominio sui mezzi di produzione. Che ciò avvenga grazie alle bande nazifasciste, agli interventi statali democristiani o al “libero mercato” è secondario, anche se ovviamente ha effetti importanti.
Indipendentemente dalla polemica che fino a ieri i capitalisti conducevano contro le aziende pubbliche e le nazionalizzazioni, la realtà è che la statalizzazione di branche dell’economia, è stato un sistema utilizzato da parecchi paesi capitalisti in diversi momenti della loro storia. Sostenere che il capitalismo si sia sviluppato esclusivamente come risultato dell’iniziativa privata è un falso storico. Quello che conta è a favore di chi si attua l’intervento pubblico. Per fare propaganda la borghesia spiega che il ruolo dello Stato deve essere il minimo possibile e l’iniziativa privata regnare sovrana e incontrastata, ma come si vede oggi, non ha problemi a ricorrere ai soldi pubblici e, come è successo più volte nella storia italiana, potrebbe accettare domani anche la nazionalizzazione di interi settori. Solo i riformisti si apprestano a benedire i salvataggi statali, con cui la borghesia sta cercando di uscire dalla crisi a spese dei lavoratori, con l’argomento che il liberismo è in crisi. Magra soddisfazione se i salari non aumentano, la precarietà non si riduce, i diritti dei lavoratori vengono ulteriormente affossati.
Riforma dell’Onu e del Fmi?
Questo ennesimo accodarsi dei riformisti alle esigenze della borghesia avviene sempre sul piano internazionale come sul piano nazionale. Così, Gianni sostiene la tesi della transizione “morbida” del potere mondiale verso la Cina (in analogia a quanto accadde, secondo lui, tra Inghilterra e Stati Uniti nel secolo scorso) e si limita a proporre soluzioni come lo “statuto mondiale del lavoro” e la riforma dell’Onu e del Fmi. Simili proposte facevano sorridere all’epoca dei primi raduni di Porto Alegre, quando il movimento “altermondialista” veniva presentato come un’alternativa al movimento operaio. Oggi, di fronte a questa spaventosa crisi del capitalismo, che persino Gianni riconduce alle classica categoria marxiana della sovrapproduzione, sono obiettivamente reazionarie, in quanto indicano agli attivisti misure che non inciderebbero in nulla nel miglioramento delle condizioni dei lavoratori, nemmeno se pienamente realizzate. Per cambiare seriamente la situazione dei lavoratori, la borghesia dovrebbe essere rovesciata, ma allora il Fondo Monetario andrebbe abolito non già riformato.
Le analisi di Gianni sono il perfetto epilogo del bertinottismo nell’epoca della crisi del capitalismo. L’unico a non accorgersene sembra il compagno Alberto Burgio, (vedi Liberazione del 29 aprile) che di questo insieme di futilità contesta l’unica cosa inoppugnabile e cioè che lo sviluppo della Cina persegua finalità capitalistiche. Nella sua analisi dell’opera di Gianni, Burgio ci spiega che se la Cina è capitalista allora la sinistra può solo stare a guardare nella lotta tra opposte potenze imperialiste. Aiuterebbe, nel sostenere la propria tesi, la citazione di una qualunque politica con cui la dirigenza cinese abbia contrastato l’imperialismo nel mondo. Burgio non ne cita, non ci stupiamo visto che semplicemente non ce ne sono. Molto accortamente, i dirigenti di Pechino approfittano dell’indebolimento di questa o quella potenza imperialista per sostituirsi ad essa.
I comunisti e la Cina capitalista
L’intervento cinese in Africa o America Latina è un buon esempio. Lo scopo è assicurarsi l’approvvigionamento di materie prime e anche la presenza in mercati emergenti. Nulla di diverso di quello che hanno fatto in passato altri paesi capitalisti. Allo stesso tempo, nulla nelle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori cinesi fa presupporre il fiorire del socialismo nella Repubblica “popolare” cinese. Nulla, nei rapporti con i paesi emergenti, tolta la retorica anti-americana, indica un atteggiamento differente da quello del capitalismo statunitense. Tale retorica poi, non è certo nulla di nuovo. Persino le potenze emergenti del capitalismo di un secolo fa, come la Germania e l’Italia, usavano una retorica anticoloniale contro la Francia o la Gran Bretagna, esprimendo il semplice fatto che stavano diventando potenze imperialiste quando già le colonie erano state spartite. Ma i comunisti all’epoca non si sono lasciati abbindolare da questa retorica. Sarebbe criminale cascarci oggi.
Lungi dallo “stare a guardare” il movimento comunista ha molto da proporre ai lavoratori di tutto il mondo, a partire dal potente proletariato cinese. Non si tratta di appoggiare acriticamente le manovre di questo o quel leader che per i propri scopi può oggi criticare l’America ma domani accordarsi con essa. Si tratta di ribadire l’assoluta necessità dell’indipendenza di classe dei lavoratori, siano essi europei, americani, asiatici. La nascita di un movimento operaio indipendente dalla burocrazia del cosiddetto partito comunista cinese sarebbe un passo avanti epocale e verrebbe visto con terrore tanto a Pechino quanto nelle capitali dei paesi imperialisti. Aiutare i lavoratori dei nuovi paesi industrializzati a liberarsi di burocrati e riformisti, è il compito dei comunisti, altro che stare a guardare.
Legare le prospettive del movimento operaio alla buona volontà di qualche dirigente illuminato è peraltro una politica vecchissima. Declinata diversamente e definita con nomi diversi (fronte popolare, compromesso storico) accompagna il movimento operaio italiano da quando alla fine degli anni ’20 lo stalinismo riuscì a vincere nel Pci. È la stessa politica che ci ha condotto al governo con Prodi, a livello internazionale, è la stessa politica che costringe il partito comunista sudafricano a ubbidire ai vertici corrotti dell’ANC, che spinge oggi il partito comunista russo a parlare bene di Putin e quello americano di Obama. È una politica che porta solo alla collaborazione di classe o all’impotenza, visto che su quelle basi non ci costruiranno mai le basi di un potente movimento di lotta dei lavoratori.
È giusto criticare Gianni quando si limita a dire “goodbye” al liberismo. Ma limitarsi a dire che: “… sottovaluta l’alterità tra capitalismo e potenze emergenti (non soltanto la Cina, l’India e la Russia, ma anche gli Stati democratici dell’America latina” è insufficiente e sbagliato. Porta il compagno Burgio a concludere così: “È questa organicità del conflitto globale a porre all’ordine del giorno il tema di una transizione sistemica, che altrimenti sarebbe utopico o addirittura impensabile”. Questo significa sostenere che il capitalismo può essere abbattuto (posto che “transizione sistemica” vada interpretato in questo senso) solo come risultato di scontri tra gli Stati Uniti e l?Europa e le potenze emergenti. Si tratterebbe, per i comunisti italiani e a livello internazionale, di accodarsi ai capi di quei governi che (secondo Burgio) sfidano la potenza americana.
Che cosa dovrebbero fare i lavoratori cinesi o russi o indiani? Se lottano mettono in difficoltà i nemici degli Stati Uniti. Dovrebbero dunque, presumibilmente, rinunciare alla lotta di classe e abbracciare il più assoluto nazionalismo. Si tratta di posizioni evidentemente insostenibili soprattutto in questa epoca di crisi. Ricordano le posizioni dei dirigenti stalinisti dei decenni passati senza però poter dire di sostenere un sistema post-capitalista. Simili analisi scontano il fatto che in Rifondazione non è mai stato afferrato il toro per le corna. I dirigenti del Prc non hanno mai voluto analizzare seriamente le cause del crollo dei regimi del cosiddetto “socialismo reale”. Sono passati 20 anni dal crollo del muro di Berlino, sarebbe un buon momento per recuperare il tempo perso. Non farlo, ha dato molti argomenti alla borghesia, confondendo i lavoratori e, come si vede, ancora oggi può portare a errori politici grossolani circa gli interessi di classe delle “potenze emergenti”.