Rendiamo disponibile ai nostri lettori questo opuscolo sulla precarietà prodotto dalla redazione di FalceMartello in occasione della manifestazione del 4 novembre a Roma. Per richiedere delle copie cartacee da diffondere nel proprio luogo di lavoro o di studio, il costo è di un euro a copia ed invitiamo a scrivere direttamente alla redazione.
Da tempo ormai la propaganda padronale sulle tante opportunità che la flessibilità offre, ha dimostrato la sua falsità. I dati sono lì a dimostrarlo: in Italia si è superata la soglia dei 5 milioni di precari. Il lavoro nero è aumentato e la tanto declamata competitività del sistema Italia non ha fatto un solo passo avanti. Recentemente il World economic found (nota rivista economica specializzata) ha pubblicato i risultati della classifica sulla competitività mondiale, ancora una volta l’Italia segna un passo indietro, passando dal 38° al 42° posto (La Repubblica 21 settembre 2006). In compenso grazie a controriforme come la Bossi-Fini, il pacchetto Treu e la legge 30 i padroni sono riusciti a ottenere salari più bassi e più ricattabilità nei luoghi di lavoro.
Flessibilità e disoccupazione
È totalmente falso che un mercato del lavoro flessibile permetta di sconfiggere il problema della disoccupazione, sempre che non si usino trucchetti per falsificare i dati. Prima di fornirne qualcuno, è importante rilevare che per l’Istat con il termine “occupati” intende le persone con più di 15 anni che nella settimana di rilevamento facciano almeno un’ora di lavoro che preveda un corrispettivo economico. Dunque per l’istituto di ricerca ufficiale che contabilizza la disoccupazione nel nostro paese chi lavora un’ora alla settimana vale come chi ne lavora 40. Il dato attuale dunque che indica nella percentuale del 7% la disoccupazione oggi, su base nazionale, in calo rispetto agli anni precedenti, dice davvero poco.
C’è un secondo dato che è usato a sproposito, cioè quello delle “persone in cerca di occupazione” che secondo l’Istat sarebbe in netto calo, nel secondo trimestre del 2006 di circa l’11% rispetto al 2005. È bene sottolineare, tuttavia, che in questi anni vi è stata una crescita dello scoraggiamento da parte di chi potenzialmente cercherebbe lavoro e non lo fa perché non crede più, e a ragione, agli strumenti che lo Stato mette a disposizione come i centri per l’impiego che da anni hanno definitivamente sostituito i vecchi uffici di collocamento.
Un dato invece che rende molto meglio l’idea è il numero delle “Unità di Lavoro Standard” (ULA). Le ULA sarebbero le posizioni lavorataqive la cui prestazione media è ricondotta a un lavoro di 40 ore settimanali. In pratica, i diversi lavoretti di ognuno vengono ricompresi in una sola Unità di Lavoro che è pari a 40 ore. L’effetto è di ridurre enormemente il dato vero dell’occupazione e tra l’altro questo dato è in calo tendenziale. La Banca d’Italia sostiene che nel 2005 vi è stata una contrazione di ULA rispetto all’anno precedente di 110 mila unità.
L’analisi che facciamo è decisamente diversa dunque da quella propostaci da lor signori. Negli ultimi 10 anni, periodo in cui le politiche della flessibilità hanno notevolmente trasformato la legislazione sul lavoro, il turn-over a fronte di pensionamenti, ristrutturazioni aziendali, la riorganizzazione e la chiusura di aziende con conseguente licenziamenti di massa e l’inserimento nel mercato del lavoro di nuove forze hanno radicalmente trasformato la composizione dei contratti di lavoro. A fronte di una quasi totalità dei contratti di lavoro a tempo indeterminato di 10 anni fa il lavoro è oggi precario.
Non calo della disoccupazione, dunque, ma aumento della precarietà, e quando, per l’effetto di congiunture economiche favorevoli, è cresciuta la domanda di lavoro da parte delle imprese, queste hanno avuto l’occasione di utilizzare tipologie di contratto precari. Non cresce l’occupazione grazie alla possibilità di utilizzo di questi contratti ma, viceversa, la precarietà aumenta quando le aziende hanno bisogno di assumere. Il fatto che nel mezzogiorno la disoccupazione resti, nonostante i criteri sopra menzionati, attorno al 12% dimostra che la precarietà cresce dove la domanda di manodopera è di per sé più alta.
Aumenta la precarietà
I lavoratori con contratti a tempo determinato sono aumentati a ritmi sostenuti, portando a circa il 14% l’incidenza sul totale degli occupati dipendenti, se si escludono gli addetti all’agricoltura e al settore turistico-commerciale, dove è sempre stata alta l’incidenza dei lavoratori stagionali. Nel terziario la percentuale si aggira attorno al 47%. Allo stesso modo, è in crescita la quota di lavoratori con contratto a tempo parziale sul totale dei dipendenti, il13% circa arrivando a quasi il 20% nel settore terziario privato.
Più elevata è, inoltre, la quota delle donne con contratti a termine (15%) e, soprattutto, quella dei giovani con meno di trent’anni, che raddoppia rispetto alla media degli occupati in generale.
Come spesso accade però, la realtà dietro i dati ufficiali è anche peggiore. Se, come fa uno studio della Cgil, aggiungiamo ai 2 milioni e 214 mila lavoratori a termine più di 500 mila “somministrazioni” (ex interinali) per circa 350-400 mila lavoratori l’anno (dati Confinterim 2004), 1 milione e mezzo di Co.co.co. e Co.co.pro. secondo i contributi versati all’Inps, alcune centinaia di migliaia di collaboratori occasioni e 350 mila partite IVA di coloro che non sono né imprenditori né professionisti iscritti a ordini professionali o albi con un reddito annuo inferiore ai 25 mila euro e una parte dei circa 400 mila “associati in partecipazione” viene fuori una popolazione di oltre 5 milioni di lavoratori, più del 30% del totale dei lavoratori dipendenti. Un settore ampio della classe lavoratrice, dunque, che a tutti gli effetti è sottoposto alla minaccia costante della scadenza del proprio contratto e dalla speranza del suo rinnovo.
Dati comunque destinati ad crescere. Interessante, infatti, è l’indagine annuale “Excelsior” condotta da Unioncamere e Ministero del Lavoro (fatalmente svolti attraverso questionari somministrati telefonicamente dai precari del call center di Atesia) che su un campione di imprese scelte a caso rileva che il 50% delle
nuove assunzioni ha un contratto a termine. In pratica per ogni due assunti ad uno di loro sarà proposto un contratto precario, percentuale che cresce al 66,5% se ci concentriamo al settore turismo. Non è casuale dunque il dato che fornisce la Banca d’Italia quando spiega che negli ultimi anni è aumentato il divario tra i salari medi e quelli di ingresso.
La precarietà tenderà a crescere finché i padroni hanno la possibilità di proporre questi contratti e se vi è un esercito di disoccupati (o precari che siano poco importa) che hanno bisogno di lavorare. Per questo pensiamo sia necessario togliere i giovani e i disoccupati dalla costrizione di dover accettare contratti senza diritti e lavori per nulla dignitosi. Oggi esiste un meccanismo di indennità di disoccupazione paradossale per cui ottiene l’indennità chi lavora e versa dei contributi. In pratica oggi ha diritto ad un contributo dello Stato chi accetta di diventare precario! Un bel contributo alla causa… dei padroni! L’unico modo per sconfiggere il precariato e il lavoro nero è prevedere un salario garantito per disoccupati e inoccupati (per la legge chi è in cerca di prima occupazione) che potrebbe essere pari al 70% di un operaio qualificato (circa 800 euro).
Stage, scuola-lavoro, apprendistato
Dopo la precarizzazione del mondo del lavoro Confindustria vuole sfruttare le scuole e le università come riserva di mano d’opera gratuita e senza alcuna tutela o diritto. Questo, se applicato, ha un duplice effetto: l’allargamento del cosiddetto esercito di riserva attraverso cui ricattare gli attuali lavoratori, oltre che un sistema per formare gli studenti ad un futuro precario e senza diritti.
Il primo passo in questa direzione è rappresentato dalla generalizzazione dell’odiosa pratica degli stage. Nella stragrande maggioranza la loro valenza formativa è solo legata all’imparare a usare la fotocopiatrice, rispondere al telefono, fare mansioni di basso profilo, oppure, nel migliore dei casi essere semplicemente relegati a guardare quello che fanno i normali lavoratori, in quanto impossibilitati a usare i macchinari per ragioni di sicurezza. Un’altra menzogna da sfatare è che, fatto lo stage, poi ci sono ottime possibilità che l’impresa ti assuma, perché ti conosce già. Il problema è che a chi dirige le imprese non interessa molto il singolo studente ma semplicemente aumentare i propri profitti; per questo preferirà continuare all’infinito la rotazione degli studenti in stage, quindi a costo zero, per le mansioni di basso livello piuttosto che assumerli. In vari casi, soprattutto nei professionali, lo stage è già ora, nei fatti, alternanza scuola-lavoro, vista la durata anche superiore ai tre mesi.
Al posto dell’istruzione si vuole costringere gli studenti a fare dell’apprendistato non retrubuito. Il compito della scuola dovrebbe essere non quello di fare apprendistato (anche se ci sarebbe parecchio da dire sulle condizioni che subiscono i lavoratori con quel tipo di contratto) ma di istruire. È evidente che, in particolare per le scuole tecniche e professionali, l’istruzione non può essere solamente frontale. Primo compito di una vera scuola pubblica dovrebbe essere quello di potenziare i laboratori, in maniera tale che all’interno delle scuole si possa fare sia istruzione teorica che pratica. Tuttavia, in alcuni casi specifici, dove l’esperienza diretta non è riproponibile all’interno della scuola, è possibile accettare dei brevi periodi di stage, ma solo a determinate condizioni. Innanzitutto gli studenti in stage devono essere retribuiti e avere i medesimi diritti degli altri lavoratori. Perché la ricchezza prodotta da uno studente dovrebbe finire interamente nelle tasche del padrone? Perché uno studente in fabbrica dovrebbe avere meno diritti di un lavoratore?
Inoltre per garantire che abbiano una valenza formativa devono essere sotto lo stretto controllo di rappresentanze studentesche, degli insegnanti e dei lavoratori dell’impresa. È con essi che il Dirigente Scolastico da una parte e il Padrone dell’impresa dall’altro devono stabilire le condizioni precise, per la loro eventuale effettuazione.
Co.co.co. e co.co.pro.,
ovvero come ti supero i Contratti Nazionali di Lavoro
Con la Riforma Dini del ’95 è nata la gestione separata presso l’Inps, un fondo separato da quello dei dipendenti nel quale vengono versati i contributi dei collaboratori. Da allora si è sviluppata la moda dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.) e, dalla legge 30 in poi, dei contratti a progetto.
Prima che il governo D’Alema modificasse la normativa era possibile prevedere questi contratti solo per le alte professionalità e per il lavoro intellettuale. I teoria sono vietati vincoli di orario, dovrebbe esserci la massima autonomia nella gestione del rapporto di lavoro da parte del lavoratore. Nella pratica non è così. Nel 2004 il 91,3% dei collaboratori ha lavorato per un solo committente, l’81,5% ha lavorato in una sede fissa e al 60,1% è stato imposto un orario di lavoro.
È inequivocabile il fatto che queste forme di lavoro siano semplicemente una modalità, da parte delle aziende, per scavalcare i contratti nazionali di lavoro. I contratti di tipo autonomo, i “parasubordinati”, sono contratti individuali.
La legge 30 che, ad eccezione del pubblico impiego, ha sostituito i Co.co.co. con i contratti a progetto non ha mutato la situazione. Secondo una ricerca Ires-Cgil dopo la legge 30 soltanto il 6,5% degli ex collaboratori ha visto il suo contratto trasformarsi in un contratto a tempo indeterminato, il 7,3% degli ex Co.co.co. oggi non lavora più o lavora senza alcun tipo di contratto, solo il 6% degli attuali collaboratori pensa che allo scadere dell’attuale contratto verrà assunto. A due anni dalla legge 30, il 46% dei Co.co.co. è un lavoratore a progetto, della restante parte, il 23% è rimasto un Co.co.co. Nel pubblico impiego, dove negli ultimi anni la pratica di attivare questo tipo di contratti, soprattutto negli enti locali, si è ampiamente diffusa, il 5,8 per cento è stato indotto dal proprio committente ad aprire la partita Iva.
Secondo la stessa indagine oltre la metà dei collaboratori svolge un orario superiore a quello standard, ossia più di 38 ore a settimana, in particolare nel privato. E nonostante le giornate lavorative lunghe ben il 46% ha una retribuzione inferiore a 1.000 euro al mese.
Il movimento operaio, attraverso lotte di massa, ha conquistato i contratti nazionali che tutelano il lavoro dipendente in tutti i suoi aspetti, prevedendo ad esempio, dei minimi sindacali. I padroni, attraverso i loro rappresentanti al governo,
non potendo derogare, sostanzialmente si sono inventati questa forma contrattuale che gli permette di “trattare” individualmente con i lavoratori i diritti. Ma come ben si sa tra padrone e lavoratore, sul piano individuale, non c’è trattativa, è il primo che decide.
Non è casuale che il 58,2% di questi contratti siano stipulati a donne, in un contesto in cui è più alta la disoccupazione femminile. Sono più ricattabili e accettano più facilmente compensi bassi.
Per questo non può che essere considerato un attacco agli interessi dei lavoratori e un colpo ai loro salari l’aumento previsto nella Legge Finanziaria del 2007 dell’aliquota contributiva dei Co.co.co. e Co.co.pro. dal 18,2% al 23%. Le aziende trasferiranno questo aggravio, di cui i 2/3 formalmente spetterebbe pagare a loro, sulle buste paga dei collaboratori.
I Co.co.co. e i contratti a progetto non hanno un’indennità di malattia, hanno diritto ad una ridicola diaria giornaliera in caso di infortunio sul lavoro e un’altrettanta scarsa indennità di maternità, il tutto nella massima precarietà e instabilità. Nessuna banca concederà mai un prestito ad un collaboratore senza la certezza di un reddito stabile né, tantomeno, un mutuo per comprare una casa. Spesso anche una casa in affitto è difficile da trovare senza la garanzia di un reddito per proprietari e agenzie immobiliari sempre più esigenti.
Esistono altre forme contrattuali per chi voglia mantenersi lavoratore autonomo, per i veri liberi professionisti, quelli con redditi alti e una forza contrattuale notevole, l’unica strada invece, per eliminare la precarietà, è l’abolizione dei co.co.co. e co.pro. e la trasformazione di tutti questi contratti in contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato.
Primo governo Prodi e Pacchetto Treu
Il primo governo di centrosinistra è stato un vero e proprio martello pneumatico nel demolire le condizioni di lavoro e aprire la strada al precariato. Nel 1997 il governo, con l’approvazione dei vertici sindacali, ha approvato un pacchetto di controriforme che prevedeva, di fatto, la legalizzazione del caporalato con la nascita, anche in Italia, delle agenzie di lavoro interinale.
Da allora, il lavoro precario, che prima era ancora marginale, ha trasformato le condizioni di vita di milioni di persone. Inizialmente il lavoro interinale doveva essere utilizzato solo per figure di alta professionalità ed escludere alcune categorie, tra cui il pubblico impiego e il lavoro agricolo. Con queste motivazioni le organizzazioni del movimento operaio accettarono e in alcuni casi esultarono per l’approvazione di questa legge che, a loro dire, conteneva tutta una serie di rigidità che avrebbero tutelato i lavoratori. Un po’ alla volta però queste rigidità furono eliminate da governi successivi fino a quando Maroni ha completamente deregolamentato il lavoro interinale con la Legge 30. Prima che fosse approvata la legge 30, in media, venivano stipulati fino a 700 mila contratti interinali all’anno, oggi la media è calata a 450 mila circa ma è aumentato l’utilizzo di altre tipologie contrattuali precarie persino peggiori.
Il pacchetto Treu conteneva anche un innalzamento scandaloso del limite d’età consentito per l’apprendistato fino a 24 anni, e per il sud fino a 26 anni.
Di fatto, sul tema del lavoro, come su altri, il primo governo di centrosinistra ha confermato quanto ha spiegato chi da sempre si batte contro la precarietà. Le organizzazioni dei lavoratori, e la loro capacità di incutere fiducia e attesa, sono state utilizzate da Confindustria e padronato per sfondare con la precarietà. Basso livello di scontro sociale, mai nemmeno un’ora di sciopero, questo ha permesso di modificare il mercato del lavoro che prima nessun governo era riuscito a fare in termini così massicci. Altre controriforme di quegli anni, come la Turco-Napolitano, la Berlinguer e la Zecchino nelle scuole e nelle università hanno fatto il resto.
Governo Berlusconi e Legge 30
Per voler usare una metafora è come se il centrosinistra avesse rotto la diga. Il governo Berlusconi ha avuto campo libero proprio come quando l’acqua non trova più ostacoli. La legge 30 ha “inventato” decine di nuove forme contrattuali che fanno a gara tra loro a chi precarizza di più il rapporto di lavoro. Ha esteso l’apprendistato fino all’età di 26 o 29 anni, al sud oltre i trent’anni, a seconda del titolo di studio posseduto, dando la possibilità alle aziende di stipulare contratti di apprendistato fino ad un massimo di 60 mesi. Ha fatto nascere i “contratti di inserimento” che prevedono la possibilità di assumere i soggetti considerati deboli (la lista dei soggetti considerati “deboli” è lunga e vi rientrano anche le donne) con un salario di due livelli di inquadramento inferiore alla qualifica per la quale si viene assunti.
Accordi politici a livello regionale prima e la contrattazione sindacale poi hanno contribuito ad applicare la legge 30.
Sempre più spesso, in particolare nell’industria, si è fatto strada l’utilizzo del contratto di apprendistato. Dopo una gavetta che può durare mesi se non anni (contratti interinali e a tempo determinato) il lavoratore vede finalmente all’orizzonte un contratto un po’ più stabile, visto che teoricamente dopo un periodo che può durare anche 60 mesi dovrebbe essere assunto a tempo indeterminato. Ma mentre il ricatto in quei mesi di prova è concreto, mentre il lavoratore che deve “apprendere” (in pratica un giovane lavoratore per imparare ad avvitare dei bulloni o a far funzionare una macchina ha bisogno di 5 anni) guadagna cifre significativamente più basse dei propri compagni di lavoro, e l’azienda paga per ogni apprendista circa 2,50 euro a settimana di contributi all’Inps e nelle aziende artigiane, per ogni apprendista la bellezza di… 2 centesimi di contributi a settimana. Inoltre non hanno diritto alla malattia pagata e, nel caso non gli si trasformasse il contratto, nemmeno alla misera indennità di disoccupazione come prevista per altri lavoratori.
Anche, e ancora di più, nel caso del governo Berlusconi altri provvedimenti hanno massacrato i giovani incentivando la precarietà o colpendo i precari stessi. È il caso della legge Bossi-Fini che prevede il rimpatrio nel caso in cui l’immigrato non abbia un contratto di lavoro della durata di almeno un anno, dopo un periodo di “purgatorio” (in questo caso però vero e proprio inferno) nei Centri di Permanenza Temporanea (cpt). Ovviamente non era intenzione dei firmatari della legge combattere la precarietà ma piuttosto attaccare i precari immigrati! È il caso della riforma Moratti che prevede, tra altre cose, la possibilità da parte dell’università di stipulare Co.co.co. a ricercatori e personali universitario.
La legge 30 va abrogata senza tentennamenti così come tutti i successivi decreti applicativi. Ciò deve valere per le altre leggi razziste e classiste come la Bossi-Fini e la Moratti.
Abrogazione della legge 30?
Sempre più spesso nell’ultimo periodo si fa un gran parlare non più di abrogazione della legge 30, slogan sbandierato dalla Cgil e dai partiti della sinistra radicale durante la campagna elettorale, ma di una sua riforma.
Si parla di cancellare il “job on call” (lavoro a chiamata) e lo staff leasing (lavoro ad intermittenza). Di alzare i contributi del lavoro parasubordinato e eventualmente allargare ai lavoratori precari una serie di diritti che per quelli a tempo determinato sono una conquista consolidata da tempo, tipo maternità, malattia, accesso al credito ecc. In pratica oggi si parla di voler eliminare due tipologie contrattuali che i padroni non usano, o che usano in modo assolutamente irrisorio, e di dare ai lavoratori precari un surrogato dei diritti di cui avrebbero bisogno.
Qualsiasi proposta alternativa alla lotta per l’abrogazione delle leggi che precarizzano (che deve per forza di cose essere accompagnata da una piattaforma avanzata che difenda ed estenda a tutti i diritti del mondo del lavoro) è destina a portarci sulla strada sbagliata, la strada della delega ai vertici sindacali o al parlamento dove oggi non sussistono i rapporti di forza necessari per produrre una legge che realmente difenda i nostri interessi.
Pensiamo quale impatto potrebbe avere tra milioni di giovani e lavoratori la conquista sul campo dell’abrogazione effettiva di tutte le leggi che precarizzano il lavoro, e di quante nuove energie sprigionerebbe una vittoria del genere.
Il caso Atesia
Se negli ultimi mesi il dibattito sulla precarietà ha avuto particolare visibilità questo lo si deve anche alla vertenza al più grande Call center d’Italia, Atesia. Call center dove oltre 4mila lavoratori a progetto hanno portato avanti una lotta con scioperi spesso molto riusciti. Negli scorsi mesi l’Ispettorato del lavoro, dopo più ispezioni, ha stabilito che i circa 4mila lavoratori al Call center con un contratto di collaborazione a progetto erano da configurarsi come lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, in pratica come i lavoratori avevano da sempre rivendicato. L’Ispettorato, che ricordiamo dipende dal Ministero del Lavoro, ha sentenziato che tutti i lavoratori dovevano essere trasformati appunto a tempo indeterminato e l’azienda doveva provvedere a pagare i contributi previdenziali non pagati.
Ma il ministro Damiano la pensa diversamente e con una circolare ha cancellato questa decisione stabilendo chel’assunzione vale per i lavoratori al call center in “inbound” (cioè quelli che rispondono alle telefonate degli utenti) e non vale per i lavoratori in “outbound” (coloro che telefonano a casa degli utenti, di solito per fare promozione). Secondo il ministro chi lavora in outbound è autonomo e decide del proprio lavoro. Se non ci fossero dei risvolti tragici dietro questa vicenda tutto ciò farebbe ridere! Damiano, tra l’altro, se avesse mai lavorato ad un call-center, saprebbe che a molti operatori viene chiesto sia di fare inbound sia outbound.
Ma non finisce qui. Nell’art. 178 della legge Finanziaria è prevista una maxi-sanatoria per tutte le imprese “beccate” dall’Ispettorato del lavoro, una sorta di “condono co-co-pro”. Dunque dopo aver criticato per anni i condoni agli
evasori fatti da Berlusconi il governo Prodi fa altrettanto. La Finanziaria recita: “l’accesso alla procedura è consentito ai datori di lavoro che siano stati destinatari di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali non definitivi concernenti la qualificazione del rapporto di lavoro…”. Quest’articolo della Finanziaria è supportato da un accordo sindacale siglato il 4 ottobre che va nella stessa direzione. Per dirla
con Sciotto, autore di un ottimo articolo uscito su Il Manifesto il 6 Ottobre “…siamo ancora in fase di ricorso dell’azienda e intanto è sopravvenuto un accordo interconfederale che dispone l’applicazione della circolare Damiano per l’intero settore call center”.
Tra l’altro, così come prevedeva l’accordo sindacale precedente alla sentenza dell’Ispettorato del Lavoro, la stessa Finanziaria parla di “passaggi a lavoro subordinato” senza specificare che devono essere a tempo indeterminato. Dunque potranno essere in apprendistato, a somministrazione o a tempo determinato.
Organizzarsi e lottare
La linea concertativa del sindacato di questi anni ha permesso tutto questo. Per ogni rivendicazione o aumento salariale che si otteneva, magari parzialmente, spesso senza alcuna mobilitazione come il metodo della concertazione prevede, si cedeva sul piano della flessibilità. In tutti i Contratti Collettivi Nazionali è andata ampliandosi la percentuale dei contratti a tempo determinato stipulabili in azienda. Lo stesso orario di lavoro è un tema contrattato al ribasso, la flessibilità la fa da padrona anche in questo caso. In moltissimi Contratti nazionali è prevista la “banca ore” o il “multiperiodale” che, sostanzialmente, prevedono la possibilità per
le aziende di chiedere più ore quando ne hanno bisogno e di lasciare a casa quando c’è meno lavoro. Nel part-time, è prevista una clausola che concede ai padroni la possibilità di chiedere lavoro supplementare (non più “straordinario” nemmeno nel nome) quando, a loro giudizio, necessita.
È necessario imporre una svolta. I precari possono e devono costringere il sindacato a cambiare linea. La concertazione fa gli interessi del padronato.
Esperienze di questi anni dimostrano che dal basso ci si può e ci si deve organizzare per difendere e migliorare le proprie condizioni di lavoro. È normale che inizialmente i lavoratori precari, essendo i più ricattati, più difficilmente si impegnino sindacalmente. Ma questa situazione non può durare per sempre e, come mostrano molte vertenze di questi anni, alcune di queste vincenti, bisogna organizzarsi.
Vanno costruiti comitati, che raccolgano lavoratori precari, che non abbiano un approccio settario nei confronti del sindacato e che, anzi, ad esso si orientino e magari aderiscano, perché solo se costruiamo le condizioni perché il sindacato torni ad essere dei lavoratori è possibile generalizzare la lotta contro la precarietà e vincere. I lavoratori precari, quando capiscono che non hanno più nulla da perdere, da settore arretrato sindacalmente possono diventare la parte più avanzata.
Va sviluppata una piattaforma combattiva e concreta, che parta dai problemi minimi, da una semplice pausa non concessa alla soluzione del problema della precarietà. È sbagliatissimo lottare solo per eliminare la precarietà senza porsi il problema di costruire delle vertenze su questioni minime ma che possono essere importanti per i lavoratori. Si lotti, ad esempio, quando ad un compagno di lavoro non viene rinnovato il contratto e si chieda il suo reintegro. Altrettanto sbagliato è pensare di risolvere singole questioni minime senza ampliare il ragionamento, la precarietà deve essere eliminata.
Ogni piattaforma, dunque, non deve calare dall’alto ma deve nascere dalla discussione tra i lavoratori. Alcune questioni da rivendicare sia in un singolo posto di lavoro, sia in una piattaforma nazionale potrebbero essere:
• Diritti sindacali, diritto a riunirsi in assemblea, per i precari non è per nulla scontato anche se per i dipendenti sarebbe previsto nei Contratto nazionale di lavoro;
• Ad uguale mansione stesso salario. Questo deve valere per i lavoratori della stessa qualifica, per quelli dipendenti o collaboratori di diverse agenzie ma che lavorano nella stessa aziende, deve valere per uomini e donne;
• Aumenti salariali consistenti, almeno del 20% delle attuali retribuzioni, quantificabili in 200 euro mensili, per recuperare quanto perso negli ultimi 15 anni;
• Diritto alle ferie retribuite per tutti i lavoratori precari di almeno 3 settimane;
• Diritto alla malattia e ad un’indennità a fronte di un infortunio pari al 100% della retribuzione;
• Diritto alla maternità e ai congedi parentali, tutti le lavoratrici e i lavoratori devono avere gli stessi diritti a prescindere dal loro contratto;
• Ai lavoratori precari devono essere corrisposti i premi di produttività, di risultato e in generale il salario variabile che i CCNL prevedono per i lavoratori a tempo indeterminato;
• L’orario di lavoro non può essere deciso unilateralmente dalle aziende, la flessibilità dell’orario è un arma in mano ai padroni;
• Riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per creare nuovo e vero lavoro;
• Trasformazione di tutti i contratti precari in contratti a tempo indeterminato.
Unità del movimento operaio
Sempre più giovani e lavoratori si rendono conto che la precarietà va combattuta, ma questa lotta non potrà avere sbocchi se non si unirà ad una mobilitazione più ampia che deve unificare tutti i settori della classe operaia sotto attacco. È impensabile credere che sarà il governo a risolvere questi problemi, non solo per quanto ha dimostrato finora, ma anche perché ormai è evidente a tutti come in parlamento ormai da tempo assistiamo a manovre sempre più evidenti per spostare ancora più a destra l’asse del governo.
È altrettanto impensabile che la lotta al precariato possa essere portata avanti separatamente dalla lotta per difendere il diritto alla pensione e a un contratto dignitoso. Qualsiasi attacco della Confindustria al contratto nazionale, ogni attacco alla pensione, qualsiasi nuova concertazione a prescindere dal nome che prenderà, sarà un passo indietro per tutti i lavoratori, precari e non. Una difesa a tutto campo dei nostri interessi è alla nostra portata.
Non solo perché gli ultimi anni hanno dimostrato che la classe operaia è in grado di mobilitarsi con obbiettivi e forme di lotta più incisive, vedi gli operai di Melfi o gli autoferrotranvieri, o le mobilitazioni di massa del 2002 contro l’attacco allo Statuto dei lavoratori, ma anche per quanto hanno saputo dimostrare sul campo proprio i lavoratori più ricattati come quelli di Atesia, Cos, gli insegnanti e i ricercatori, settori che fino a non molto tempo fa pochi avrebbero creduto in grado di lottare.
Se in questi anni le varie lotte che si sono succedute non hanno ottenuto quanto realmente perseguivano e non hanno dato vita a una mobilitazione più estesa non lo si deve all’incapacità o peggio alla non volontà dei lavoratori di lottare, ma alla mancata volontà dei vertici sindacali di dirigere le mobilitazioni. Per questo l’unica alternativa è lottare con un fronte unito anche per:
• Difesa della pensione, per cancellare tutte le controriforme dalla riforma Dini del ’95 in poi che stanno smantellando la pensione pubblica;
• Il tfr non si deve toccare, è salario dei lavoratori accantonato. Piuttosto va esteso a tutti i lavoratori, anche quelli precari, come i co.co.co. e i co.co.pro., che oggi non ce l’hanno;
• Estensione a tutti i lavoratori dell’art. 18, compresi precari e in aziende al di sotto dei 15 dipendenti;
• Riduzione d’orario a partià di salario senza scambi su orari di lavoro, ritmi e flessibilità in generale;
• No alla concertazione, per una Cgil combattiva che difenda in maniera intransigente gli interessi dei lavoratori! Il sindacato sia dei lavoratori!
Nessuno verrà a risolverci i problemi dall’alto, la conquista di migliori condizioni di lavoro e salariali è legata solo ed esclusivamente alla nostra capacità di mettere in campo in futuro rapporti di forza tali da costringere la controparte a cedere. È vero, tutto questo programma non è compatibile con l’attuale sistema economico. Ma è il capitalismo che non è compatibile con un lavoro e una vita dignitosa e per questo è necessario generalizzare la lotta per trasformare la società. Il nostro futuro può cambiare.
Cronologia controriforme del lavoro
1984 Nascono i contratti di formazione lavoro (Cfl). Sono a termine di 18 o 24 mesi.
1987 Viene previsto nei Contratti nazionali il contratto a termine anche per lavori non stagionali. Negli accordi di luglio, oltre ad essere prevista la concertazione su reddito, salario e occupazione, viene inserito un pre-accordo sulla regolamentazione del lavoro interinale.
Prima metà degli anni ’90 In diversi territori, in particolare nel mezzogiorno, vengono siglati i “contratti d’area” che prevedono vere e proprie zone franche in cui non si applicano i Contratti nazionali.
1995 Con la riforma delle pensioni di Dini nasce il fondo “gestione separata” all’INPS per i contributi dei Co.co.co. Questi contratti, successivamente, vedranno altre modifiche da un punto di vista normativo. Con il “pacchetto Treu”, viene legalizzato il lavoro interinale
2001 Il Parlamento vara la legge 368, uno dei primi atti del governo Berlusconi. Oltre ad altre modifiche, il contratto a tempo determinato da questo momento può durare fino a 3 anni consecutivamente.
2002 Nasce la legge razzista Bossi-Fini. In Italia entra, secondo questa legge, solo chi ha un contratto di lavoro.
2003 Il ministro Maroni promuove la Legge 30 (conosciuta anche come Riforma Biagi), nascono decine di contratti nuovi. La legge 276, votata pochi mesi dopo in Parlamento, oltre ad rendere applicabile la Legge 30 precarizza ulteriormente il part-time dando la possibilità alle imprese di prevedere clausole “elastiche e flessibili”.
È anche l’anno della Legge Moratti che precarizza il lavoro all’univesità oltre ad essere una legge classista che attacca la scuola pubblica.
Novembre 2006