Si è costituita martedì 6 luglio a Roma, davanti a una platea di diverse centinaia di delegati, la nuova area programmatica La Cgil che vogliamo. Obbiettivo dell’area è dare continuità alla mozione che nel congresso ha portato avanti una posizione alternativa alla linea concertativa sostenuta dalla maggioranza raccogliendo oltre 300mila voti.
La nascita dell’area rappresenta una importante novità, per la prima volta da anni il dissenso alla linea della maggioranza tenta di organizzarsi con un programma e una prospettiva contando tra le proprie fila delegati di tante categorie e la maggioranza dei metalmeccanici. Metalmeccanici ancora una volta sotto attacco con la vertenza di Pomigliano che ha assunto rapidamente un carattere di interesse nazionale.
Ed è stata proprio la vertenza di Pomigliano e la riuscita dello sciopero del 25 giugno a segnare il dibattito dell’assemblea nazionale. A nessuno può sfuggire infatti l’inconsistenza e l’incapacità di un gruppo dirigente nazionale che al congresso non ha voluto confrontarsi sulle prospettive per il conflitto sociale sostenendo che la seconda mozione presentava un documento solo per una mera questione di poltrone. Un gruppo dirigente che ha impostato tutto il congresso sulla riapertura di tavoli con governo e Confindustria e la speranza di ritrovare l’unità di vertice con Cisl e Uil, per poi, pochi giorni dopo il congresso, prendere atto che erano solo pie illusioni.
Da qui la convocazione di quello sciopero generale che al congresso era stato richiesto dai compagni del secondo documento e che puntualmente era stato negato.
La stessa lacerante ambiguità si è mostrata sulla vertenza Fiat.
Infatti, se a parole la Cgil ha bollato l’accordo separato di Pomigliano come incostituzionale su diritto di sciopero e malattia, dall’altra però non ha risparmiato critiche e allusioni alla Fiom su come ha fino ad ora gestito la vertenza (la Cgil Campania addirittura si è schierata a favore dell’accordo).
Cosa che per fortuna non si è registrata tra le centinaia di migliaia di lavoratori e delegati che tra il 25 giugno e il 2 luglio hanno scioperato e manifestato esprimendo anche piena solidarietà ai lavoratori di Pomigliano e alla Fiom.
Di quale area abbiamo bisogno
La nascita di questa nuova area può rappresentare una opportunità a patto che siano i lavoratori e i delegati i protagonisti di questo cambiamento.
Pesano ancora come macigni le esperienze fallite di aree programmatiche nate come opposizione al vertice della Cgil e che nel tempo sono diventate fedeli alla linea che a parole dicevano di contrastare.
Vale per Lavoro Società negli ultimi due congressi come per Alternativa Sindacale qualche anno fa o Essere Sindacato negli anni novanta.
La degenerazione di queste aree non è stata causata dall’essersi date una forma organizzata. La radice di questa degenerazione è da ascriversi in primo luogo al programma che avevano assunto, ovvero la difesa di un programma non alternativo alla concertazione che era proposta in forme più “diluite”. Alla critica sugli accordi di luglio, la precarietà, la perdita di potere d’acquisto e dei diritti sul lavoro non si offriva una reale proposta alternativa, e soprattutto non si sviluppavano proposte incisive su come contrastare quelle politiche. Le decisioni poi venivano prese sempre in gruppi ristretti a livello nazionale e il confronto con la base era praticamente inesistente.
La Cgil che vogliamo può diventare da opportunità un vero strumento di lotta per tanti delegati e lavoratori, in primo luogo se non ripeterà quegli errori.
Nessuno può permettersi di ignorare che l’area nasce con non poche contraddizioni. C’è chi aderisce dall’alto del proprio ruolo dirigente con l’idea che l’area è lo strumento per difendere il proprio diritto a stare nelle segreterie, chi la concepisce semplicemente come strumento per difendere il proprio diritto al dissenso, altri ancora che la vedono come il primo passo per costruire una vera opposizione in Cgil.
Oggi un’area alternativa in Cgil ha senso solo se fa opposizione. In primo luogo perché è già stato deciso dalla maggioranza uscita vincitrice dal congresso che non ha nessuna intenzione di condividere con la mozione alternativa la gestione del sindacato. Poi perché la crisi economica, l’attacco del padronato alle condizioni di vita dei lavoratori non permettono in questo momento nessuna mediazione. Oggi, come dimostrano Cisl e Uil, l’unica concertazione che i padroni riconoscono è quella dove gli accordi li scrivono loro e il sindacato li firma.
Sta quindi in primo luogo ai tanti lavoratori e delegati che hanno sostenuto il documento alternativo pretendere e promuovere una partecipazione dal basso alle discussioni che dopo l’assemblea nazionale verranno organizzate nei territori e tra i delegati di categoria.
Il fatto che l’assemblea nazionale abbia assunto come punto qualificante una campagna in sostegno di Pomigliano con assemblee e iniziative è sicuramente un buon inizio.
Gli scioperi di giugno e luglio, l’assemblea nazionale della Fiom a Pomigliano: sono diversi gli elementi usciti dagli interventi dei delegati che si sono alternati dal palco dell’assemblea e che dicono che si incomincia a respirare un clima diverso tra settori ampi di lavoratori. Epifani oggi e la Camusso domani possono continuare a sperare che prima o poi Governo, padroni e sindacati complici gli permettano di sedersi agli stessi tavoli di trattativa. Si scontreranno ancora una volta contro il muro di un padronato senza scrupoli che vuole spianare una volta per tutte prima la Fiom e poi la Cgil. L’opposizione ha oggi la possibilità non di fare una battaglia negli organismi dirigenti per promuovere posizioni testimoniali, ma di mettere in piedi una vera e propria alternativa nel modo in cui bisogna dirigere il sindacato e sviluppare le forme di lotta più adeguate per difendere i nostri interessi di classe.
Il nodo dei contratti
Alle parole devono seguire i fatti, a partire dalla questione dei contratti nazionali. Come ha spiegato in più occasioni il segretario della Fiom Landini a Pomigliano la Fiat potrebbe benissimo introdurre il 18° turno semplicemente applicando il contratto, quella parte di contratto che anche la Fiom ha firmato nel 2008. È da qui che bisogna iniziare, sviluppare un programma rivendicativo che non sia una delle tante liste della spesa contro la precarietà, i bassi salari e le controriforme, ma che parli di quale proposte e quali battaglie facciamo nella Cgil, in tutte le categorie, per inserire punti qualificati che ridiano ai lavoratori contratti che li difendano e non che permettono ai padroni di far quel che vogliono. Non parliamo solo di diciottesimo turno, straordinari a volontà o ritmi di lavoro sempre più esasperati, ma discutiamo di come inserire nelle rivendicazioni strumenti adeguati per contrastare la crisi senza che a pagarla siano i lavoratori.
Dobbiamo tornare a parlare in primo luogo di riduzione d’orario a parità di salario e redistribuzione del lavoro. Imponendo ai dirigenti sindacali che sostengono l’area che anche nella pratica quotidiana bisogna essere coerenti con quanto si dice nelle grandi assemblee, cioè anche laddove si aprono situazioni di crisi e vengono annunciati esuberi, bisogna organizzare il conflitto e non correre in fretta e furia a trattare su quanti lavoratori lasciare a casa, quanta cassaintegrazione o mobilità avere. Dobbiamo spiegare per esempio che se a Termini Imerese la Fiat se ne vuole andare, invece di prenderci in giro con la favola di tante aziende che vorrebbero subentrare, dobbiamo incominciare a parlare di nazionalizzazione e sviluppo di trasporti ecocompatibili.
Tutto ciò però non può e non deve essere delegato a un ristretto gruppo dirigente nazionale. Costituire delle cellule nelle aziende, strutturare riunioni regolari nei territori, avere come delegati e lavoratori la possibilità di discutere le proposte e eleggere dei rappresentanti che ai livelli superiori discutano le strategie più adeguate è decisivo per lo sviluppo di una reale opposizione. La cosa peggiore che potrebbe succedere è che le decisioni importanti vengano prese in autonomia dai compagni eletti nei vari livelli dirigenti usciti dal congresso. Così come sarà decisivo anche pretendere che le decisioni prese nelle assemblee di base che ottengono la maggioranza dei consensi siano considerate dai compagni e le compagne che stanno negli organismi dirigenti come un mandato a cui sottomettersi, la democrazia dal basso verso l’alto deve essere rispettata.
Se questi compagni sono in quegli organismi questo lo devono al voto nel congresso di quei 300mila lavoratori che hanno votato il documento alternativo. Questi sono i passaggi determinanti per poter aprire il conflitto che già ora si incomincia a intravedere per l’autunno.
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