Quando la rivoluzione era possibile
In questo numero di Falcemartello iniziamo ad affrontare una delle esperienze rivoluzionarie più interessanti del movimento operaio italiano; quel periodo tra il 1919 ed il 1920, denominato “Biennio Rosso”, quando la rivoluzione socialista in Italia era una questione all’ordine del giorno. Lo “sciopero delle lancette”, esploso a Torino nella primavera del 1920 ne costituisce uno degli episodi decisivi.
In questi giorni ricorre il 90° anniversario dei moti rivoluzionari che coinvolsero Torino e il Piemonte durante il Biennio Rosso. Il proletariato italiano per la prima volta si trova a mettere in discussione la proprietà dei mezzi di produzione e ad opporre allo Stato capitalista gli strumenti della futura società socialista.
Conclusa la prima guerra mondiale, tutta l’Europa viene coinvolta dal sentimento di riscossa delle masse oppresse. La solidarietà per la rivoluzione d’ottobre in Russia si espande a macchia d’olio tra tutto il proletariato internazionale. Già durante la guerra i lavoratori e i soldati dei paesi europei mostrano l’insofferenza per le dure condizioni imposte dalle politiche di guerra dei propri regimi borghesi, con scioperi in Germania, Austria, Francia e ammutinamenti quasi ovunque; per non parlare dei moti rivoluzionari in Ungheria che sfociano nella durissima repressione di Budapest.
Lenin e Trotskij spiegarono come le crisi rivoluzionarie possono scoppiare a partire dagli anelli deboli del capitalismo mondiale com’era avvenuto in Russia. Inoltre, secondo la concezione della Terza Internazionale, prima della degenerazione stalinista, la rivoluzione sovietica si sarebbe potuta sviluppare senza deformazioni solo espandendosi al resto dell’Europa, nel cuore del capitalismo mondiale. Per questo motivo i rivoluzionari russi orientarono gli sforzi dell’Internazionale affinché in Europa il proletariato arrivasse a prendere potere.
Crisi dello Stato borghese
L’Italia del dopoguerra è uno Stato paralizzato e prossimo ad una crisi rivoluzionaria. L’instabilità causata dalla guerra non permette ad alcun governo borghese di avere una maggioranza stabile, il partito liberale è diviso fra la destra conservatrice e la “sinistra” riformista incapace di portare avanti le riforme. Le questioni che il governo deve risolvere sono molte e contraddittorie: riconversione della produzione e mantenimento dei livelli di produzione bellica, smobilitazione dell’esercito, distribuzione della la terra ai reduci come aveva promesso dopo la disfatta di Caporetto. La scelta dei governi del dopoguerra rivela l’incapacità di risolvere i problemi fondamentali del paese.
Le ingenti spese militari, che da 2.387 milioni nel ’14-’15 arrivano a 20.612 milioni nel ’17-’18, si traducono in uno sconvolgente processo inflazionistico nel dopoguerra: il livello generale dei prezzi sale da 100 del 1913 a 409 nel 1918. La circolazione monetaria passa dai 5 miliardi nel 1915 ai 20 miliardi nel 1920 (la Lira nella seconda metà del 1920 varrà un quinto rispetto al 1914). Questo porta ad un immiserimento generale del proletariato, ma soprattutto dei contadini e delle classi medie per il fatto che hanno meno potere contrattuale. Durante i moti contro il caroviveri nel luglio del ’19, vediamo come le classi medie si appoggiano al proletariato organizzato per ottenere dei miglioramenti delle proprie condizioni. In molte città i negozi vengono vuotati dei prodotti di prima necessità, portati nelle Camere del Lavoro; in più occasioni sono gli stessi negozianti a riversare le merci nelle camere del lavoro e a chiedere che i prezzi vengano calmierati.
Già prima e durante la guerra i lavoratori erano scesi in scioperi e manifestazioni, spesso spontanee. Basti ricordare gli scioperi contro il nazionalismo del Governo Salandra nel ’14 e quelli a metà ’17 che avevano paralizzato i maggiori centri industriali del Nord e coinvolgendo anche le masse contadine del Sud. Nel ’19 la lotta di classe si fa sempre più acuta e generalizzata. I moti contro il caroviveri e lo sciopero generale del 20 e 21 luglio in solidarietà con le Repubbliche Sovietiche di Russia e Ungheria, mettono in ginocchio lo Stato borghese. Molti sono i casi in cui soldati e marinai si rifiutano di sparare sui manifestanti.
Il partito socialista
Nonostante la passività dei dirigenti della Confederazione del lavoro e del Psi, le masse vedono in queste due organizzazioni gli strumenti per abbattere la macchina dello Stato borghese. Gli iscritti alla Cgl aumentano da 249 mila nel ’18 a oltre 1 milione nel ’19 e ben oltre i 2 milioni del ’20.
Nel ottobre del ’19 a Bologna si tiene il congresso del Partito Socialista. Fino ad allora il partito era stato diretto dall’ala riformista di Turati, il quale aveva una concezione di aperta collaborazione con i governi borghesi. Al congresso di Bologna si afferma decisamente l’area massimalista di Lazzari e Serrati, 48 mila voti contro i 15 mila dei riformisti e i 4 mila dell’area comunista di Bordiga. La posizione dei massimalisti è estremamente ambigua: rivoluzionaria a parole, attraverso la parola d’ordine “fare come in Russia”, ma estremamente moderata nei metodi e nell’organizzazione del proletariato rivoluzionario. Di fatto l’apparato burocratico del partito, come quello della Confederazione del Lavoro, rimarrà interamente in mano ai riformisti, a causa dell’atteggiamento mediatore che i massimalisti hanno con quest’area.
Alle elezioni del novembre ’19 il Psi diventa il più forte partito organizzato del paese, prendendo 1.840.000 voti e 156 seggi. L’affermazione del Psi è determinata dal clima incandescente e rivoluzionario della società. Questo si evidenzia particolarmente nei fatti del 2 e 3 dicembre quando i deputati socialisti vengono aggrediti da manifestanti nazionalisti, all’uscita dal parlamento. Per due giorni in tutta Italia dilagano manifestazioni popolari e aggressioni ad ufficiali, sedi nazionaliste e fasciste. Neppure i massimalisti comprendono il mandato che le masse operaie e contadine gli stavano dando: la questione del potere.
L’Ordine Nuovo
In questo contesto Torino è a tutti gli effetti l’avanguardia della rivoluzione italiana, un po’per la concentrazione di grandi stabilimenti, un po’per la radicalità mostrata più volte dal proletariato torinese, tanto che Gramsci la raffigura come la “Pietrogrado d’Italia”.
Nel maggio ’19 quattro giovani socialisti (Gramsci, Togliatti, Terracini e Tasca) fondano l’Ordine Nuovo, una rassegna settimanale, con l’intenzione di “mobilitare le intelligenze e volontà socialiste”.
L’intenzione principale del gruppo sarà quella di formare un’avanguardia di operai e studenti, attraverso il lavoro paziente della propaganda marxista. Ciò che accomuna i fondatori della rivista è l’ispirazione all’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre; il 15 maggio esce il primo numero della rivista e Gramsci ne sintetizza così l’orientamento politico: “la rivoluzione mondiale ha acquistato forma e corpo da quando il proletariato russo ha inventato (nel senso bergsoniano) lo Stato dei Consigli […] un sistema di ordinamento che sintetizza la forma di vita economica proletaria organizzata nella fabbrica intorno ai comitati interni…”.
Gli ordinovisti non si limitano a dichiarazioni altisonanti sullo stampo massimalista, ma cercano nel concreto gli strumenti che permettano al proletariato di estromettere la borghesia nella gestione economica della società. La loro attenzione si rivolge alle Commissioni Interne, che, nate nel 1906, venivano elette in ogni stabilimento anche se in maniera piuttosto antidemocratica: il concordato del febbraio del 1919 tra la Federazione Metallurgica e il Consorzio degli industriali limitava solo agli operai iscritti al sindacato di essere eletti e di eleggere i delegati delle Commissioni. Erano uno strumento dalla natura contraddittoria: venivano usate dai lavoratori come arma di difesa contro gli industriali e i rappresentanti militari in azienda, ma allo stesso tempo erano viste dalle autorità governative come lo strumento di unione, di collaborazione, tra operai e industriali, per ottimizzare la produzione durante lo sforzo bellico.
Con l’acutizzarsi della lotta di classe, il protagonismo dei lavoratori fa diventare tali commissioni sempre più degli organismi che esprimono gli interessi della classe operaia, dei veri e propri embrioni del controllo operaio. Mirano a garantire i diritti dei lavoratori, a rivendicare gli aumenti salariali, a difendere le condizioni lavorative in materia di cottimo, orari, norme disciplinari, ecc. Mentre la classe operaia rivendica sempre più tali strutture nelle fabbriche, gli imprenditori le tollerano sempre di meno; infatti, Olivetti ad un convegno della Confindustria dichiarerà che “in officina non possono sussistere due poteri”. Sono queste le caratteristiche che il Psi non comprende, e men che meno i dirigenti della Cgl, che ne ostacoleranno in tutti i modi l’attività. Bordiga stesso, dirigente della Frazione comunista del Psi, vede le Commissioni come uno strumento di collaborazione di classe e nient’altro.
Gli ordinovisti comprendono tutti i limiti di democrazia delle Commissioni, ma danno indicazione ai lavoratori socialisti di operarvi all’interno per scardinarle. Perciò rivendicano la necessità di un organismo autonomo e democratico fondato su questi criteri: il diritto di tutti gli operai di eleggere i membri della Commissione e l’organizzazione della rappresentanza operaia per unità produttiva (squadra, reparto o officina). Dal giugno del ’19 l’attenzione dei dirigenti della rivista sarà tutta orientata a portare nelle istanze di partito, del sindacato e nelle officine la parola d’ordine dei Consigli operai, per superare le vecchie pastoie di collaborazionismo delle C.I e per coinvolgere tutti i lavoratori.
I dirigenti riformisti accusano l’Ordine Nuovo di voler scompaginare le fila del sindacato e del partito, dando le Commissioni in mano ai “non-organizzati”. Gramsci risponderà spiegando come “la creazione di nuove istituzioni operaie a tipo soviettista non diminuirà la potenza delle istituzioni attuali ma darà loro una base permanente e più concreta”. Ciò che evidenziano gli ordinovisti è il fatto che non è il partito a fare la rivoluzione ma la classe operaia organizzata. I dirigenti riformisti, spaventati dalla portata rivoluzionaria e di classe delle nuove strutture del proletariato torinese, fanno di tutto per non diffondere in tutto il paese l’esperienza dei Consigli.
Inoltre, Gramsci ritiene necessario collegare i nuovi organi della democrazia operaia con la città e le campagne, in modo tale da strutturare le prime fondamenta di uno Stato nuovo. I rivoluzionari torinesi comprendono la necessità di dare uno sbocco politico alla lotta. Si stava delineando una battaglia che non poteva essere limitata alle officine ma doveva allargarsi alle altre fasce sociali produttive, come contadini e ceti medi (fortemente impoveriti), per poter distruggere lo Stato borghese e sostituirlo con uno Stato diretto dalla classe operaia.
In settembre si riunisce il primo Consiglio di fabbrica alla Fiat Brevetti formato dai commissari di reparto, tutti iscritti alla Fiom. Quando in ottobre, per iniziativa dell’Ordine Nuovo, si tiene la prima riunione del Comitato Esecutivo dei Consigli, saranno presenti 15 stabilimenti (tra i quali Fiat Centro, Lingotto, Lancia) rappresentando 30mila metallurgici. I tratti iniziali sono inevitabilmente più sindacali che politici, ma il successo è sotto gli occhi di tutti. Il fenomeno diventa di massa in poco tempo, riuscendo ad abbracciare fino a 150mila operai.
La scintilla della lotta
Già dai primi mesi del 1920 la situazione si fa più turbolenta e si denota subito un salto di qualità. Alle occupazioni delle officine, come avviene per il cotonificio Mazzonis tra febbraio e marzo, si affiancano le parole d’ordine del Consiglio e del governo proletario. Già dal 20 marzo l’on. Olivetti, Giovanni Agnelli e De Benedetti (presidente della Lega industriale) comunicano al prefetto l’intenzione di procedere con la serrata generale.
Il caso che fa scoppiare la protesta tra gli operai metallurgici riguarda in apparenza la questione dell’ora legale, misura applicata durante la guerra dalle industrie per risparmiare energia e mal digerita dai lavoratori, ma la questione di fondo è il riconoscimento o meno del potere dei Consigli di fabbrica. Il 22 marzo la Commissione Interna delle “Industrie Metallurgiche” si oppone all’ora legale e un operaio riporta indietro le lancette. La Direzione usa il pretesto per dimostrare chi è che governa in azienda licenziando tre operai della Commissione Interna e multandola; al che i lavoratori convocano uno sciopero che durerà tre giorni, quello che passerà alla storia come “sciopero delle lancette”.
Lo sciopero dilaga in tutte le officine e l’Amma (padronale metalmeccanica) risponde con la serrata generale degli stabilimenti metallurgici e con l’occupazione militare delle aziende. L’organizzazione padronale si dichiara disposta a contrattare solo con la Fiom, negando ai delegati la possibilità di discutere con i lavoratori durante l’orario di lavoro e riconoscendo come “giudici” solo i capi-reparto/officina nominati dall’azienda; l’obiettivo è quello di delegittimare i Consigli.
La lotta appare decisiva e la questione di fondo è il ruolo dei Consigli operai come organi di controllo politico delle aziende da parte dei lavoratori. Se il padronato è diviso nella lotta per il maggior profitto, si dispiega in tutta la sua compattezza quando si tratta di lottare contro il proletariato organizzato. Mentre gli industriali schierano contro i lavoratori torinesi tutto l’apparato repressivo dello Stato, i dirigenti del Psi e della Cgl faranno di tutto per isolare gli operai torinesi. La direzione massimalista del Psi si dimostrerà completamente incapace di applicare le parole ai fatti e di liberarsi dai legami con il gruppo parlamentare ancora in mano ai turatiani e con i dirigenti riformisti della Cgl.
Lo sciopero generale
A metà aprile gli industriali esigono l’abrogazione delle norme in vigore per l’elezione delle Commissioni Interne per la riapertura dei cancelli. Il 13 aprile il Consiglio delle Leghe (una sorta di esecutivo delle Commissioni) convoca uno sciopero generale al quale aderiscono 200mila operai torinesi. Verrà dispiegato un intero esercito in assetto da guerra (si calcolano circa 50mila tra carabinieri, polizia ed esercito), con mitragliatrici e autoblindo che assediano le Camere del lavoro, le sedi del Psi e i punti strategici della città. Il 14 aprile lo sciopero si estende a livello regionale, coinvolgendo così 500mila lavoratori delle città e delle campagne.
Le direzioni nazionali di partito e sindacali non nascondono l’ostilità verso i compagni di Torino, additandoli come “scalmanati”. L’Avanti di Milano si rifiuta di pubblicare l’appello della sezione torinese che chiedeva la solidarietà a tutto il proletariato italiano. Il Consiglio Nazionale del partito verrà convocato a Milano il 19-20 aprile e non a Torino, com’era stato stabilito, e verranno respinti i delegati torinesi. Secondo Serrati e la direzione massimalista una rivoluzione immediata è solo una “fallace illusione”. Tutto ciò dimostra quanto la direzione del Psi fosse diventata impermeabile alla realtà rivoluzionaria.
Non mancano comunque casi di solidarietà spontanea tra gli operai di diverse altre città. A Livorno, Firenze, Genova e Bologna i ferrovieri bloccano i treni carichi di truppe dirette a Torino, e spesso vengono convocate manifestazioni spontanee nelle quali echeggia il grido “Viva i metallurgici torinesi! Viva i consigli di fabbrica!”.
Il 24 aprile D’Aragona, segretario della Cgl, firma un compromesso con gli industriali. Le Commissioni Interne e i Consigli di Fabbrica non vengono aboliti, ma nello stesso tempo non ne vengono riconosciuti i ruoli di controllo che per un anno i lavoratori hanno rivendicato con la lotta. La sconfitta è chiara agli occhi di tutti, quella è stata una lotta politica che poteva avanzare in senso rivoluzionario, oppure restaurare il regime capitalistico in fabbrica con una dura repressione. Solo i dirigenti della Cgl e del Psi potevano decidere in quale direzione portare il movimento e scelsero la seconda. Gramsci commenta così l’intera vicenda: “La classe operaia torinese è stata sconfitta. Tra le condizioni che hanno determinato la sconfitta è anche la superstizione, la cortezza di mente dei responsabili del movimento operaio italiano (…) La vasta offensiva capitalista fu minuziosamente preparata senza che lo ‘Stato maggiore’della classe operaia organizzata se ne accorgesse, se ne preoccupasse: e questa assenza delle centrali dell’organizzazione divenne una condizione della lotta, un’arma tremenda in mano agli industriali (…) Bisogna coordinare Torino con le forze sindacali rivoluzionarie di tutta Italia, bisogna impostare un piano organico di rinnovamento dell’apparato sindacale che permetta alla volontà delle masse di esprimersi.”
Così, dalle giornate di aprile il gruppo dell’Ordine Nuovo comprenderà, con un certo ritardo, la necessità di mettere in discussione a livello nazionale la direzione traditrice del Psi e della Camera del Lavoro. Se Lenin stesso sostenne che in Italia le posizioni della Terza Internazionale erano rappresentate dal gruppo torinese e non dalla maggioranza del Psi, il gruppo dirigente dell’Ordine nuovo non comprese come la rivoluzione non si poteva vincere solo a Torino ma doveva essere preparata su scala nazionale. Gramsci analizzerà a posteriore questo limite “Nel 1919-20 abbiamo commesso errori gravissimi che in fondo adesso scontiamo. Non abbiamo, per paura di essere chiamati arrivisti e carrieristi, costituito una frazione e cercato di organizzarla in tutta Italia”.
La necessità di costruire un partito rivoluzionario con una direzione che sappia dirigere il proletariato italiano verso la conquista del potere appare, da quelle giornate di aprile, come una necessità impellente. Allo stesso tempo, non basta che un rivoluzionario sia nel giusto perché le sue idee diventino maggioritarie, bisogna strappare attraverso il lavoro quotidiano le masse dall’influenza dei riformisti che controllano, allora come oggi, la maggioranza del proletariato organizzato.
Nel settembre del 1920, con l’occupazione delle fabbriche, questo limite esistente durante tutto il Biennio rosso si svilupperà ulteriormente, fino alla sconfitta definitiva del movimento rivoluzionario e l’ascesa del fascismo.