Come 70 anni fa: un 25 aprile di lotta di classe. - Falcemartello

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Ci sono due 25 aprile che si confrontano tutti gli anni nel nostro paese. Quello delle istituzioni e dei mass media ufficiali sempre pronti a celebrare il rito stantio dell’unità nazionale e quello dei lavoratori, dei giovani e delle donne di sinistra che collettivamente si riappropriano di una ricorrenza che sentono loro; una ricorrenza partigiana, nella quale esistono campi ben delineati dove si collocano da una parte quelli che provarono a cambiare la società, dall’altra quelli che la società la condussero sull’orlo del disastro.

Quest’anno ricorre l’anniversario degli scioperi del marzo ’44, l’espressione massima del protagonismo delle masse popolari. Quelle stesse masse che durante la resistenza combatterono il fascismo ed il nazismo con l’idea che per sconfiggerli definitivamente fosse necessario abbattere il capitalismo.

Nonostante i vent’anni di dittatura fascista, l’Italia d’inizio anni ’40 era un paese tutt’altro che pacificato. L’aumento del costo della vita, le incursioni aeree sulle grandi città e l’andamento negativo delle operazioni militari nei Balcani avevano acuito il malcontento della classe lavoratrice: l’indisciplina e i sempre più frequenti atti di ostilità nelle fabbriche erano il risultato del risentimento crescente nei confronti del fascismo. Sul piano internazionale, la sconfitta dell’esercito tedesco a Stalingrado aveva modificato non solo i rapporti di forza militari, ma anche quelli fra le classi. Fu questo il quadro nel quale scoppiarono gli scioperi del marzo 1943. Essi ebbero il merito di spazzare via qualsiasi illusione sulla possibilità di rigenerare il regime, riportando allo stesso tempo la questione operaia al centro della scena politica. Nati sulla base di rivendicazioni economiche, misero in moto un processo che avrebbe condotto ad una radicalizzazione crescente di un ampio settore proletario. Come risultato immediato inoltre, costrinsero una borghesia terrorizzata a prendere le distanze da Mussolini e dalle sue politiche.

Ma fu ancor di più nella “Rossa primavera” del 1944 che si sviluppò l’offensiva rivoluzionaria della classe operaia. Un milione di lavoratori incrociarono le braccia. Ancora una volta fu lo sciopero l’arma politica con la quale i lavoratori provarono a modificare le loro condizioni di vita. I mesi di novembre e dicembre furono costellati da agitazioni in tutto il triangolo industriale e nel marzo del 1944 viene convocato dal Pci, con il consenso passivo delle altre forze del Cln, lo sciopero generale che nella testa dei lavoratori avrebbe dovuto assumere un carattere insurrezionale destinato ad abbattere il nazifascismo. Così non sarà, nonostante quello del marzo 1944 rimanga il più grande sciopero nell’Europa occupata dai nazisti. I dirigenti del Partito comunista italiano, intenzionati a governare il paese in nome della “patria capitalista” e desiderosi di mantenere la collaborazione con gli altri partiti del Cln, vollero dare all’agitazione una funzione esclusivamente dimostrativa. La politica unitaria voluta dal Pci si tradurrà nell’ingresso nel governo del maresciallo (ex) fascista Badoglio e nella rinuncia a qualsiasi ipotesi di rottura rivoluzionaria, nonostante le azioni insurrezionali del 1945, con le quali vennero definitivamente liberate le principali città del Nord. Il movimento verrà convogliato sui binari di una prospettiva riformista e le aspirazioni profonde delle masse rimarranno vittime degli interessi della casta burocratica stalinista sovietica, alla quale il gruppo dirigente del Pci era subordinato e dalla quale traeva la sua legittimazione.

La resistenza italiana fu, come altre nella storia del novecento, una rivoluzione tradita dalla sua direzione politica. Quello che qui ci preme evidenziare è l’enorme disponibilità alla lotta e al sacrificio della classe lavoratrice, in un contesto di frammentazione, isolamento e dura repressione statale. Furono i lavoratori a dare la spallata decisiva ad un regime marcio che non aveva più niente da offrire loro. Lo fecero spontaneamente, grazie al peso di una tradizione di lotta che veniva mantenuta viva nelle fabbriche dalla propaganda di piccoli gruppi di militanti comunisti e socialisti. Sono passati settant’anni da quegli avvenimenti, ma le contraddizioni di fondo del sistema capitalistico non sono state assolutamente superate.

La dittatura fascista è finita ma è sempre rimasta viva e vegeta la dittatura del capitale, che impone le politiche di austerità attraverso organismi sovranazionali e governi formalmente dotati di fiducia parlamentare, anche se utilizzano in misura sempre maggiore strumenti autoritari. La realtà è che esattamente come allora: i lavoratori e i giovani non hanno nessuna possibilità di incidere sulle grandi scelte che riguardano la loro quotidianità, le loro condizioni di vita e di lavoro. È questa percezione, unita all’evidente peggioramento della situazione economica di milioni di persone, ad aver generato un crollo della fiducia nelle istituzioni borghesi. Oggi, come nel 1944, tutti comprendono che il sistema capitalistico è malato, che non ha nient’altro da offrire che corruzione, disoccupazione e povertà. Ed oggi come allora è dalla lotta di classe che potrà arrivare la speranza di un futuro migliore, come sta accadendo in Grecia, Spagna, Portogallo, Turchia e Brasile. Ed accadrà anche da noi. La radicalità di alcune lotte recenti, come quella degli autoferrotranvieri a Genova, ci parla degli scenari che si apriranno nel prossimo futuro.

Sarà, ancora una volta, la classe lavoratrice a mettere all’ordine del giorno il compito della costruzione di una nuova società. Lo farà con gli scioperi e le lotte rivoluzionarie, esattamente come avvenne nel marzo del 1944. Obiettivo finale sarà completare l’opera che il 25 aprile i partigiani di questo paese avevano solo iniziato.

 

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