Mentre scriviamo, l'Onu ha appena approvato con il voto contrario di Cina e Russia una risoluzione sulla Siria che chiede al presidente siriano Bashar Assad di lasciare il potere. E' evidente che si tratta di un ulteriore passo di una potenziale escalation militare. La Siria può diventare il prossimo Iraq o la prossima Libia.
Ma ogni ripetizione è dialetticamente un approfondimento. Le difficoltà e le contraddizioni di un intervento imperialista sarebbero maggiori. In primo luogo, si aprirebbe un nuovo fronte senza averne stabilizzato nessuno dei precedenti. Il che rende altamente difficile un'invasione diretta sul modello Iraq.
L'opzione libica – trasformare gli insorti in truppe eterodirette appoggiate dall'aviazione – appare altrettanto poco praticabile. La posizione militare di partenza del cosiddetto Esercito di Liberazione Siriano (Esl) appare più debole di quanto non fosse quella dei ribelli di Bengasi i quali controllavano totalmente una regione del paese.
Il Consiglio Nazionale Transitorio libico (Cnt) riuscì a scippare sul campo la direzione dell'insurrezione a Bengasi, mentre il Consiglio Nazionale Siriano (Cns) è stato formato all'estero e non ha praticamente alcun riconoscimento in Siria.
Un nuovo fronte di guerra?
Ancora una volta l'imperialismo si è messo in una guerra che non può realmente vincere ma non può rifiutarsi di combattere. La rivoluzione di marzo ha minato le fondamenta del regime di Assad. Le concessioni fatte da quest'ultimo in una prima fase – e in grossa parte caldeggiate e suggerite dagli Usa stessi – non solo non hanno ristabilito l'equilibrio, ma l'hanno ulteriormente turbato. Ancora oggi l'Onu invita la Siria a “desistere dalle violenze” e a procedere verso una democrazia “multipartitaria”. Il che equivale ad invitare Assad ad accettare di cedere pacificamente il potere a rappresentanti della borghesia più affidabili per l'imperialismo. Ma un regime come quello siriano, praticamente ereditario, con una cricca che controlla grosse fette dell'economia, stretto nella morsa tra Israele, Usa, Turchia e Iran, è organicamente incapace di condividere il potere. Può solo perderlo o mantenerlo. E verosimilmente prima o poi lo perderà.
Lo scenario esistente è stato quindi sconvolto, senza che ne fosse creato uno alternativo. Il vuoto non esiste in fisica e tanto meno nella geopolitica imperialista. Né Usa, né Turchia, Israele, Iran, Russia o Cina possono permettersi di rimanere tagliati fuori dalla Siria futura.
Come accadde nel '18-'20, quando le rivolte contro gli ottomani aprirono la strada a vent'anni di dominazione imperialista francese della zona, una rivoluzione incompiuta e priva di una direzione può aprire la via all'intervento straniero. Il che non è un argomento contro lo scoppio della rivoluzione, ma semmai a favore del suo sviluppo ulteriore. Ma qua termina l'analogia storica.
Da un lato il regime baathista mantiene basi di consenso nella società e dall'altro l'imperialismo non ha la forza per stabilizzare la situazione. Può solo generare una guerra per procura dalle conseguenze difficilmente calcolabili. Sarebbe una follia dotata di una logica: se non possono controllare la Siria, possono annichilirla.
“Che scelta miserabile è quella che impongono i dittatori al mondo arabo: o perdere la propria voce e cedere i propri diritti o vivere sotto il colonialismo che torna sotto le parole d'ordine della liberazione dall'oppressione” Talaa Salaman, redattore del giornale di sinistra libanese As-Safir |
Gli imperialisti non vogliono sostituire una dittatura con la democrazia. Un intervento straniero, sia pure sotto l'egida Onu, è solo un altro modo per dire: controrivoluzione. La vittima sarebbe comunque il movimento autonomo e indipendente delle masse. Per questo non vi può essere alcuna considerazione riguardo alla Siria che non parta da una netta opposizione all'intervento imperialista, sia esso per procura o per guerra diretta.
La Siria è da anni nella lista dei cosiddetti Stati canaglia. E' lecito chiedersi se la rivoluzione scoppiata nel marzo 2011 non rientri nella categoria delle cosiddette “rivoluzioni colorate”, movimenti eterodiretti dall'imperialismo e pompati ad arte dai media occidentali, per installare regimi a sé fedeli. Il movimento in Siria si può dividere in verità in due momenti e ha due aspetti ben distinti. Ciò che scoppia a marzo è un movimento rivoluzionario a tutti gli effetti, una prosecuzione in Siria dell'onda lunga generata dalle rivoluzioni in Egitto e Tunisia.
Alla base delle proteste vi è l'acuirsi della diseguaglianza nel paese. La popolazione siriana è cresciuta da 19 a 23 milioni tra il 2005 e il 2011. Negli stessi anni la disoccupazione sale ufficialmente al 10%, molto più realisticamente attorno al 25%. L'agricoltura, complice anche una perdurante siccità, ha subito una forte contrazione (-8,7% nel 2008, -13% nel 2009) a cui non è seguita la creazione di posti di lavoro nell'industria.
Da almeno 10 anni il regime ha iniziato un'apertura al mercato che ha determinato l'arricchirsi del primo quinto della popolazione e una contemporanea riduzione delle spese statali, passate dal 31% del Pil nel 2005 al 24% nel 2011. Nel 2010 vengono avviati 28 nuovi progetti turistici, molto lucrativi per il regime, mentre vengono chiusi 48 grossi stabilimenti tessili. Una situazione che non ha minato il consenso del partito-regime Ba'ath solo tra la popolazione più povera ma anche tra settori dello stesso apparato statale. Come scrive il Washington Post:
“il regime ha condotto una guerra contro la propria base sociale. Quando Hafez al-Assad, il padre di Bashar, giunse al potere, il suo regime (...) si basava sui ceti popolari delle campagne, sui contadini e le classi più sfruttate. Ma oggi l'elite dominante ha dimenticato le proprie radici. I suoi membri hanno ereditato il potere, invece che aver lottato per ottenerlo, sono cresciuti a Damasco (...) appartengono alle classi urbane agiate e hanno avviato un processo di liberalizzazione economica a spese della provincia".
Una rivoluzione dirottata
Tra marzo e maggio le manifestazioni sono enormi e pacifiche. La repressione determina probabilmente un migliaio di arresti e 500 vittime. La situazione viene descritta così dall'attivista di sinistra siriano Ossamah Al-Tawei: “gli attivisti, i protagonisti delle proteste di strada, si erano nel frattempo organizzati in coordinamenti locali e regionali. I primi furono quelli di Daraa, di Damasco, di Homs. Poi l’autorganizzazione si allarga a macchia d’olio. Ogni città, ogni villaggio, si dotò di un Coordinamento per gestire, organizzare le attività, le manifestazioni di protesta contro il regime. Mentre a livello politico gli oppositori dell’interno più in vista diedero vita, il 25 giugno, al Coordinamento siriano per il cambiamento democratico (Cscd) allo scopo, appunto, di dialogare e rappresentare la rivolta ad alto livello”.
I Fratelli Mussulmani non partecipano a questa prima fase e non vi è alcun riferimento a direzioni esterne alla Siria. La situazione cambia tra l'estate e l'autunno. Il 23 agosto viene annunciato in Turchia il Consiglio Nazionale Siriano (Cns) che formalizza la propria struttura solo ad ottobre. E' composto in grossa parte da professori filo-occidentali e appoggiato principalmente dai Fratelli Mussulmani. Ironicamente il nuovo Governo Libico è tra i primi a riconoscere ufficialmente il Cns. Lo scorso 12 febbraio i paesi della Lega Araba ritirano le proprie rappresentanze diplomatiche dalla Siria e riconoscono solo il Cns. Eppure la missione di 166 osservatori della stessa Lega Araba ha potuto constatare la mancanza di qualsiasi appoggio nel paese al Cns. Spiega uno degli osservatori, il tunisino Ahmed Manaï
“In Siria il Csn non gode di buona fama, proprio perché chiede un intervento armato dall’esterno. I siriani hanno una lunga tradizione di patriottismo e resistenza contro le dominazioni straniere. Al contrario, all’estero il Csn è l’ interlocutore prediletto dei media e dei politici. Diverso il caso del Comitato di coordinamento perché i suoi militanti sono quasi tutti attivisti che stanno all’interno del paese." (Il Manifesto, 15 febbraio 2012)
La missione degli osservatori della Lega Araba viene interrotta unilateralmente il 28 gennaio. Non riponiamo alcuna fiducia in questo tipo di missioni, le quali non sono altro che anticipazioni sul piano diplomatico delle successive fasi sul piano militare. Lo stesso rapporto finale della missione autodenuncia la natura degli osservatori “diversi degli esperti nominati (...) non avevano esperienza in questo campo, (...) hanno preso contatti con i funzionari dei propri paesi fornendo una versione esagerata degli avvenimenti, (...) alcuni pensavano ad un viaggio in Siria di piacere e sono stati sorpresi dalla realtà della situazione”.
Ma questo rende ancora più significative le conclusioni del rapporto ufficiale, secondo cui oltre all'opposizione e al Governo vi sarebbe un terzo attore sul campo:
“In diverse città la missione ha sentito l'estrema tensione, oppressione e ingiustizia che stanno subendo i Siriani. Ma i cittadini credono che la crisi dovrebbe essere risolta (...) senza intervento internazionale. (...) La Missione è stata informata dall'opposizione, particolarmente a Daraa, Homs, Hama a Idlib che alcuni dei suoi membri hanno preso le armi in risposta alla sofferenza della popolazione Siriana e come risultato dell'oppressione e della tirannia del regime, della corruzione che colpisce ogni settore della società, l'uso della tortura da parte dei servizi segreti (...).
La Missione ha determinato che esiste un'entità armata che non è menzionata nel protocollo”. Secondo il rapporto tale “entità armata”, riconducibile all'Esercito Siriano di Liberazione (Esl) utilizza proiettili traccianti e perforanti, esegue attentati contro la stessa popolazione civile e contro installazioni petrolifere. Una tattica difficilmente adottabile da un esercito popolare. Secondo un sito israeliano addestratori inglesi e provenienti dal Qatar sarebbero già sul campo come consulenti militari. Il sito di intelligence Stratfor attribuisce allo stesso Esl l'attentato ad una base militare ad Aleppo del 10 febbraio, con 28 morti e 235 feriti. Un attentato realizzato da una mano professionista. Nel frattempo si segnalano i movimenti di truppa sul confine iracheno e turco dove da tempo si stanno ammassando soldati turchi e Usa. E' evidente quindi che una parte dell'Esl, legato al Cns, sta agendo come una struttura para-militare diretta dall'esterno e il cui principale obiettivo al momento è aumentare il caos nel paese. L'utilizzo di questa tattica terrorista è rivolta contro lo sviluppo della rivoluzione, ancora prima che contro il regime siriano. E' la creazione della base psicologica per l'intervento esterno. Serve a determinare l'idea che la repressione sia troppo dura e sanguinaria, che il paese scivoli rapidamente nel caos e che la rivoluzione, “i civili”, non possano fronteggiare da soli la situazione.
In verità il movimento popolare, pur con inevitabili flussi e riflussi, ha continuato il suo sviluppo. A dicembre c'è stato uno sciopero generale che ha bloccato il paese e a gennaio le manifestazioni hanno avuto una nuova impennata. A Zabadani, il comitato popolare ha diramato una dichiarazione ufficiale in cui afferma di aver effettuato elezioni dirette, con un rappresentante ogni 1000 abitanti, di aver riaperto le scuole e rimpiazzato gli Imam favorevoli al regime (vedi articolo su marxist.com).
La guerra avrebbe prima di tutto l'effetto di congelare gli sviluppi rivoluzionari. Il Cns è solo uno strumento nelle mani dell'imperialismo Usa, della Turchia e Israele. Altrettanto scorretta la tattica del Coordinamento Nazionale Democratico che sta riponendo la fiducia nella mediazione diplomatica della Lega Araba o della Cina e della Russia. Queste ultime opporranno resistenza finchè non troveranno un accordo soddisfacente con gli Usa. Come si è recentemente dimostrato, la diplomazia borghese è solo la macchina che costruisce consenso all'eventuale escalation bellica. Alla fine dei conti, le masse che in Siria hanno protestato da marzo in poi si ritrovano di fronte al nodo di sempre: la necessità di mantenere l'indipendenza di classe di fronte alle diverse macchinazioni e fazioni della classe dominante in lotta.
Questa indipendenza non si crea nel regno dei cieli, non vive nelle risoluzioni o nei documenti, ma ha bisogno di concretizzarsi attraverso l'azione di un partito della classe. Ed è stata persa quando le diverse forze comuniste, in Siria così come in altri paesi arabi, si accodarono al cosiddetto nazionalismo arabo, a partiti come il Ba'ath. Quella scelta, dettata dalla teoria delle due fasi stalinista – prima appoggio alla propria borghesia nazionale e poi rivoluzione socialista – annullò politicamente e fisicamente interi partiti comunisti della zona, aprendo negli anni successivi l'ascesa alle forze islamiche come illegittime rappresentanti della lotta antimperialista.
Questo è il nodo irrisolto in tutto il mondo arabo. Questo nodo si scioglierà nella lotta contro i regimi esistenti, ma ancora più nello scontro con l'imperialismo e le sue marionette “democratiche”. Il capitalismo procede di guerra in guerra, verso la sua sconfitta finale.