Chi sarà il prossimo?
Gli eventi si susseguono rapidi nell’Asia Centrale e nel Caucaso. Regimi traballanti che cadono uno dopo l’altro come nel gioco del domino, dalla Georgia al Kirghizistan e forse domani all’Uzbekistan. Ed è proprio un grande gioco quello che sta avendo luogo in quest’area del mondo tra le varie potenze, simile a quello del XIX secolo tra l’impero russo e quello inglese.
Gli interessi contrapposti tra Usa e Russia e le altre potenze regionali sono fra le principali ragioni dell’instabilità della regione, ma non sono certo le uniche.
Fra le cause scatenanti la rivolta sedata nel sangue in Uzbekistan o l’insurrezione del marzo scorso in Kirghizistan è senz’altro da annoverare il peggioramento tremendo delle condizioni di vita di vasti settori della popolazione. L’introduzione del capitalismo e la dissoluzione dell’Unione Sovietica ha avuto infatti effetti devastanti per tutte le repubbliche. L’unificazione delle risorse delle economie e la pianificazione delle stesse dell’Asia centrale avevano rappresentato un grande passo in avanti compiuto dalla rivoluzione bolscevica del 1917. Lo stesso Sergio Romano, certo non tacciabile di simpatie comuniste, deve riconoscere sul Corriere che, di passaggio in Uzbekistan negli anni settanta, aveva trovato la capitale Tashkent una città “moderna ed efficiente”.
Tutti i successi raggiunti sono stati in gran parte vanificati dalla burocrazia al potere in Russia e nelle altre repubbliche dell’ex Urss. Un settore di essa si è tramutato in sostenitore rapace ed avido del capitalismo, riciclandosi in campione delle democrazie di stampo occidentale nate all’inizio degli anni novanta. Islam Karimov, attuale presidente dell’Uzbekistan, era segretario generale del Pcus ai tempi di Gorbaciov. Uomini come lui hanno spesso accumulato grandi fortune, rifilando alle masse il peggio dello stalinismo, la brutalità di un regime repressivo, mischiato al peggio del capitalismo, fatto di privatizzazioni a tutto spiano e di distruzione di ogni servizio sociale.
L’Uzbekistan in fiamme
La rivolta contro la sua dittatura è scoppiata non a caso nella valle di Fergana, dove oltre il quaranta per cento della popolazione è disoccupata, situazione aggravata negli ultimi due anni dalla chiusura delle industrie petrolchimiche locali e il massiccio ridimensionamento occupazionale nella fabbrica Uz Daewoo di Andijan. Karimov e la sua cricca nel 1998 avevano scatenato una dura repressione contro la minoranza musulmana, che nella valle di Fergana è maggioranza, chiudendo l’80% delle moschee. Non c’è da stupirsi quindi se la popolazione di questa regione abbia cercato di seguire l’esempio dei loro vicini Kirghizi, a cui sono legati per affinità etniche e religiose e che sono scesi in piazza nel marzo scorso con successo rimuovendo l’omologo di Karimov, Askar Akaev, al potere da quindici anni. Osh, la città del Kirghizistan dove è partito il movimento insurrezionale, dista solo quaranta chilometri da Andijan.
La rivolta della popolazione di Andijan è stata repressa nel sangue, con centinaia di morti, ma questa volta Washington non ha gridato più di tanto alla “violazione dei diritti umani”. Eppure neppure una settimana prima gli avvenimenti uzbeki, Gorge Bush di passaggio a Tbilisi aveva dichiarato “in tutto il Caucaso e l’Asia Centrale i giovani vogliono la liberta, e l’avranno!”
In Uzbekistan forse dovranno pazientare un poco dato che il paese gioca un ruolo chiave nello scacchiere della regione. È il maggior produttore mondiale di cotone e potrebbe diventarlo nel prossimo futuro di gas, risorsa ancora largamente inesplorata. Ma soprattutto la sua posizione, al centro dell’Asia, è unica.
L’ipocrisia di Bush
Per tale ragione gli Stati Uniti vi hanno installato due delle loro basi più grandi nella regione, di cui quella di Khanabad è strategica per la sua capacita di copertura radar e per i rifornimenti alle truppe in Afghanistan. Ecco perché dopo l’11 settembre Karimov diventa un alleato fra i più preziosi per l’imperialismo Usa. Imperialismo che non ha mai criticato la mancanza di democrazia a Tashkent, gli unici commenti negativi giungevano per il ritardo nella svendita del patrimonio statale da parte del governo Karimov, avviata solo di recente.
I commenti di Washington sono stati molto cauti e più che altro preoccupati per “l’inasprirsi della violenza ad opera di gruppi terroristi”. L’amministrazione Bush teme che i cambiamenti di regime e la voglia di democrazia possano assumere un carattere incontrollato ed estendersi a tutta l’area, dove non c’è nemmeno un paese stabile partendo dai confinanti Tagikistan e Kazakistan. Non hanno ancora un cavallo alternativo su cui puntare in Kirghizistan e in Uzbekistan, come avevano in Georgia ed Ucraina. Inoltre Bush deve cercare di porre un freno alla crescente influenza russa nel Paese. Nell’agosto scorso Putin e Karimov hanno firmato un accordo di cooperazione strategica e militare che non deve essere piaciuto molto alla Casa Bianca. Tale accordo consente a Mosca di poter usare le installazioni militari uzbeke, e permetterebbe il trasporto del gas di Tashkent attraverso la Russia. Questa svolta diplomatica è forse dettata anche dal timore da parte dell’élite intorno a Karimov che la politica degli Usa promotrice delle “rivoluzioni di velluto” potesse estendersi anche al proprio paese. Mosca fa molti meno problemi nell’uso della mano dura contro gli estremisti islamici, vedi l’esperienza cecena.
Interessi inconciliabili
In quest’area sono in gioco molti interessi chiave non solo per gli Stati Uniti e per la Russia, ma anche per la Cina e per potenze regionali come Iran,Turchia, India e Pakistan. Alla faccia di chi aveva troppo presto creduto alla fine dell’importanza dello stato-nazione, vedremo nel Caucaso e nell’Asia Centrale un inasprimento delle tensioni interimperialistiche. Tensioni non risolte in Afghanistan e che assumono un carattere esplosivo in Iraq. Conflitti che riflettono una difficoltà degli Stati Uniti nel controllo del pianeta, al di là dei parziali successi in Georgia o in Ucraina. Anche nei paesi dell’ex Urss infatti la Russia sta recuperando una crescente influenza economica, attraverso lo strapotere delle proprie imprese del settore energetico, negli ultimi tre anni riportate saldamente sotto il controllo del governo Putin. Queste imprese, siano esse pubbliche o private, stanno reintroducendo un rapporto di classica dipendenza delle periferie rispetto al centro. Il volume di acquisizioni da parte di imprese russe nei mercati dell’Asia centrale è cresciuto di sei volte nel 2003 e di otto nel 2004 (fonte: Limes, 6/2004).
Non possiamo prevedere con certezza quanto Islam Karimov resterà al potere. Ci sarebbero tutte le condizioni perché un movimento dal basso lo possa rovesciare. Oppure, sapendolo malato, settori della classe dominante uzbeka potrebbero destituirlo, proprio per impedire lo sviluppo di una situazione rivoluzionaria.
Non neghiamo che mosse del genere, in paesi dove un’avanguardia veramente comunista è molto debole se non inesistente, possano giocare un ruolo per un periodo nel confondere le masse. Ciò è quanto avvenuto in Georgia e la colpa è da addebitare al deserto lasciato dallo stalinismo in questi paesi. Le ultime elezioni amministrative nel marzo scorso hanno visto stravincere il partito del Presidente Saakasvili, con il 66% relegando l’unica opposizione di sinistra, il Partito del Lavoro, al 6%. Ma quali saranno le conseguenze sul piano sociale del massiccio piano di privatizzazione annunciato dal governo georgiano, che svendendo oltre trecento tra industrie ed enti statali quasi azzera il patrimonio dello stato? Nuove mobilitazione contro il governo filo americano di Saakasvili saranno inevitabili.
Le alleanze ed i governi possono cambiare, ma finché difendono la logica del sistema di mercato nuove rivolte ed insurrezioni saranno all’ordine del giorno. Attraverso una dura ma necessaria esperienza, le masse lavoratrici sapranno trovare la strada verso l’emancipazione dalla barbarie capitalista e ricostruire, questa volta sulle basi di una vera democrazia operaia, una federazione socialista degli stati dell’Asia Centrale.