Mai come in questa occasione, tuttavia, si può parlare di catastrofe annunciata. L’isola di Hispaniola, che Haiti divide con la Repubblica Dominicana, è a rischio sismico fra i più elevati dell’intera area, essendo stata devastata da numerosi terremoti e tsunami nel corso dei secoli.
Haiti è anche uno dei paesi più poveri del mondo. Prima del terremoto, l’80% della popolazione viveva nella povertà più assoluta, il 70% era disoccupato, tre quarti non avevano accesso ad acqua potabile. Nel più classico dei meccanismi di dipendenza causati dall’imperialismo, il paese importava i quattro quinti del proprio fabbisogno alimentare.
Nel 1804 Haiti fu il teatro di un’insurrezione rivoluzionaria. Le masse si ribellarono al giogo coloniale ed Haiti è il primo paese che conquistò l’indipendenza nel continente dopo gli Stati Uniti, ma questa indipendenza è stata pagata a caro prezzo. Gli Usa invasero Haiti infatti più volte. Nel 1915 l’occupazione durò addirittura 19 anni! Dal 1957 al 1986 appoggiarono la feroce dittatura dei Duvalier, padre e figlio. Dagli anni novanta in poi Washington più volte è intervenuta, prima per bloccare ogni riforma radicale promossa da Jean Bertrand Aristide, arrivato al potere all’inizio degli anni novanta sulla base di una forte spinta popolare, poi, sotto l’amministrazione Clinton, per provare a fare del sacerdote salesiano un docile strumento ai suoi ordini.
Ogni intervento ripristinava l’ordine imperialista ma peggiorava le condizioni delle masse. Nel 2004 un golpe scalza definitivamente Aristide dal potere, i marines sbarcano di nuovo nel paese per poi lasciare il posto a una missione di “stabilizzazione” dell’Onu.
Questa missione denominata Minustah, forte di 8500 uomini, è in pratica la principale forza di polizia del paese. Quando da più parti ci si lamenta della totale assenza da parte dello Stato haitiano nella gestione dei soccorsi, la spiegazione è semplice: il governo aveva appaltato la gestione dell’ordine pubblico ai caschi blu. E non solo l’ordine pubblico era stato smantellato: le privatizzazione sono state generalizzate, dai porti all’energia elettrica, fino alla svendita dell’azienda statale di telecomunicazioni, avvenuta cinque giorni prima del terremoto! Le infrastrutture del paese versavano quindi in uno stato di totale abbandono e alla mercè delle multinazionali, un fattore che ha sicuramente aggravato il bilancio delle vittime del sisma.
Malgrado gli show televisivi di beneficenza e le lacrime versate a fiumi nelle dichiarazioni ufficiali, la principale preoccupazione di Obama sembra proprio quella del controllo militare del paese. Il governo Usa ha infatti stanziato 100 milioni di dollari per Haiti, una cifra che sembra considerevole, ma che è l’equivalente di quanto si spende in due giorni per le missioni in Afghanistan e in Iraq. Allo stesso tempo hanno inviato già cinquemila marines e l’obiettivo è di arrivare nei prossimi giorni velocemente a tredicimila unità. Tra questi militari, i medici, gli ingegneri e i soldati del genio sono una minoranza, il grosso è rappresentato dall’82a Brigata aviotrasportata impiegata nel recente conflitto iracheno ed in Afghanistan (nonché nelle invasioni di Grenada e Panama degli anni ottanta) e che apre il suo sito web con le parole “La missione di aiuto ad Haiti utilizza le lezioni della guerra”. Le immagini dell’atterraggio degli elicotteri a stelle e strisce che prendono possesso del palazzo presidenziale ormai in rovina, mentre tutto attorno migliaia di persone cercano disperatamente acqua e cibo sono più eloquenti di mille parole. L’aeroporto di Port au Prince è sotto il ferreo controllo delle truppe Usa, tanto che varie organizzazione umanitarie, tra cui ben cinque aerei di Medicine Sans Frontieres, sono dovute atterrare a Santo Domingo perché il loro arrivo non rientrava tra le priorità di Washington.
“Siamo qui per restare per un lungo periodo, i problemi non si potranno risolvere facilmente” ha spiegato l’ambasciatore americano all’Onu, Alejandro Wolff.
La missione Onu è totalmente subordinata alle truppe Usa,, fatto che ha scatenato le vibranti proteste di Francia e Brasile (che fornisce il grosso delle truppe alla Minustah). Addirittura Bertolaso per un momento si era unito alle critiche di Castro e Chavez, spiegando che “Ad Haiti gli Usa confondono l’intervento militare con l'emergenza”. Le proteste di Hillary Clinton non si sono fatte aspettare e Berlusconi ha subito rampognato il capo della protezione civile.
Bertolaso non è certo un sovversivo, ma descrive soltanto la realtà pura e semplice. Gli Stati uniti sono così interessati agli aspetti umanitari della missione, che le loro frontiere rimarranno chiuse ai profughi. Cinque navi della guardia costiera americana sono state dispiegate davanti alle coste haitiane per impedire un eventuale esodo di disperati verso la Florida. Un portavoce del Dipartimento di Stato ha dichiarato che non ci sarà alcuna facilitazione nella concessione dei visti per i terremotati. Anzi, ufficiali del Pentagono hanno dichiarato al Times on line (21 gennaio 2010) che “le barche con i clandestini a bordo saranno fermate e gli occupanti condotto nella vicina base di Guantanamo”.
Infine la questione degli aiuti economici: la conferenza dei donatori, riunitasi il 25 gennaio scorso proprio per discutere dell’emergenza Haiti, non ha preso nessun impegno concreto e ha rinviato tutto a marzo. Certamente non ha cancellato gli 890 milioni di debito estero che gravano sul paese caraibico, cosa che invece ha fatto, per la sua parte, il Venezuela. Forse ai guru del Fmi è bastata l’enorme concessione fatta sul prestito di 100 milioni di dollari che ha appena elargito ad Haiti: il non pagamento degli interessi per i prossimi due anni!
È necessario dunque, oggi più che mai, squarciare il velo dell’ipocrisia
Gli Usa hanno approfittato della situazione catastrofica seguita al terremoto per prendere il controllo del paese caraibico. Non sfugge a nessuno l’importanza della sua collocazione geografica: al centro dei Carabi, tra Cuba e Venezuela. Migliaia di soldati dislocati a un tiro di schioppo dai due “stati canaglia” rappresentano un arma potente nelle mani di Obama.
È sempre più evidente, infatti, il cambiamento di strategia del Premio Nobel per la pace rispetto al suo predecessore, Bush nella politica estera americana. Quest’ultimo era ossessionato dal Medio Oriente, mentre Obama, pur non tralasciando Iraq e Afghanistan, ha deciso di interessarsi maggiormente del proprio cortile di casa, l’America Latina.
Il ruolo di Washington nel colpo di stato che ha estromesso il legittimo presidente dell’Honduras, Zelaya, non è ormai in discussione, dopo alcune ambiguità iniziali utili solo a disorientare l’opinione pubblica. Per legittimare i golpisti è bastato convocare nuove elezioni presidenziali a cui è stata data la patente di “democratiche”, anche se si sono svolte sotto tutela delle Forze armate e sono state boicottate dalla resistenza. In Colombia si installeranno sette nuove basi Usa, una minaccia diretta a Chavez e al Venezuela.
La tragedia di Haiti per Obama è solo un altro tassello della nuova strategia di dominio dell’imperialismo Usa sul continente latinoamericano. Questa strategia non contempla alcuna pietà dell’inferno a cielo aperto che oggi è Port au Prince.
La commozione che proviamo davanti alle immagini dei cadaveri straziati e di uomini e donne, vecchi e giovani, in preda alla disperazione più nera, è grandissima. Insieme alla commozione deve trovare spazio tuttavia anche la rabbia. Rabbia perché questo inferno ha delle cause nient’affatto naturali, ma è provocato dal sistema capitalista in cui viviamo e che è sempre più necessario cambiare.