La teoria della rivoluzione permanente costituisce una chiave decisiva per la comprensione del mondo contemporaneo. In questa concezione, che Trotskij elaborò lungo tutto l’arco della sua militanza, dagli albori della rivoluzione russa fino agli ultimi scritti nella fase precedente la Seconda guerra mondiale, si può trovare una base teorica granitica per affrontare i nodi decisivi del capitalismo odierno. Ripubblichiamo oggi questo libro non solo per rendere disponibile un classico da tempo non più ristampato in Italia. Tutti gli avvenimenti internazionali testimoniano che siamo ad una svolta decisiva nella storia mondiale.
La guerra in Iraq non è che l’ultimo esempio di come l’equilibrio capitalistico sia scosso a tutti i livelli. La crisi o addirittura il tracollo delle istituzioni internazionali, dall’Onu al Wto alla stessa Unione europea, i rapporti sempre più apertamente conflittuali fra le grandi potenze e fra queste e i paesi che per un motivo o per l’altro si trovano per loro disgrazia ad intralciare la strada dell’imperialismo (in primo luogo quello Usa)… tutti questi non sono altro che sintomi della rottura del precedente equilibrio. Su scala mondiale la borghesia si avventura su un terreno inesplorato, nel quale le “regole del gioco” della stabilità capitalistica, regole che in qualche caso duravano da secoli, vengono scosse da una crisi che colpisce tutti i livelli: economico, diplomatico, militare, sociale.
E sullo sfondo di questa rottura si riaffaccia lo spettro che la classe dominante pensava di avere definitivamente esorcizzato dopo il 1991 e il “crollo del comunismo”. Il problema della rivoluzione torna all’ordine del giorno con un processo continentale che attraversa l’America latina e che immancabilmente si affaccerà, più presto che tardi, in nuove aree del mondo. La classe operaia, i contadini, i popoli oppressi, dopo un silenzio ventennale, rialzano la testa; un paese dopo l’altro, dall’Argentina al Venezuela, dalla Bolivia al Perù, sono testimoni di movimenti di massa, sommosse e vere e proprie insurrezioni di massa. Gli anni ’90 hanno già visto il preludio della rivoluzione asiatica con i giganteschi movimenti di massa che hanno portato alla caduta della dittatura in Indonesia (1997) e alle grandi lotte della classe operaia sudcoreana. La “crisi asiatica” annuncia nuovi e più sconvolgenti avvenimenti. Altre aree del mondo, dall’Africa australe al mondo arabo, vengono immancabilmente sospinte sulla stessa via dalla pressione spietata dell’imperialismo e dalla crisi del capitalismo su scala mondiale.
È di vitale importanza che alla solidarietà internazionalista e militante con i movimenti rivoluzionari che tornano sulla scena mondiale, affianchiamo una capacità di analisi rigorosa dei processi in corso.
Per la prima volta da decenni vediamo un processo di radicalizzazione e di ascesa della lotta di classe che può portare decine e centinaia di migliaia di giovani, di lavoratori, di attivisti politici e sindacali a mettere al centro della loro vita la lotta contro il capitalismo. E non a caso vediamo una forte ricerca di spiegazioni e analisi che possano illuminare il processo in corso. A questa ricerca è nostro dovere partecipare, proporre la spiegazione marxista della crisi del capitalismo, delle guerre, della crisi di questa società e soprattutto delle prospettive rivoluzionarie della nostra epoca.
In molti settori della sinistra che si considera “antagonista” (con quanto fondamento è un’altra questione) è di moda irridere il marxismo e qualsiasi tentativo di giungere a un approfondimento teorico dei processi in corso. Ma sappiamo bene per la nostra diretta esperienza come lo snobismo intellettuale di questi settori non corrisponda affatto alla sincera ricerca di spiegazioni e di conoscenza che attraversa i migliori attivisti in tutti i movimenti di lotta, e in particolare fra i lavoratori. È a loro che ci rivolgiamo con la certezza che pubblicazioni come queste ci aiuteranno a sviluppare quella discussione e quella comprensione che sono indispensabili a chi voglia orientare la propria azione e la propria lotta nelle condizioni attuali.
Alle origini della rivoluzione permanente
Il libro che presentiamo venne scritto nel 1929, quando Trotskij si trovava esiliato ad Alma-Ata, dopo che Stalin lo aveva fatto espellere dal partito comunista dell’Urss, mentre era in procinto di essere cacciato dalla stessa Unione sovietica. Il libro nasce come polemica contro la concezione, elaborata da Stalin a partire dal 1924, del “socialismo in un solo paese”. Come si dimostra ampiamente nel testo, tale concezione non solo venne “scoperta” da un giorno all’altro da Stalin, che nell’autunno del 1924 per la prima volta la prese a cardine della sua politica in Urss, ma costituiva una rottura radicale con tutta la precedente tradizione del marxismo e in particolare con l’elaborazione di Lenin prima e dopo il 1917, elaborazione che era stata alla base della rivoluzione d’Ottobre e della fondazione dell’Internazionale comunista. L’altro aspetto decisivo della polemica prende a bersaglio la politica perseguita dall’Internazionale comunista sotto la direzione di Stalin e Bucharin nella rivoluzione cinese del 1925-27.
Nella speranza di aiutare il lettore a comprendere l’insieme di quella polemica, cercheremo di ricostruirne le basi ideologiche che affondano in realtà le loro radici nell’intera storia del marxismo russo fin dalle sue origini.
Il marxismo nacque in Russia alla fine dell’800 in polemica frontale con le teorie populiste ed anarchiche. Queste prendevano le mosse dalla constatazione della natura arretrata e contadina della Russia zarista e da tali premesse deducevano che la rivoluzione russa sarebbe stata del tutto peculiare, che la storia aveva riservato alla Russia un cammino storico speciale, differente da quello dei paesi capitalisti dell’Europa occidentale. Base della rivoluzione russa, nella concezione populista, sarebbero stati i contadini e non il proletariato, la Russia avrebbe evitato gli orrori del capitalismo costruendo una propria forma di socialismo basata sulla proprietà comune della terra dei villaggi (il mir, o comune contadina).
Contro tale concezione, che glorificava l’arretratezza storica della Russia in una sorta di messianismo nazionale, si schierò per primo il fondatore del marxismo russo Georgij Plekhanov (a sua volta ex militante populista) il quale preconizzò lo sviluppo capitalistico e borghese della Russia e l’inevitabilità che anche in essa si sarebbe sviluppata una classe operaia, e quindi un movimento marxista socialdemocratico (socialdemocratici si definivano allora tutti i marxisti rivoluzionari). Al congresso internazionale socialista del 1889 Plekhanov così sintetizzò la sua concezione: “La rivoluzione russa trionferà come rivoluzione operaia, o non trionferà affatto”.
Questa concezione, che rompeva audacemente con tutta la precedente tradizione rivoluzionaria russa, fu alla base della nascita del marxismo russo che nel giro di una generazione si sarebbe trovato a guidare la più grande rivoluzione della storia.
Gli avvenimenti successivi, tuttavia, dimostrarono che nella concezione di Plekhanov una serie di elementi decisivi non erano precisati, e che tale concezione si prestava a sviluppi e interpretazioni divergenti e persino opposte. Una parte del movimento marxista russo, infatti, diede un’interpretazione completamente unilaterale di questa teoria, prefigurando che la Russia arretrata avrebbe dovuto seguire pedissequamente, passo a passo e per un lungo periodo storico, tutte le tappe dell’evoluzione economica e sociale che nei secoli precedenti avevano segnato l’affermazione del capitalismo nell’Europa occidentale. In altre parole, si prevedeva per la Russia una lunga fase di sviluppo economico e industriale, alla quale si sarebbe accompagnata ad un dato momento una rivoluzione di natura puramente democratica, che senza uscire dai limiti imposti dalla società capitalista, avrebbe provveduto a democratizzare lo Stato autocratico zarista, a redistribuire le terre della nobiltà, in altre parole a trasportare in Russia i risultati delle rivoluzioni borghesi (rivoluzione inglese, rivoluzione francese) dei secoli precedenti. Solo al termine di un simile sviluppo storico (e quindi in un futuro nebuloso e non ipotizzabile) si sarebbe potuto porre il problema di un movimento del proletariato in direzione del socialismo.
Questa concezione piattamente evoluzionistica assegnava alla classe operaia, e quindi al partito socialdemocratico e ai marxisti, un semplice ruolo di fiancheggiamento alla borghesia liberale, che proprio allora cominciava timidamente ad avanzare sommesse richieste di democratizzazione della monarchia zarista. Dietro questa “interpretazione” del marxismo si celava in realtà una concezione puramente liberale e, come detto, evoluzionistica, che del marxismo prendeva solo alcuni aspetti (la concezione della superiorità del capitalismo rispetto ai residui feudali che permanevano in Russia), negandone però l’aspetto rivoluzionario e in primo luogo negando il ruolo indipendente del proletariato.
Va detto che né Marx, né Engels, aderirono mai a una tale “interpretazione” delle loro teorie che in realtà le negava alla radice.
Marx criticò aspramente coloro i quali tentarono di attribuirgli l’idea che l’evoluzione del capitalismo come analizzata nel Capitale, fosse un modello da applicarsi indistintamente a tutti i paesi e a tutte le aree del mondo.
…se la Russia aspira a diventare una nazione capitalistica alla stessa stregua delle nazioni dell’Europa occidentale, e negli ultimi anni si è data un gran daffare in questo senso, essa non lo potrà prima di aver trasformato buona parte dei suoi contadini in proletari: dopo di che, presa nel turbine del sistema capitalistico, ne subirà, come tutte le altre nazioni profane, le leggi inesorabili. Ecco tutto. Ma, per il mio critico, è troppo poco. Egli sente l’irresistibile bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino (…). Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto. (…)
La chiave di questi fenomeni sarà facilmente trovata studiandoli separatamente uno per uno e poi mettendoli a confronto; non ci si arriverà mai col passe-partout di una filosofia della storia, la cui virtù suprema è d’essere soprastorica.1
Nell’introduzione alla prima edizione russa del Manifesto del partito comunista, Engels ipotizzò in questi termini il possibile futuro della Russia e della sua rivoluzione:
Sorge dunque il problema: l’obscina, questa forma in gran parte già minata dell’antichissima proprietà comune del suolo, può passare direttamente alla forma comunistica superiore di possesso collettivo della terra, o dovrà prima attraversare lo stesso processo di disgregazione che costituisce lo sviluppo storico dell’Occidente?
La sola risposta oggi possibile a tale domanda è: se la rivoluzione russa diverrà il segnale di una rivoluzione proletaria in Occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino a vicenda, allora, l’odierna proprietà comune della terra in Russia potrà servire come punto di partenza a uno sviluppo in senso comunistico.2
In queste righe si indica, sia pure in estrema sintesi e in forma embrionale, quello che poi sarà l’elemento decisivo della rivoluzione russa, ossia la combinazione, l’intreccio peculiare determinato da un lato dall’arretratezza della società russa, e dall’altro dal ruolo del proletariato su scala nazionale e internazionale.
Contro l’interpretazione evoluzionista, gradualista e in definitiva opportunista che prima citavamo, si schierò l’ala rivoluzionaria del marxismo russo, in una polemica che durò un quarto di secolo e che oppose di volta in volta marxisti rivoluzionari e “marxisti legali”, “iskristi” ed “economisti”, bolscevichi e menscevichi.3
Queste polemiche teoriche, e le corrispondenti lotte di frazione che percorsero ininterrottamente il movimento socialista russo, suscitarono più di una volta l’ironia e l’irritazione di quei socialisti occidentali che giudicavano i marxisti russi affetti da un’inguaribile tendenza a spaccare il capello in quattro e ad accapigliarsi per oscuri punti di teoria. Eppure fu precisamente attraverso quei conflitti che si precisarono le concezioni teoriche e politiche che successivamente sarebbero state messe alla prova negli avvenimenti storici del 1905, anno della prima rivoluzione russa, e del 1917.
La rivoluzione del 1905 costituì il primo, importantissimo banco di prova delle diverse posizioni. Dopo una serie di ondate di scioperi operai e proteste che coinvolsero strati rilevanti della piccola borghesia e dell’intelligentsia, la rivoluzione eruppe con la sconfitta della Russia zarista nella guerra con il Giappone. La “Domenica di sangue” (9 gennaio 1905) vide scendere in piazza una giovane classe operaia, formata in larga misura da contadini gettati nel calderone della grande industria impiantata prevalentemente dai capitali stranieri, che si trovò fin da subito a capo dell’intero movimento rivoluzionario. All’esplosione del 9 gennaio seguirono altre ondate di scioperi, sommosse contadine, rivolte nell’esercito, fino al grande sciopero generale che nell’ottobre del 1905 costrinse lo zar a una parziale capitolazione e con la concessione del Manifesto (18 ottobre) che prometteva il passaggio a una forma di monarchia costituzionale.
La ritirata dello zar non placò il movimento operaio che giunse al suo apice con l’insurrezione di Mosca del dicembre 1905, schiacciata nel sangue dall’esercito. Si aprì una nuova fase che vide la classe operaia ritrarsi dal terreno della lotta aperta per l’insurrezione. Lo zarismo, a sua volta, non aveva le forze per imporre un ritorno indietro e dovette rassegnarsi a convocare una Duma (parlamento) la quale dopo varie vicende venne infine sciolta dallo zar con il colpo di Stato del 3 giugno 1907. Si apriva una nuova fase di nera reazione, con migliaia di esecuzioni, arresti, esili e con il ritorno nell’illegalità del partito socialdemocratico e del movimento operaio.
Gli avvenimenti del 1905 provocarono una ulteriore chiarificazione e cristallizzazione nel movimento operaio. La rivoluzione aveva mostrato oltre ogni dubbio come la borghesia russa, lungi dall’imitare i suoi predecessori francesi della Grande rivoluzione del 1789, temeva più di ogni altra cosa lo scatenamento delle forze popolari, del proletariato e dei contadini affamati di terra. Se la borghesia francese con i decreti del 4 agosto 1789 aveva posto fine ai privilegi secolari della nobiltà terriera e della chiesa, la borghesia russa al contrario si stringeva attorno allo zarismo e alla nobiltà cercando un fronte comune contro le forze scatenate dalla rivoluzione. Il movimento contadino aveva mostrato tutte le sue potenzialità rivoluzionarie con decine di sollevazioni violente, ma a differenza di quanto avvenuto nelle rivoluzioni borghesi “classiche”, nella borghesia cittadina liberale non solo non aveva trovato una guida e un alleato, ma al contrario trovava un ostacolo e un nemico giurato.
Il proletariato, infine, aveva mostrato come a prescindere dalla sua esiguità numerica, la sua concentrazione nelle città industriali e la sua compattezza (a differenza della dispersione geografica e anche sociale che dominava il movimento contadino) ne facevano il perno fondamentale e la guida di qualsiasi movimento rivoluzionario che ambisse a rovesciare lo zarismo. La nascita del soviet di Pietrogrado ne era la conferma. Il soviet, un consiglio democratico che rappresentava decine di migliaia di operai che nelle officine eleggevano i propri rappresentanti, si era trovato immediatamente non solo alla testa del proletariato, ma dell’insieme del movimento rivoluzionario. I cinquanta giorni di esistenza del soviet di Pietroburgo, fino al suo scioglimento per mano della polizia zarista, avevano rappresentato il punto culminante della rivoluzione del 1905.
Questi avvenimenti e la successiva sconfitta della prima rivoluzione russa spinsero ciascuna delle diverse frazioni della socialdemocrazia a darne una propria interpretazione.
Per i menscevichi la lezione era chiara; il proletariato si era spinto “troppo in là”, aveva esagerato a porre prematuramente le proprie rivendicazioni di classe (ad esempio la giornata lavorativa di otto ore) e soprattutto a porsi l’obiettivo di rovesciare lo zarismo con l’insurrezione. Così facendo gli operai avevano “spaventato” la borghesia, e il ritrarsi della borghesia dal movimento contro lo zarismo aveva determinato la sconfitta della rivoluzione democratica. Nelle parole di Plekhanov dopo la fallita insurrezione di Mosca: “non si dovevano prendere le armi”.
Lenin e i bolscevichi trassero invece conclusioni opposte. Lenin ovviamente riconosceva come la rivoluzione russa dovesse tuttora assolvere a tutta una serie di compiti irrisolti dello sviluppo borghese-democratico della Russia. Tuttavia l’esperienza dimostrava come la borghesia russa non fosse disposta a scendere sul terreno della rivoluzione; l’alleanza che doveva portare a termine questi compiti era un’alleanza fra la classe operaia e i contadini, contro lo zarismo ma anche contro i liberali borghesi che per quanto ostili all’autocrazia zarista erano mille volte più timorosi delle conseguenze di una rivoluzione vittoriosa. Ne seguiva quindi che i socialdemocratici dovevano mantenere la più completa indipendenza politica dai partiti della borghesia liberale e condurre contro di essi una lotta intransigente. Lo sbocco della rivoluzione sarebbe stato una “dittatura democratica degli operai e dei contadini”, ossia un governo rivoluzionario che avrebbe introdotto la repubblica, dato ai contadini le terre del grande latifondo e creato un regime democratico. Assemblea costituente, riforma agraria, giornata lavorativa di otto ore: queste tre parole d’ordine riassumevano in uno slogan la prospettiva dei bolscevichi per la futura rivoluzione.
Accanto a queste due concezioni, Trotskij (che nel 1905 aveva giocato un ruolo di primo piano ed era stato presidente del soviet di Pietroburgo) sviluppò una terza posizione che riassunse magistralmente nel suo libro Bilanci e prospettive del 1906. Tracciando un parallelo con le grandi rivoluzioni del passato, e in particolare con la rivoluzione francese del 1789 e con le rivoluzioni del 1848, analizzando analogie e differenze, Trotskij giunse a una definizione teorica insuperata della rivoluzione russa. I capisaldi di quella analisi possono essere così schematicamente riassunti.
1) Lo sviluppo del capitalismo russo non segue rigidamente le stesse tappe dello sviluppo dei paesi capitalisti che si svilupparono per primi, in particolare del capitalismo inglese come analizzato da Marx nelle pagine del Capitale. La borghesia russa non nasce con un lungo processo secolare staccandosi dalle corporazioni urbane medievali. I capitali che costruiscono l’industria russa sono in larga parte capitali stranieri, che saltando tutta una serie di fasi intermedie trapiantano in un paese arretrato la grande industria nelle sue forme più moderne. Si crea una alleanza tra questo capitale, lo Stato zarista, le banche e la nobiltà terriera che si trova sempre più strettamente legata alla borghesia. Al tempo stesso si forma un proletariato che rapidamente si trova ad occupare un posto decisivo nell’economia e nella società. Lo sviluppo del capitalismo assume un carattere diseguale e combinato.
Da questa legge universale della ineguaglianza deriva un’altra legge che, in mancanza di una denominazione più appropriata, può essere definita legge dello sviluppo combinato e che vuole indicare l’accostarsi di diverse fasi, il mescolarsi di forme arcaiche con le forme più moderne.4
2) Ne consegue che la borghesia russa non può porsi alla guida e neppure accettare di partecipare ad un movimento rivoluzionario contro lo zarismo. Al contrario, deve aggrapparsi all’apparato statale zarista (unico baluardo possibile della sua proprietà), alla proprietà terriera (poiché la riforma agraria significherebbe la contemporanea rovina delle banche verso le quali i latifondisti sono sempre più pesantemente indebitati). In altre parole, a differenza delle borghesie dell’Europa occidentale, che in modo più o meno deciso assecondarono o addirittura guidarono i movimenti rivoluzionari dei secoli XVII e XVIII, la borghesia russa non ha, sul piano storico, alcun ruolo progressista da giocare, essa è in tutto e per tutto una forza controrivoluzionaria, dietro la quale si schiera il capitale internazionale.
3) Lo sviluppo dell’industria ha creato un forte proletariato che si trova a prendere il posto che nella rivoluzione francese era stato dei sanculotti parigini, ossia quello di punta avanzata e massa d’urto della rivoluzione. La classe operaia, grazie alla sua concentrazione nelle città e nelle grandi fabbriche, può raggiungere rapidamente un alto grado di omogeneità politica e porsi alla guida della rivoluzione, fornendo alle sterminate masse di contadini poveri che lottano per la terra un punto di riferimento e una guida. Tutta la storia dei secoli precedenti dimostra infatti come la classe contadina, dispersa sul territorio ed eterogenea per condizioni sociali, è sì capace di grandi rivolte, tuttavia, inevitabilmente queste non portano al potere un partito contadino, ma un partito rivoluzionario delle città. Se ciò non avviene, la rivolta contadina viene divisa e schiacciata dal potere centrale.
Grazie a questa combinazione di fattori, la rivoluzione russa, che inizia come rivoluzione borghese, può portare al potere la classe operaia prima che questo avvenga anche nei paesi capitalisticamente avanzati dell’Europa occidentale.
4) Una volta al potere la classe operaia sarà costretta non solo a realizzare il programma della rivoluzione borghese democratica abbandonato dalla borghesia, ma dovrà necessariamente avanzare misure socialiste mettendo in discussione la proprietà borghese. Nonostante le condizioni per la costruzione di un’economia socialista non siano ancora pienamente maturate in Russia, tale sbocco è inevitabile e su questa strada la rivoluzione russa diventa il primo passo della rivoluzione europea.
Vale la pena di citare la sintesi conclusiva alla quale Trotskij giunse nel suo scritto Bilanci e Prospettive del 1906, sintesi che rompendo con ogni formalismo pseudo-marxista, per la prima volta indicava in modo inequivocabile quello che sarebbe stato lo sbocco e l’approdo della rivoluzione in Russia:
In un paese economicamente più arretrato il proletariato può giungere al potere prima che in un paese di capitalismo avanzato. (…) L’idea di una qualche dipendenza automatica della dittatura del proletariato dalle forze tecniche e dai mezzi del paese, rappresenta un pregiudizio di un “materialismo economico” schematizzato all’estremo. Un tale punto di vista nulla ha in comune con il marxismo.
A nostro parere, la rivoluzione russa crea tali condizioni sulla base delle quali il potere può (e con la vittoria della rivoluzione deve) passare nelle mani del proletariato prima che la politica del liberalismo borghese abbia la possibilità di sviluppare in forma piena il proprio genio statale.5
Vi era quindi una sostanziale consonanza fra la posizione di Lenin e quella di Trotskij su numerosi punti decisivi, e in particolare sulla questione della completa indipendenza del movimento operaio dalla borghesia e dai suoi partiti. Lenin fece rilevare tale accordo nel suo intervento al IV congresso del Posdr, nel 1907:
Alcune parole su Trotskij. Non ho il tempo ora di soffermarmi sui nostri dissensi con lui. Rileverò soltanto che egli, nel suo libro In difesa del partito, ha espresso la sua solidarietà con Kautsky il quale ha scritto che nella rivoluzione attuale in Russia il proletariato e le masse contadine hanno interessi economici comuni. Trotskij ha riconosciuto l’ammissibilità di un blocco delle sinistre contro la borghesia liberale. Per me questi fatti sono sufficienti per dire che egli si è avvicinato alle nostre opinioni. Astraendo dal problema della “rivoluzione permanente”, vi è qui una solidarietà sui punti fondamentali del problema dell’atteggiamento verso i partiti borghesi.6
Tutto il discorso pronunciato da Lenin in quel congresso (che, non va dimenticato, costituì il momento più alto di bilancio dell’esperienza della prima rivoluzione russa) riguardo la questione del ruolo del proletariato e delle alleanze, va precisamente nella stessa direzione delle idee espresse da Trotskij dal 1905 in poi.7
C’era però un importante punto di differenza fra Lenin e Trotskij. Quest’ultimo infatti faceva rilevare come la posizione di Lenin della “dittatura democratica degli operai e dei contadini” non rispondesse a una domanda essenziale: quale fra queste classi avrebbe esercitato l’egemonia? In altre parole, la rivoluzione si sarebbe limitata ad obiettivi borghesi (sia pure avanzati) o si sarebbe spinta su un terreno socialista? La risposta di Trotskij era che se il proletariato si fosse trovato al potere, esso non avrebbe potuto “autolimitarsi” nel proprio programma e inevitabilmente si sarebbe dovuto spingere ad attuare non solo misure democratiche borghesi (riforma agraria, repubblica, assemblea costituente), ma anche misure socialiste, cominciando ad espropriare la borghesia e avviando così la transizione a una società socialista.
Entrando al governo non come ostaggi impotenti, ma come forza dirigente, i rappresentanti del proletariato con ciò stesso distruggono i confini tra programma minimo e programma massimo, mettono cioè il collettivismo all’ordine del giorno. A che punto il proletariato verrà fermato in questa direzione, dipende dai rapporti di forza e non dalle intenzioni iniziali del proletariato.
Ecco perché non si può neppure parlare di una qualche forma particolare di dittatura del proletariato nella rivoluzione borghese, cioè appunto di dittatura “democratica” del proletariato (o del proletariato e dei contadini).8
Trotskij sottolineava quindi come se la posizione di Lenin (“dittatura democratica del proletariato e dei contadini”) fosse stata presa alla lettera, essa avrebbe comportato un grave pericolo in caso di vittoria di un movimento rivoluzionario.
Se i menscevichi, che procedono dalla concezione astratta: “La nostra rivoluzione è borghese”, arrivano all’idea di adattare tutta la tattica del proletariato alla condotta della borghesia liberale fino alla conquista del potere da parte di questa, i bolscevichi, partendo da una concezione non meno astratta: “Dittatura democratica e non socialista”, arrivano all’idea di una limitazione volontaria del proletariato che detiene il potere a un regime di democrazia borghese. È vero che tra menscevichi e bolscevichi esiste una differenza essenziale: mentre gli aspetti antirivoluzionari del menscevismo si manifestano sin d’ora in tutta la loro estensione, ciò che vi è di antirivoluzionario nel bolscevismo è pericoloso, e molto seriamente, soltanto nel caso di una vittoria rivoluzionaria.9
Lenin e Trotskij nel 1917
Queste furono le posizioni con le quali le differenti correnti del movimento operaio russo affrontarono la seconda rivoluzione russa. Come aveva anticipato Trotskij, la vittoria dell’insurrezione che nel febbraio del 1917 rovesciò lo zarismo mise a nudo i punti deboli della posizione bolscevica. In assenza di Lenin, esiliato in Svizzera, i principali quadri bolscevichi diedero un’interpretazione formalistica della posizione di Lenin della “dittatura democratica” che li fece finire su una linea completamente opportunista. Kamenev, principale quadro bolscevico all’interno della Russia, e Stalin, direttore della Pravda, imposero un posizione di sostegno critico al governo provvisorio emerso dalla rivoluzione, una coalizione fra liberali e socialisti “conciliatori”, ossia i menscevichi e i socialrivoluzionari. Secondo Stalin e Kamenev tale governo rappresentava l’inizio della rivoluzione borghese e andava sostenuto “nella misura in cui” avesse portato avanti il programma democratico. Sul problema decisivo della guerra imperialista, alla quale la Russia partecipava al fianco di Francia e Gran Bretagna, essi sostennero una posizione “difensivista” dichiarando che con la caduta dello zarismo il proletariato doveva abbandonare ogni disfattismo, in attesa di una fantomatica “pace democratica”.
Queste posizioni causarono una seria crisi nel partito bolscevico. Quando Lenin tornò dall’esilio, il 3 aprile del 1917, avviò immediatamente una polemica frontale con quei “vecchi bolscevichi” (Stalin e Kamenev in primo luogo) che aggrappandosi a una formula consolidata (la “dittatura democratica”) la svuotavano di ogni contenuto rivoluzionario e portavano il partito su una posizione opportunista. Mentre Kamenev mantenne e difese la propria concezione, Stalin si allineò il più silenziosamente possibile a Lenin nei mesi seguenti, cercando di coprire le tracce della sua posizione precedente.
Lenin aprì lo scontro pubblicando le sue celebri Tesi di Aprile, nelle quali tracciò quello che sarebbe stato il corso successivo della rivoluzione. Nelle Tesi di Aprile Lenin affermò i seguenti punti:
1) Il governo provvisorio liberale-socialista non ha alcun ruolo progressista, è l’ostacolo principale all’ulteriore sviluppo della rivoluzione e rappresenta un potere che ha potuto usurpare la vittoria popolare dell’insurrezione di febbraio a causa dell’impreparazione politica e organizzativa delle masse e dei rivoluzionari. Esso non ha alcuna intenzione né di porre termine alla guerra imperialista, né di dare le terre ai contadini e probabilmente neppure di convocare un’Assemblea costituente.
2) Il vero potere non è quello del governo provvisorio, ma quello dei soviet degli operai, dei contadini e dei soldati, che riprendendo la tradizione del 1905 si sono formati in tutto il paese. I lavoratori avrebbero il potere in mano attraverso i soviet, ma non ne sono coscienti. Il compito dei bolscevichi è di “spiegare pazientemente” il vero ruolo del governo provvisorio assumendo un atteggiamento di opposizione nei suoi confronti.
3) La parola d’ordine centrale dei bolscevichi è quindi quella di “tutto il potere ai soviet”. Poiché il partito bolscevico è tuttora una minoranza all’interno dei soviet (che inizialmente erano dominati dai partiti socialisti conciliatori) non si pone il problema immediato di una nuova insurrezione, bensì quello di conquistare la maggioranza nei soviet. Le masse si scontreranno inevitabilmente con il governo provvisorio e dovranno orientarsi al bolscevismo.
Le Tesi di Aprile suscitarono uno scontro aspro all’interno del partito bolscevico, Lenin si trovò completamente isolato al vertice del partito, al punto che le Tesi comparvero con la sua sola firma e la Pravda diretta da Stalin e Kamenev le fece accompagnare da una nota critica pubblicata l’8 aprile 1917:
Per quanto riguarda lo schema generale del compagno Lenin, ci sembra inaccettabile nella misura in cui presenta come portata a termine la rivoluzione democratico-borghese e mira a una immediata trasformazione di questa rivoluzione in rivoluzione socialista.10
Nelle Lettere sulla tattica, che riassumono il dibattito suscitato dalle Tesi d’Aprile, troviamo un’aspra polemica di Lenin contro quei “vecchi bolscevichi” (Kamenev, Stalin, Rykov, Zinov´ev, ecc.), che in nome di una formula sclerotizzata si dimostravano incapaci di comprendere la realtà viva della rivoluzione che si sviluppava sotto i loro occhi.
Il passaggio del potere statale da una classe a un’altra è il primo segno, il carattere principale, fondamentale, di una rivoluzione (…). Pertanto la rivoluzione borghese o democratico-borghese è già terminata in Russia.
Sentiamo levarsi qui le proteste dei contraddittòri ai quali piace chiamarsi “vecchi bolscevichi”: non abbiamo sempre detto che la rivoluzione borghese può essere portata a termine soltanto dalla “dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini”? E la rivoluzione agraria, che è anch’essa democratica borghese, è forse terminata? Non è invece un fatto che essa non è ancora cominciata?
Rispondo: le idee e le parole d’ordine dei bolscevichi sono state interamente confermate dalla storia nel loro insieme, ma in concreto le cose sono andate in maniera diversa da quanto io (o chiunque altro) poteva prevedere, si sono cioè svolte in modo più originale, peculiare e vario.
Ignorare, dimenticare questi fatti significa porsi sul piano di quei “vecchi bolscevichi” che più d’una volta hanno avuto una triste funzione nella storia del nostro partito, ripetendo stolidamente una formula imparata a memoria invece di studiare quanto vi era di originale nella nuova e vivente realtà. (…)
Chi parli oggi soltanto della “dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini” è in ritardo sulla vita e di conseguenza è passato di fatto nel campo della piccola borghesia, contro la lotta di classe proletaria, e merita di essere relegato nell’archivio delle curiosità “bolsceviche” prerivoluzionarie (si potrebbe dire, nell’archivio dei “vecchi bolscevichi”).11
E rispondendo alla nota della Pravda:
La formula vetero-bolscevica del compagno Kamenev, “la rivoluzione democratica borghese non è conclusa”, abbraccia forse questa realtà?
No, questa formula è invecchiata. Non serve più a niente. È morta. E invano si cercherà di risuscitarla.12
Le posizioni di Lenin diedero un punto di riferimento autorevole alla base operaia del partito che era rimasta sconcertata e ammutolita per la posizione opportunista di Kamenev e Stalin e il dibattito rapidamente mise in minoranza questi ultimi. Nel maggio del 1917 Lenin era ormai saldamente maggioritario nel partito bolscevico, anche se la divisione si sarebbe riprodotta alla vigilia dell’insurrezione di ottobre, quando Kamenev e Zinov´ev si opposero alla presa del potere scontrandosi ancora una volta con Lenin.
Trotskij non partecipò al dibattito dell’aprile del 1917. Esiliato in America e incarcerato dagli inglesi mentre era sulla via del ritorno, giunse in Russia solo in maggio, quando quello che definì il “riarmo” politico del partito era sostanzialmente terminato. Le sue posizioni e quelle di Lenin coincidevano ora completamente, come dimostrano gli articoli pubblicati da Trotskij a New York immediatamente dopo la rivoluzione di febbraio. Non a caso i “vecchi bolscevichi” accusarono Lenin di essere diventato trotskista, e non appena Trotskij rientrò in Russia si avviò il processo di fusione fra i suoi seguaci e il partito bolscevico, fusione che venne sancita nel congresso del luglio 1917. Leggendo questo libro, il lettore si renderà facilmente conto di come la stessa critica che i “vecchi bolscevichi”, caduti in una posizione opportunista dopo la rivoluzione di febbraio, rivolgevano a Lenin fosse esattamente la stessa che anni dopo avrebbero rivolto, in modo mille volte più virulento e calunnioso, contro Trotskij e la rivoluzione permanente.
La rivoluzione d’Ottobre rovesciò il governo provvisorio e consegnò il potere ai soviet operai e contadini. I primi atti del governo operaio e contadino furono l’avvio dei negoziati di pace per uscire dalla guerra imperialista e il decreto sulla terra, che distruggeva in un solo colpo la grande proprietà terriera e assumeva il programma contadino che il partito socialrivoluzionario aveva elaborato ma che il governo di cui quello stesso partito faceva parte non si sognava minimamente di applicare. La previsione formulata da Trotskij undici anni prima si realizzava alla lettera: la Russia arretrata vedeva una giovane classe operaia che impugnando audacemente la causa contadina si apriva, prima in Europa, la strada del potere.
La teoria della rivoluzione permanente trovava così la sua più clamorosa conferma pratica, non sul terreno delle dispute teoriche e delle polemiche fra le frazioni, ma nel vivo della più grande rivoluzione che la storia avesse conosciuto.
La Terza internazionale
I dibattiti dell’Internazionale comunista nei suoi anni fondativi (1919-22) furono fortemente influenzati dalle lezioni teoriche che scaturivano dalla rivoluzione d’Ottobre. L’onda d’urto generata dalla rivoluzione russa aveva accelerato enormemente il risveglio dei popoli dei paesi coloniali e semicoloniali, e la questione fu ampiamente dibattuta nel II congresso del 1920.
Non possiamo riportare l’intera discussione, ma vale la pena di citare alcuni dei passi più significativi delle posizioni espresse da Lenin in quel dibattito.
Riguardo alle nazioni e agli Stati più arretrati, dove predominano i rapporti feudali o patriarcali e patriarcali-contadini, è particolarmente necessario tener presente:
1) la necessità per tutti i partiti comunisti di aiutare il movimento democratico borghese di liberazione in questi paesi; l’obbligo di aiutare nel modo più attivo un movimento di questo genere spetta anzitutto agli operai del paese dal quale dipende, dal punto di vista coloniale o finanziario, la nazione arretrata;
2) la necessità di lottare contro il clero e gli altri elementi reazionari e medievali, che hanno influenza nei paesi arretrati;
3) la necessità di combattere il panislamismo e le analoghe tendenze che cercano di collegare il movimento di liberazione nazionale contro l’imperialismo europeo e americano con il rafforzamento della posizione dei khan, dei grandi proprietari fondiari, dei mullah, ecc.;
4) la necessità di appoggiare particolarmente il movimento contadino dei paesi arretrati contro i grandi proprietari fondiari, contro la grande proprietà terriera, contro qualsiasi manifestazione e sopravvivenza di feudalesimo, e la necessità di lottare per imprimere al movimento contadino il carattere più rivoluzionario mediante la più stretta alleanza tra il proletariato comunista dell’Europa occidentale e il movimento rivoluzionario contadino dell’oriente, delle colonie e dei paesi arretrati in genere;
5) la necessità di lottare energicamente contro i tentativi di dare una tinta comunista ai movimenti democratici borghesi di liberazione dei paesi arretrati; l’Internazionale comunista deve sostenere i movimenti democratici borghesi nazionali nelle colonie e nei paesi arretrati solo a condizione che, in tutti i paesi arretrati, gli elementi dei futuri partiti proletari - comunisti di fatto e non soltanto di nome - siano raggruppati ed educati nella coscienza dei loro compiti particolari, consistenti nella lotta contro i movimenti democratici borghesi in seno alla loro nazione; l’Internazionale comunista deve concludere alleanze provvisorie con la democrazia borghese delle colonie e dei paesi arretrati, ma non deve fondersi con essa e deve assolutamente salvaguardare l’autonomia del movimento proletario persino nella sua forma embrionale;
6) la necessità di spiegare alle grandi masse lavoratrici di tutti i paesi, e soprattutto dei paesi più arretrati, e di smascherare instancabilmente l’inganno a cui ricorrono metodicamente le potenze imperialistiche, le quali, asserendo di voler costituire Stati politicamente indipendenti, creano in realtà degli Stati da loro interamente dipendenti in senso economico, finanziario, militare; nella presente situazione internazionale l’unica salvezza per le nazioni deboli e dipendenti consiste nell’unione delle repubbliche sovietiche.13
Nel corso del II congresso dell’Internazionale comunista, Lenin tornò su queste tesi con un intervento che merita di essere citato in quanto precisa ulteriormente la concezione espressa nella bozza di tesi sopra citata.
In terzo luogo, vorrei sottolineare particolarmente la questione del movimento democratico borghese nei paesi arretrati. È appunto questo il problema che ha suscitato qualche dissenso. Abbiamo discusso se sia o non sia giusto affermare sul piano teorico, sul piano dei princìpi, che l’Internazionale e i partiti comunisti devono appoggiare il movimento democratico borghese nei paesi arretrati. Per effetto di questa discussione abbiamo deciso all’unanimità di non parlare di movimento “democratico borghese”, ma di movimento rivoluzionario nazionale. Non c’è il minimo dubbio che ogni movimento nazionale non può che essere democratico borghese, perché la massa fondamentale della popolazione dei paesi arretrati è costituita dai contadini, cioè dai rappresentanti dei rapporti borghesi capitalistici. Sarebbe utopistico pensare che i partiti proletari - ammesso che in tali paesi possano sorgere in generale dei partiti proletari - possano applicare una tattica e una linea politica comunista in questi paesi, senza stabilire determinati rapporti con il movimento contadino e senza fornirgli un appoggio effettivo. Ma, a questo proposito, si è obiettato che, se parleremo di movimento democratico borghese, cancelleremo ogni differenza tra il movimento riformistico e il movimento rivoluzionario. E invece proprio negli ultimi tempi, questa differenza si è manifestata con la massima evidenza nei paesi arretrati e coloniali, giacché la borghesia imperialistica cerca con tutti i mezzi di trapiantare il movimento riformistico anche tra i popoli oppressi. Tra la borghesia dei paesi sfruttatori e quella dei paesi coloniali si registra un certo riavvicinamento, sicché molto spesso - e, forse, persino nella maggior parte dei casi - la borghesia dei popoli oppressi, pur sostenendo i movimenti nazionali, lotta in pari tempo d’accordo con la borghesia imperialistica, cioè insieme con essa, contro tutti i movimenti rivoluzionari e contro tutte le classi rivoluzionarie. (…) Il senso di questo emendamento è che noi, in quanto comunisti, dovremo sostenere e sosterremo i movimenti borghesi di liberazione nei paesi coloniali solo quando tali movimenti siano effettivamente rivoluzionari, solo quando i loro rappresentanti non ci impediscano di educare e organizzare in senso rivoluzionario i contadini e le grandi masse degli sfruttati. In assenza di tali condizioni anche nei paesi arretrati i comunisti devono lottare contro la borghesia riformistica, alla quale appartengono anche gli eroi della II Internazionale. I partiti riformistici già esistono nei paesi coloniali, e qualche volta i loro esponenti si chiamano socialdemocratici e socialisti. La differenza che ho qui indicato è stata inserita in tutte le tesi, e io penso che, così facendo, siamo riusciti a formulare molto più esattamente il nostro punto di vista.14
Questo dibattito non cadeva dal cielo. La rivoluzione d’Ottobre non solo era stata seguita da una ondata rivoluzionaria che aveva toccato l’intera Europa, e in particolare Germania, Italia, Ungheria, Austria, ma aveva anche contribuito al gigantesco risveglio delle masse oppresse del mondo coloniale, in particolare in Asia. In Cina il movimento rivoluzionario acquistava un’ampiezza senza precedenti, in India esplodeva il movimento per l’indipendenza dall’Inghilterra, mentre in Medio oriente, dopo il crollo dell’impero turco, la penetrazione delle potenze vincitrici nella guerra, Francia e Gran Bretagna, si scontrava con movimenti insurrezionali e lotte di liberazione, ad esempio in Iraq, dove dopo l’entrata degli inglesi nel 1919 si sviluppò una lotta di liberazione nazionale. I popoli che fino ad allora erano rimasti al margine degli sviluppi mondiali venivano risvegliati e trascinati nella lotta.
Il dibattito del II congresso affrontava precisamente questi nuovi sviluppi, sottolineando con forza come il nuovo contesto creato dalla rivoluzione d’Ottobre e dal risveglio dei popoli coloniali creava inedite possibilità rivoluzionarie su scala mondiale, e che una tattica corretta non poteva essere stabilita solo su base nazionale, con considerazioni legate all’arretratezza di questi paesi. Persino l’assenza di una vera e propria classe operaia in molti paesi arretrati non poteva essere considerata come un ostacolo assoluto alla rivoluzione: solo considerando l’insieme della situazione mondiale si poteva dare una risposta corretta ai problemi nuovi posti nella nuova situazione. Lenin insiste su questo punto, invitando a non legarsi le mani aprioristicamente a formule astratte:
Se il proletariato vittorioso svolgerà tra questi popoli una propaganda metodica e i governi sovietici verranno loro in aiuto con tutti i mezzi di cui dispongono, è sbagliato supporre che la fase capitalistica di sviluppo sia inevitabile per tali popoli. (…)
Non si possono indicare in anticipo i mezzi necessari per conseguire questo risultato. Sarà l’esperienza pratica a suggerirceli. Ma è chiaramente accertato che l’idea dei soviet sta a cuore alle masse lavoratrici anche dei popoli più lontani.15
Stalin e la rivoluzione cinese
La teoria del “socialismo in un solo paese” venne “elaborata” da Stalin, che nell’autunno del 1924 la introdusse di punto in bianco nella sua opera Questioni del leninismo. Il lettore troverà abbondanti riferimenti in questo libro che dimostrano a sufficienza come questa teoria fosse in completa contraddizione con tutta l’elaborazione di Lenin e del partito bolscevico negli anni precedenti.16 Questa teoria staliniana era il pilastro fondamentale della campagna lanciata contro Trotskij e l’opposizione di sinistra dopo la morte di Lenin, campagna che vide la nascente burocrazia sovietica allearsi con i settori borghesi risvegliati dalla Nuova politica economica (Nep) in un fronte volto a schiacciare la classe operaia e i suoi rappresentanti politici.
Trotskij spiegò come questa teoria rappresentava il riflusso della rivoluzione dopo anni di lotte eroiche che avevano sfinito e dissanguato la classe operaia russa e dopo le sconfitte dei movimenti rivoluzionari che avevano scosso l’Europa occidentale alla fine della Prima guerra mondiale. Con la sconfitta della rivoluzione tedesca nel 1923, la rivoluzione russa perdeva l’ultima occasione di allargarsi oltre le proprie frontiere. Si apriva un periodo di arretramenti e prontamente tutti gli strati privilegiati, i burocrati, i funzionari, l’apparato statale e di partito, i nuovi ricchi creati dalla parziale reintroduzione dell’economia di mercato operata nel 1921 con la Nep, tutti i settori privilegiati proclamavano la fine delle “avventure rivoluzionarie”.
Le loro aspirazioni si esprimevano nelle parole d’ordine adottate in quel periodo da Stalin, Bucharin e dagli altri dirigenti, che in polemica con Trotskij e con l’Opposizione di sinistra lanciarono parole d’ordine quali la costruzione del socialismo “a passo di lumaca”, il “socialismo in un paese solo”, il famoso invito “arricchitevi!” rivolto da Bucharin ai contadini ricchi, ecc. La reazione montante schiacciava sotto il suo peso una classe operaia e un partito bolscevico già indeboliti dalle durissime prove subite negli anni della rivoluzione, della guerra civile, dell’intervento straniero e dell’isolamento economico. Stalin emerse come rappresentante, portavoce e guida di questi settori che attraverso una continua pressione, una penetrazione molecolare, permearono via via l’intero apparato statale e il partito bolscevico, mettendo in minoranza e poi colpendo con la repressione, le espulsioni, le calunnie quel settore del partito bolscevico rappresentato da Trotskij e dall’Opposizione di sinistra (formata nel 1923) che lottava per rimanere fedele alla tradizione rivoluzionaria e internazionalista del bolscevismo.
Sul piano internazionale la prima importante prova della direzione staliniana si ebbe con la rivoluzione cinese del 1925-27. Dal 1919 la Cina era in pieno fermento rivoluzionario, ondate di scioperi scuotevano il paese. In particolare si ricordano il grande sciopero dei ferrovieri del 1920 e lo sciopero di 200mila operai e marittimi nella colonia inglese di Hong Kong. L’influenza della rivoluzione d’Ottobre si faceva sentire fortemente, e nel 1920 veniva fondato il Partito comunista cinese.
A partire dal 1920 si forma a Canton il governo rivoluzionario del Kuo Min Tang, il partito nazionalista fondato e diretto da Sun Yat sen, il quale nel 1923 si avvicina ai bolscevichi e all’Unione sovietica. La rivoluzione cinese era in pieno sviluppo, e le possibilità per il partito comunista pressoché illimitate. Tuttavia Stalin e Bucharin imposero al Pcc una linea che ricalcava pari pari la vecchia linea della “dittatura democratica”, ossia quella stessa linea che Lenin nel 1917 aveva dichiarato morta e sepolta.
Con gli stessi argomenti di dieci anni prima, Stalin e i suoi portavoce invitavano a non superare la fase del Kuo Min tang, a non accelerare il “distacco della borghesia” dalla rivoluzione nazionale, e via di seguito. Con tali parole d’ordine imposero al Pcc e al proletariato cinese di accettare di subordinarsi alla guida del Kuo Min Tang, di rinunciare alla prospettiva di instaurare un potere sovietico in Cina, di non “saltare”oltre la fase della rivoluzione democratica. Non fu certo per un caso che tra i “teorici” di questa nuova linea opportunista ci fosse un elemento come Martynov, che era stato nella Russia prerivoluzionaria uno degli esponenti di spicco dei menscevichi e che ora, da fedele staliniano, in fondo non faceva che difendere contro Trotskij la stessa posizione che anni prima aveva difeso contro Lenin.
Abbandonando completamente le posizioni dei primi congressi dell’Internazionale comunista (vedi sopra), Stalin giunse a fare ammettere il Kuo Min Tang nell’Internazionale come sezione simpatizzante, e Chiang Kai shek venne nominato membro onorario del Presidium.
Tutta la politica di Stalin e Bucharin in Cina si basava sull’idea che il Kuo Min Tang, in quanto partito della borghesia nazionale, fosse il candidato naturale a guidare la rivoluzione nazionale e la lotta per l’indipendenza della Cina; la prospettiva di una rottura fra il proletariato cinese e la borghesia veniva considerata in modo puramente astratto, relegata a un lontano futuro. Si dichiarava che l’oppressione esercitata dall’imperialismo e la necessità di liberare la Cina dai residui del suo passato feudale, determinavano l’unità di “tutte le classi” della società cinese dietro al partito “nazionale” del Kuo Min Tang e a Chiang Kai shek. Questa convinzione veniva ribadita più e più volte fino al 1927.
Gli avvenimenti tuttavia dimostrarono come la borghesia cinese e Chiang Kai shek non erano affatto disposti a permettere lo sviluppo del movimento operaio e della rivoluzione agraria. Un primo avvertimento fu il colpo di Stato con il quale, il 20 marzo 1926, Chiang Kai shek si impadroniva del potere a Canton. Nonostante questo avvertimento, gli inviati di Stalin in Cina riconfermavano la loro politica di sostegno a Chiang Kai shek e lo sostenevano nella sua guerra contro i signori della guerra che controllavano il nord del paese. La marcia dell’esercito del Kuo Min Tang fu travolgente, man mano che l’esercito rivoluzionario avanzava, il movimento acquisiva ampiezza sempre maggiore e gli eserciti mercenari dei militaristi si sfaldavano. Il 24 marzo 1927 cadeva Nanchino, e il 27 marzo veniva liberata Shanghai.
Shanghai venne liberata prima ancora che vi giungesse l’esercito del Kuo Min Tang; venne proclamato lo sciopero generale e si formò un comitato rivoluzionario che inquadrava cinquemila operai e studenti in battaglioni di combattenti per la libertà. L’armata del nord abbandonò la città e l’armata di Chiang Kai shek si attestava alle porte della grande città insorta.
Per ventun giorni Shanghai fu sotto il controllo degli insorti, e lo stesso esercito del Kuo Min Tang, a contatto con la classe operaia rischiava di dividersi; interi reparti, compresi i comandanti, avvertivano gli operai del rischio di un colpo di Chiang contro di loro, e si dichiaravano disposti a disubbidire agli ordini del comando.
Per la borghesia cinese e per il Kuo Min Tang questa era una situazione intollerabile, il rischio che la rivoluzione nazionale sfociasse direttamente in una rivoluzione proletaria e nello scatenamento della rivolta contadina nelle campagne era sempre più vicino. Per quanto la borghesia cinese potesse essere ostile all’imperialismo e ai suoi agenti locali, era mille volte più timorosa verso la classe operaia e i contadini poveri.
Sarebbe bastato poco perché Shanghai diventasse la Pietrogrado cinese, il partito comunista avrebbe potuto facilmente conquistare la guida della rivoluzione ponendosi alla testa del movimento, armando gli operai e i contadini e spingendo il movimento sulla via della rivoluzione agraria, della costruzione dei soviet e della guerra rivoluzionaria per l’indipendenza della Cina.
Ma le direttive che provenivano da Mosca erano di tutt’altro genere: preparare per Chiang Kai shek un’accoglienza trionfale, non giungere a uno “scontro prematuro” con il Kuo Min Tang, non impegnare una “battaglia prematura”. Si lasciò così alla reazione il tempo di riorganizzarsi; Chiang allontanò i reparti che simpatizzavano con gli operai di Shanghai, e con le truppe restanti scatenò la repressione contro gli insorti. Nell’aprile del 1927 le sue truppe entrarono a Shanghai non come “esercito rivoluzionario”, ma come esecutori della controrivoluzione borghese. Solo a Shanghai furono oltre 5mila le vittime del terrore scatenato contro operai, studenti, militanti comunisti e intellettuali di sinistra. Dopo questo bagno di sangue, Chiang formò a Nanchino un suo governo contrapposto a quello di Wuhan, dominato dalla “sinistra” del Kuo Min Tang diretta da Wang Ching wei.
Ma la lezione di Shanghai ancora non era stata sufficiente per Stalin, che nei confronti del governo di Wuhan mise nuovamente in atto la stessa politica opportunistica che in precedenza aveva seguito nei confronti di Chiang; nel governo di Wang Ching wei entravano quindi due ministri comunisti, il governo di Wuhan veniva dichiarato essere l’incarnazione della “dittatura democratica del proletariato e dei contadini”. L’esperienza di Wuhan terminò ben presto, quando a sua volta il Kuo Min Tang “di sinistra” scatenò la repressione anticomunista e ruppe con Mosca.
Solo allora, quando ormai le forze migliori erano state dissanguate dalla repressione, Stalin e l’Internazionale comunista dichiararono chiusa la fase della collaborazione con la borghesia e lanciarono la parola d’ordine dell’insurrezione. Ma il momento favorevole era ormai passato, non solo si era permesso alla reazione di massacrare migliaia di rivoluzionari, ma si era seminata fra le masse la confusione e la sfiducia, il Pcc usciva dall’esperienza diviso e minato dalle lotte interne delle varie frazioni che Stalin usava cinicamente per scaricare su questo o quel dirigente le colpe che in realtà erano integralmente sue.
Le insurrezioni scatenate tardivamente a Canton e a Nanchino venivano soffocate in un nuovo bagno di sangue. Nel dicembre del 1927 duemila tra operai, studenti e contadini venivano giustiziati per le strade di Canton per vendetta contro il loro tentativo insurrezionale. I militanti superstiti del partito comunista erano costretti a lasciare le città e a cercare rifugio nell’interno del paese.
Le rivoluzioni del dopoguerra
Se la rivoluzione d’Ottobre aveva costituito una conferma inappellabile della teoria della rivoluzione permanente, la rivoluzione cinese del 1925-27 costituì quindi una seconda conferma in negativo: il ritorno di Stalin e Bucharin alla posizione delle “due tappe”, di fatto alla posizione menscevica, il loro abbandono della reale posizione leninista, li aveva resi responsabili di una sconfitta sanguinosa del proletariato e dei contadini cinesi, e dello stesso partito comunista cinese. Tuttavia, nonostante gli avvenimenti cinesi costituissero una totale smentita delle posizioni di Stalin, per le masse quello che contava era la sconfitta della rivoluzione. L’arretramento dei rapporti di forza, la conseguente disillusione, l’apatia generata dalla sconfitta andavano a tutto vantaggio di Stalin e della burocrazia che consolidarono il loro potere, espulsero l’opposizione di sinistra dal partito comunista ed esiliarono lo stesso Trotskij. Con il consolidarsi del potere di Stalin anche le concezioni “teoriche” del socialismo in un solo paese e della teoria delle “due fasi” vennero canonizzate in tutti i partiti comunisti, con conseguenze disastrose in particolare nel mondo coloniale.
Abbandonata la concezione rivoluzionaria dei primi congressi dell’Internazionale comunista, i partiti comunisti delle colonie divennero un puro e semplice strumento della politica estera sovietica, costretti a continue svolte e controsvolte a seconda di quale fosse l’alleato del momento dell’Urss. Così si consumò la rottura fra il comunismo e i movimenti di liberazione nazionale in numerosi paesi del mondo, con effetti disastrosi. Per esempio, durante la guerra civile spagnola, per non urtare la democratica Francia venne abbandonata la parola d’ordine dell’indipendenza per il Marocco spagnolo, un tradimento della causa nazionale che oltretutto ebbe conseguenze disastrose sulla stessa guerra civile in Spagna, poiché il Marocco spagnolo era la retrovia dei franchisti che poterono così impiegare tranquillamente le truppe marocchine contro i repubblicani senza temere una rivolta indipendentista alle loro spalle.
Allo stesso modo il Partito comunista francese abbandonò completamente la lotta degli algerini per l’indipendenza (giungendo a tacciare gli indipendentisti algerini di essere alleati dei nazisti), mentre in India il partito comunista, che era stato una forza d’avanguardia nel movimento di liberazione nazionale, abbandonò tale posizione nel 1942, sempre in nome dell’alleanza con il “democratico” imperialismo inglese, permettendo così che i nazionalisti borghesi del Congress e della Lega musulmana egemonizzassero il movimento per l’indipendenza indiana; tale sviluppo fu alla base della spartizione fra India e Pakistan, che causò oltre un milione di morti al momento della divisione, quattro guerre sanguinose e una situazione di conflitto che dura tutt’oggi. Questi esempi si possono moltiplicare a piacere.
Le situazioni prerivoluzionarie createsi negli anni ’30 in particolare in Spagna e Francia costituirono l’ultima propaggine del processo rivoluzionario aperto con la Prima guerra mondiale e la rivoluzione d’Ottobre. La sconfitta della rivoluzione in Francia e soprattutto in Spagna rese inevitabile lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Tuttavia, a dispetto di tutte le sconfitte e gli arretramenti, le contraddizioni accumulate dal capitalismo mondiale non erano affatto risolte. La guerra fu l'espressione distruttiva di tali contraddizioni, e fu la guerra stessa ad avere le conseguenze più rivoluzionarie. Con la fine del conflitto emerse sempre più chiaramente un drastico cambiamento dei rapporti di forza, una ritirata della reazione e l’apertura di una nuova fase di rivoluzione su scala mondiale, se possibile ancora più ampia di quella che aveva seguito la Prima guerra mondiale.
In Europa la sconfitta del fascismo e del nazismo significava la distruzione delle basi di massa della reazione; in Grecia, Jugoslavia, Italia, Francia, i movimenti partigiani e la rinascita del movimento operaio, in un quadro di disgregazione profonda dello Stato borghese, mettevano di nuovo all’ordine del giorno la possibilità della rottura rivoluzionaria, mentre l’Armata Rossa occupava l’intera Europa orientale.
In Asia la crisi dei vecchi imperi coloniali (inglese, olandese, francese) apriva la strada ai movimenti di liberazione nazionale, mentre in Cina la guerriglia contadina diretta da Mao e dal Partito comunista cinese usciva grandemente rafforzata dal conflitto cino-giapponese e si avviava alla conquista del potere.
L’aspetto più rilevante era la manifesta impotenza delle potenze imperialiste a contenere il processo rivoluzionario con la forza delle armi; gli inglesi furono costretti ad abbandonare l’India senza combattere, gli americani, nonostante il loro sostegno al regime di Chiang Kai shek, non poterono impedire l’avanzata dell’Esercito popolare di Mao. Laddove le potenze imperialiste tentarono di difendere i loro imperi con le armi, come fece la Francia in Indocina e in Algeria, andarono incontro a sconfitte umilianti.
Nella stessa Europa occidentale, la sconfitta di Mussolini e Hitler distruggeva le basi di massa della reazione. La borghesia poté mantenersi al potere non tanto con la forza delle armi, ma grazie al sostegno politico che le offrirono i partiti socialisti e comunisti, particolarmente in Italia e in Francia. I governi di unità nazionale, ai quali questi partiti parteciparono, furono l’argine che impedì che la spinta delle masse andasse oltre i limiti di un ritorno alla democrazia parlamentare, mettendo in discussione le basi sociali del capitalismo. Verso il 1947-48 i partiti comunisti vennero esclusi dai governi in Francia e Italia, la delusione causata dal tradimento delle grandi speranze che avevano seguito la fine della guerra allontanò una parte della base di massa dei partiti operai, certi settori caddero nell’apatia. Il capitalismo americano, a differenza di quanto aveva fatto dopo la Prima guerra mondiale, intervenne massicciamente in Europa con gli investimenti del piano Marshall, che erano chiaramente diretti a impedire che l’Europa occidentale precipitasse in una nuova crisi rivoluzionaria.
Questa combinazione di fattori creò una situazione nuova, che determinò il percorso della rivoluzione mondiale per diversi decenni. In un certo senso essa deviò dal suo corso e dalle sue forme “classiche”. In numerosi paesi il capitalismo venne rovesciato, tuttavia in nessuno di questi la rivoluzione si sviluppò secondo i classici precedenti della Comune di Parigi, della rivoluzione d’Ottobre e delle rivoluzioni operaie che erano seguite ad essa nel primo dopoguerra.
Nei paesi occupati durante l’avanzata sovietica verso la Germania, in una prima fase si crearono dei governi di coalizione che includevano anche partiti borghesi e piccolo-borghesi; tuttavia il potere reale rimaneva saldamente in mano a Mosca, e nel giro di tre anni nell’intera Europa orientale la borghesia si trovava espropriata e privata del potere. Una “rivoluzione dall’alto”, compiuta con l’appoggio più o meno attivo della classe operaia, ma senza che mai questa si trovasse alla direzione del processo.
In molte altre parti del mondo, le rivoluzioni del dopoguerra videro affermarsi in particolare il ruolo delle guerriglie contadine. Così fu in Jugoslavia, dove la guerra di liberazione nazionale contro i nazifascisti assunse il carattere di una guerra contadina che, nel completo tracollo del vecchio Stato borghese e della borghesia “nazionale”, si spinse rapidamente sul terreno della rivoluzione sociale.
Ancora più chiaro il caso della Cina. La sconfitta del 1927 aveva costretto i quadri superstiti del Pcc a trovare rifugio nelle campagne, e il partito divenne di fatto un partito contadino, che per estendere e consolidare il proprio potere adottò sotto la spinta delle circostanze la politica delle “zone rosse”, liberate dal controllo di uno Stato centrale ormai putrescente (e ulteriormente indebolito dall’aggressione dell’imperialismo giapponese), avviando una guerriglia che nel 1949 avrebbe portato Mao e il suo esercito a conquistare il potere in tutto il paese. In altri paesi come il Vietnam o Cuba il modello cinese si sarebbe poi ripetuto vittoriosamente.
Queste rivoluzioni erano una diretta conseguenza della crisi di dominazione mondiale dell’imperialismo. Particolarmente evidente il caso della Cina, dove per un secolo gli occidentali avevano fatto il bello e il cattivo tempo, calpestando con la massima brutalità l’indipendenza e i diritti nazionali del popolo cinese, e dove ora si trovavano del tutto incapaci di resistere all’offensiva della guerriglia e dove il loro alleato Chiang Kai shek, nonostante i lauti aiuti da parte degli Usa, era costretto a rifugiarsi nell’isola di Taiwan.
Se da un lato queste rivoluzioni costituirono delle chiare sconfitte dell’imperialismo, dall’altro tuttavia il corso degli eventi gettò non poca confusione nel movimento trotskista. Non è questo il luogo per riepilogare gli innumerevoli dibattiti che divisero il trotskismo in quegli anni; basti dire che le posizioni si frantumarono su un ventaglio amplissimo, che andava da chi puramente e semplicemente negava la natura rivoluzionaria di quegli avvenimenti (e quindi definiva questi Stati come paesi capitalisti, o a “capitalismo di Stato”), fino a chi credeva di vedere in queste rivoluzioni la replica dell’Ottobre del 1917 e in Mao o Tito (e più tardi in Castro) il nuovo Lenin o il nuovo Trotskij che avrebbe risollevato le sorti del marxismo nel mondo.
Ulteriore confusione si aggiunse per il fatto che la gran parte di queste rivoluzioni si svilupparono contro la volontà di Mosca. Né Stalin, né i suoi successori videro mai di buon occhio la possibilità che si creassero poli di attrazione per il movimento comunista al di fuori del loro controllo. La politica di Mosca fu, sistematicamente, quella di scoraggiare e impedire queste rivoluzioni, e si adattarono ad esse solo di fronte al fatto compiuto.
Date queste premesse, molti di questi regimi entrarono, presto o tardi, in conflitto con quello sovietico. La logica nazionalista propria di ogni burocrazia impediva una reale collaborazione a lungo termine sul terreno economico, militare e diplomatico. Si cominciò quindi nel 1948 con lo scontro Stalin-Tito, per proseguire negli anni ’50 e ’60 con la divisione Cina-Urss, dove si giunse alle scaramucce armate sulla frontiera.
In ciascuno di questi scontri, la parte antagonista a Mosca si trovò più di una volta ad agitare scampoli di argomenti che erano stati propri di Trotskij e dell’opposizione di sinistra; così Tito, quando denunciava il nazionalismo, l’arroganza e i privilegi della burocrazia moscovita, o i cinesi quando attaccavano come opportuniste le teorie sulla coesistenza pacifica, accusandole di comprimere le possibilità rivoluzionarie dei popoli oppressi all’interno delle necessità diplomatiche di Mosca.
Brandelli, come si vede, di argomenti che trenta o quarant’anni prima erano stati di Trotskij. Ma non per questo Mao o Tito diventavano più rivoluzionari di Stalin o di Krusciov, e gli avvenimenti successivi lo avrebbero dimostrato ampiamente. All’epoca, tuttavia, queste divisioni ebbero un riflesso sia con scissioni in molti partiti comunisti, dove si formarono correnti maoiste o titoiste, sia con un’ulteriore confusione all’interno del movimento trotskista, che in moltissimi casi si piegò alla pressione del maoismo o delle teorie del foco guerrillero diffuse dopo la rivoluzione cubana.
La rivoluzione cinese del 1949
Alla radice di tale confusione era la mancanza di una chiara concezione della natura di queste rivoluzioni e dell’epoca nella quale esse si inserivano. Ci pare indispensabile qui fare riferimento agli scritti del compagno Ted Grant, che negli anni del dopoguerra sviluppò un’applicazione efficace della teoria della rivoluzione permanente proprio a quegli avvenimenti.
Partendo dallo scontro fra Urss e Jugoslavia, Ted Grant spiegò come non si trattasse di uno scontro fra due classi diverse, e neppure di uno scontro fra proletariato internazionalista (ipoteticamente impersonato da Tito) e burocrazia nazionalista (Stalin). Si trattava di due ali della burocrazia che si contrapponevano sulla base dei loro interessi nazionali divergenti. Analogamente, all’interno della stessa Urss la burocrazia russa era entrata in conflitto con quella di altre nazionalità, ad esempio quando negli anni ’30 aveva schiacciato l’intero quadro del partito comunista in Ucraina. La differenza con quell’esempio, o con i conflitti che si generavano fra l’Urss e le “repubbliche popolari” dell’Europa orientale, era che lo Stato jugoslavo, sorto da un processo rivoluzionario di massa, si reggeva sulle proprie basi, a differenza di altri regimi, per i quali il sostegno fondamentale erano le truppe dell’Armata rossa. Questo permetteva a Tito di resistere alle pretese di Stalin, e in questo conflitto era giusto sostenere i diritti nazionali del popolo jugoslavo, ma senza per questo dare a Tito un appoggio acritico e vedere in lui e nel suo partito qualcosa di qualitativamente diverso da quanto c’era in Urss.
Tutti questi regimi, infatti, nascevano a immagine e somiglianza dell’Urss staliniana; nonostante l’enorme appoggio popolare, in particolare nella prima fase, per Tito o per Mao, non esistette mai, in alcun momento, una situazione nella quale le masse, gli operai e i contadini, esercitassero realmente il potere in prima persona; mai si crearono soviet o altre strutture di potere operaio, e tutto il potere rimase sempre concentrato nelle mani dei gruppi dirigenti dei partiti comunisti e della guerriglia, diventata Stato.
Sulla base di tale analisi, gli scritti di Ted Grant riprendono e applicano alle condizioni del dopoguerra il concetto elaborato da Trotskij di bonapartismo proletario, utilizzato per indicare il regime staliniano in Urss e ora utilizzabile, pur nelle diverse varianti e specificità, all’insieme di queste rivoluzioni.
Grant spiegò allora come tali rivoluzioni nascessero dalle contraddizioni insolubili che il capitalismo scaricava sulle spalle dei popoli oppressi, contraddizioni che non permettevano alcun tipo di sviluppo autonomo “nazionale”; dall’altra parte, lo stallo della rivoluzione nei paesi capitalisti avanzati e il ruolo mondiale assunto dallo stalinismo dopo la seconda guerra mondiale, creavano condizioni peculiari nelle quali il proletariato risultava paralizzato e incapace di assumersi in prima persona, nella forma “classica” che si era vista nella rivoluzione d’Ottobre, la guida della rivoluzione; in tale contesto, il vuoto veniva riempito dalle guerriglie o anche, come avvenne successivamente in diversi paesi, da settori della casta degli ufficiali, i quali nella disperata ricerca di una soluzione ai problemi nazionali irrisolti si volgevano al modello di Mosca o Pechino: tale fu il caso della Siria, dell’Etiopia, dell’Afghanistan, dello Yemen, ecc.
Nel 1948, ancora prima della vittoria di Mao, Ted Grant spiega le basi della rivoluzione cinese e dei successivi sviluppi. La vittoria di Mao non sarà una ripetizione dell’Ottobre, il regime che nasce segue le tracce dell’Urss stalinizzata. Tuttavia, a causa della natura burocratica di entrambi i regimi, è inevitabile uno scontro tra i due e l’Urss avrà di fronte “un nuovo Tito, e ben più formidabile”. Qui il pronostico teorico anticipa in modo impressionante il corso degli avvenimenti di circa un decennio (risale infatti al 1958 la rottura aperta fra Cina e Urss, sancita dal ritiro dei tecnici sovietici).
Nel gennaio 1949, cioè nove mesi prima che Mao proclamasse la Repubblica popolare cinese, Ted Grant pubblicò un articolo intitolato The Chinese Revolution nel quale tracciava le origini e le caratteristiche peculiari della rivoluzione cinese.
La guerriglia ha fatto emergere dirigenti dotati di un notevole genio militare. (…) Il segreto dei loro successi era nella divisione delle terre fra i contadini di questa piccola area abitata, secondo alcune stime, da circa 10 milioni di persone.
Nel periodo seguente, il regime di Chiang accumulò un peso sempre maggiore sulle spalle degli operai e dei contadini. In alcune aree le tasse dei contadini venivano raccolte da funzionari locali corrotti con un anticipo di ottanta anni. (…) Il regime di Chiang si ridusse alla sola corruzione e al terrore poliziesco. Nel giro di due decenni divenne così completamente degenerato da cima a fondo da perdere gran parte del proprio appoggio, anche fra le classi medie. (…)
Tuttavia, la ragione principale delle vittorie degli stalinisti cinesi è stata prontamente indicata dallo stesso Mao Tse tung: le questioni sociali. Come nella rivoluzione russa, la parola d’ordine “terra ai contadini” ha significato la campana a morto per i latifondisti feudali e il loro regime corrotto. Gli stalinisti cinesi hanno in larga misura portato a compimento la rivoluzione agraria. Questa è la differenza importante fra la lotta del 1927 ed oggi. È questa la causa della dissoluzione delle armate che Chiang ha tentato di utilizzare per schiacciare la ribellione agraria. Gli eserciti di Chiang sono composti da contadini - per esser precisi, dai contadini più poveri: quelli che non hanno abbastanza soldi per scampare al servizio di leva corrompendo gli ufficiali. (…)
Naturalmente, essi disertano con le armi anche a intere divisioni quando si trovano di fronte al programma agrario degli stalinisti. (…)
Uno dei fattori rilevanti della situazione in Cina è la relativa passività della classe operaia. (…) Tuttavia è chiaro che man mano che gli stalinisti avanzano verso le grandi città, gli operai, data la mancanza di un’alternativa di massa, non potranno che raccogliersi attorno alla loro bandiera.
Ogni operaio socialista indubbiamente applaudirà con entusiasmo la distruzione del feudalesimo e della grande proprietà capitalista in questa importante parte dell’Asia, anche se viene portata avanti sotto la direzione dello stalinismo. Le sue implicazioni a lungo termine sono altrettanto importanti di quelle della rivoluzione d’Ottobre. (…)
[Tuttavia] nel sostenere la distruzione del feudalesimo in Cina, si deve evidenziare come a causa del ruolo dirigente degli stalinisti, il risultato sarà una orribile caricatura della concezione marxista della rivoluzione. Quello che si svilupperà non sarà una vera democrazia, ma un regime totalitario altrettanto brutale di quello di Chiang Kai shek. Come per i regimi dell’Europa orientale, Mao guarderà alla Russia come proprio modello. Indubbiamente si otterranno giganteschi progressi economici. Ma le masse, tanto operaie che contadine, si ritroveranno asservite dalla burocrazia.
Gli stalinisti stanno incorporando nel loro regime ex militaristi feudali, elementi capitalisti e il funzionariato delle città, che occuperanno posizioni di potere e di privilegio. (…)
Sembra probabile che gli elementi capitalisti verranno sconfitti a causa della tendenza storica del capitalismo alla decadenza su scala mondiale. L’impotenza dell’imperialismo mondiale è dimostrata dal fatto che mentre nel 1925-27 intervennero direttamente contro la rivoluzione cinese, oggi devono guardare sconsolati il crollo del regime di Chiang.
È del tutto probabile che Stalin si troverà con un nuovo Tito fra le mani. I commentatori borghesi già speculano su questo, anche se ne trarranno un conforto ben limitato. Mao avrà una potente base d’appoggio in Cina, con i suoi 450-500 milioni di abitanti, le sue risorse potenziali e l’indubbio appoggio di massa di cui il regime godrà nelle fasi iniziali”.17
L’analisi della rivoluzione cinese veniva approfondita pochi mesi dopo in un testo intitolato Risposta a David James.
Paradossalmente, questo movimento contadino è stato un derivato della sconfitta della rivoluzione del 1925-27. Con la sconfitta del proletariato, gli stalinisti cinesi trasferirono la loro base dal proletariato ai contadini. Si staccarono dalle città per guidare una guerra contadina. L’intera loro base sociale, la psicologia della direzione, che rimase nelle montagne e nelle aree rurali per oltre vent’anni, si distaccò dalla classe operaia e dal suo punto di vista. La psicologia di questo gruppo veniva necessariamente determinata dalle loro condizioni di vita. Il nucleo originario che formò questa direzione e il suo apparato era composto da una piccola frazione di ex operai combattivi, banditi, ex contadini, avventurieri e intellettuali. In questo senso era il tipico raggruppamento bonapartista, che si fuse in un esercito. (…)
La rivoluzione in Cina nasce con una deformazione bonapartista, non perché questo sia inerente alle necessità della rivoluzione stessa, ma, al contrario, a causa delle condizioni sociali specifiche, nazionali e internazionali, delle quali abbiamo già trattato.
Ci sono state molte guerre contadine in Cina, e in condizioni normali quello che sarebbe successo sarebbe stato che la direzione, entrando nelle città, si sarebbe fusa con la borghesia avviando un classico sviluppo capitalista. Il marxismo insegna come il movimento contadino debba trovare una direzione nelle città, che sia la borghesia o il proletariato. Laddove questo ruolo viene assunto dalla borghesia, ovviamente abbiamo uno sviluppo capitalista. Dove è il proletariato a prendere la guida, allora abbiamo una rivoluzione socialista. Qui vediamo una variante peculiare del secondo caso, nella quale i contadini hanno trovato una direzione centralizzata nel partito stalinista, il quale ha le sue radici a Mosca. Basandosi sui contadini, esso entra nelle città non con gli scopi e la concezione di un vero partito comunista, ma con l’obiettivo di garantire il proprio potere manovrando tra le classi. Lo fa trasferendo la propria base sociale sul proletariato, ma non come diretto rappresentante del proletariato come lo avrebbe fatto un partito bolscevico, ma con un metodo bonapartista. (…)
Lo stalinismo è una forma di bonapartismo che si basa sul proletariato e sulle istituzioni della proprietà statale (…). Quindi la coalizione che gli stalinisti stanno proponendo in Cina non significherà la vittoria e neppure la sopravvivenza della borghesia. Sarà utilizzata per ottenere un margine di respiro nel quale organizzare una macchina statale stalinista, bonapartista, sulle linee di Mosca. In nessun modo, quindi, si tratta di uno stato o di un semi-stato sulle linee ipotizzate dai marxisti, cioè una libera organizzazione delle masse in armi, ma una macchina statale separata e distinta dalle masse, completamente indipendente e torreggiante sopra di esse come strumento di oppressione. (…)
Il fatto che sulle montagne e nelle campagne i generali e gli ufficiali conducessero un’esistenza semplice e austera non è rilevante. Anche Napoleone passò per una fase simile negli eserciti della Francia rivoluzionaria. Ma una volta al potere, la casta si circonda di pompa e privilegi, fino alle “uniformi sgargianti”.
L’articolo si spinge oltre, prevedendo sia il conflitto Urss-Cina (che si sviluppò dalla fine degli anni ’50 in poi), sia il fatto che in tale conflitto si sarebbe inserita anche la diplomazia occidentale (il che avvenne a partire dagli anni ’70 con il riavvicinamento Usa-Cina).
Come avvenne con Tito, nonostante il ruolo dell’Armata rossa [sovietica - NdT] in Manciuria, lo stalinismo cinese sta sviluppando la propria base indipendente. A causa delle aspirazioni nazionali delle masse cinesi, la lotta tradizionalmente condotta contro gli occupanti stranieri, le necessità economiche del paese e soprattutto la base poderosa per un apparato statale indipendente, il pericolo di un nuovo e formidabile Tito in Cina è un fattore che causa preoccupazione a Mosca.
Si creeranno
le basi per uno scontro con il Cremlino, di grande importanza e magnitudine. Mao, con un forte apparato statale indipendente, con la possibilità di manovrare con gli imperialisti occidentali (i quali tenteranno di negoziare con la Cina sia per fini commerciali, sia per cercare di mettere un cuneo fra Mosca e Pechino) e con l’appoggio delle masse cinesi in quanto leader vittorioso contro il Kuo Min Tang, avrà forti punti d’appoggio contro Mosca.
(…) Pertanto il ruolo dei trotskisti cinesi è chiaro. Sostengono entusiasticamente le misure progressiste introdotte, così come le sostenemmo in Finlandia e in Polonia, ma al tempo stesso spiegano la necessità dei soviet, del controllo democratico da parte delle masse, ecc. e si oppongono a qualsiasi misura reazionaria che vada contro le masse e negli interessi della burocrazia.18
Questi testi aiutano a comprendere come le rivoluzioni del dopoguerra, pur nella peculiarità che assunsero, non solo non contraddicevano la teoria della rivoluzione permanente, ma anzi solo su quella base potevano essere comprese. Era precisamente l’assoluta inconsistenza delle borghesie “nazionali” in quei paesi a creare le premesse di queste rivoluzioni, così come era evidente che la rottura con il capitalismo e l’esproprio dei mezzi di produzione che questi governi si trovavano a condurre dimostravano, sia pure in una forma particolarmente distorta e peculiare, come il tentativo di affrontare i problemi lasciati irrisolti dallo sviluppo (o meglio dal sottosviluppo) capitalistico conduceva rapidamente sulla via della transizione socialista.
Ironicamente, fu proprio per questa brillante difesa e applicazione della teoria di Trotskij che Ted Grant e i suoi sostenitori vennero espulsi dalla IV Internazionale nel 1965, dopo aver presentato uno dei testi chiave di questa polemica, intitolato The Colonial Revolution and the Sino-Soviet split (La rivoluzione coloniale e la rottura cino-sovietica), che approfondiva e generalizzava queste analisi applicandole agli avvenimenti successivi, come la rivoluzione cubana, lo sviluppo dei movimenti di liberazione nel mondo coloniale.
Questi scritti, che ci ripromettiamo di pubblicare prossimamente in italiano, costituiscono lo sviluppo più coerente della rivoluzione permanente nel periodo del dopoguerra, e andrebbero conosciuti e studiati in congiunzione col presente libro.
La sinistra e soprattutto l’estrema sinistra degli anni ’60 e ’70 pagò infatti a caro prezzo la sua incapacità di comprendere la natura e i limiti delle rivoluzioni citate; se la rivoluzione cinese, cubana o la guerra vittoriosa dei Vietcong contro l’imperialismo americano furono indubbiamente un grande propulsore dei movimenti rivoluzionari di quegli anni, in particolare fra i giovani, è altrettanto vero che il mito del maoismo, del guevarismo, della guerriglia costituì un elemento di grave confusione, che in numerosi paesi gettò allo sbaraglio migliaia di giovani rivoluzionari, allontanandoli dal movimento operaio organizzato e istradandoli in un vicolo cieco di guerriglia rurale e urbana, che in paesi come l’Argentina, l’Uruguay e non solo, significò lo sterminio di una intera generazione di militanti.
Alla fine degli anni ’70 e soprattutto con gli anni ’80, l’arretramento ideologico e politico dello stalinismo e del maoismo nelle loro varianti, furono una delle principali cause della dispersione di una intera generazione di onesti militanti rivoluzionari.
La rivoluzione permanente oggi
In altre aree del mondo i movimenti di liberazione nazionale non giunsero alla rottura col capitalismo e all’esproprio della classe dominante. L’Algeria, l’India e decine e decine di altri paesi videro lo sforzo eroico di decine di milioni di uomini che si sollevarono per scrollarsi di dosso il giogo secolare del colonialismo; con la fine degli anni ’60 la decolonizzazione dell’Africa e dell’Asia era praticamente completata, al termine di quello che fu indubbiamente uno dei più vasti movimenti di popoli di tutta la storia umana.
Ma la conquista dell’indipendenza ha significato ben poco per la stragrande maggioranza di questi paesi. Fatte salve alcune ben precise eccezioni, dove soprattutto per motivi politici l’imperialismo ha permesso un relativo sviluppo economico e sociale (ad esempio in Corea del Sud), la stragrande maggioranza del mondo coloniale vive tutt’oggi nella miseria e nell’oppressione.
La prova più lampante di ciò la vediamo precisamente nella questione basilare dell’indipendenza nazionale. A dispetto della creazione di Stati indipendenti, tutti i paesi ex coloniali sono sottoposti a trattati e obblighi che ben poco si differenziano da quelli delle passate epoche coloniali: i loro territori sono in misura più o meno grande occupati da truppe straniere, in gran parte Usa, ma non solo (si pensi che solo gli Usa mantengono qualcosa come 800 insediamenti militari in 140 diversi paesi!); il loro sistema economico è più che mai dominato dal capitale straniero che anzi, con la distruzione delle economie tradizionali e la diffusione del “libero mercato”, ne ha penetrato tutti i pori in misura assai maggiore che in passato; le loro risorse naturali, dal petrolio alle ricchezze minerarie, dalle foreste all’acqua, sono più che mai nelle grinfie di un pugno di multinazionali i cui quartier generali sono rigorosamente tutti insediati in Usa, in Europa o in Giappone (le eccezioni si contano sulle dita di una mano); il meccanismo del debito estero, esploso in particolare negli ultimi 25 anni, costituisce una taglia maggiore di quanto mai estratto dalla fiscalità dei vecchi imperi; grazie a tutti questi elementi, le istituzioni di questi Stati sono tutte a sovranità strettamente limitata.
Non solo: i problemi storici lasciati irrisolti continuano a marcire; la questione nazionale nei suoi vari aspetti continua a tormentare gran parte del mondo coloniale; il subcontinente indiano, cinicamente suddiviso dall’imperialismo inglese che al momento di abbandonare il controllo diretto gettò i semi della divisione e dei conflitti, marcisce nel conflitto indo-pakistano (oggi potenzialmente conflitto nucleare), che solo per il controllo del Kashmir ha visto combattere quattro guerre e 80mila morti nello stillicidio di conflitti che continuano anche nei periodi di “pace”. Al tempo stesso, la questione dei diritti nazionali all’interno dei singoli Stati del subcontinente rimane irrisolta, con il rischio di nuove sanguinose deflagrazioni dell’odio etnico e religioso.
La questione agraria, altra piaga storica che affligge tanti paesi coloniali, continua a restare irrisolta in molti di essi. Né lo sviluppo dell’industria o la migrazione nelle città significa che i problemi delle campagne diventino per questo meno brucianti. Si pensi al Brasile, dove quattro milioni di famiglie lottano per un pezzo di terra, o allo Zimbabwe, dove a trent’anni dall’indipendenza il regime di Mugabe si trova ad affrontare l’opposizione di tutti i governi imperialisti proprio per aver “osato” mettere le mani sulla questione della riforma agraria.
Quello che più chiaramente emerge nell’epoca della decolonizzazione è la completa incapacità della borghesia di questi paesi e dei suoi rappresentanti politici di emanciparsi realmente dalla tutela dell’imperialismo. Anzi, quegli elementi più progressisti che esistevano nei programmi dei vecchi partiti nazionali democratici sono stati senza tanti complimenti buttati nella spazzatura. Si pensi a concezioni che, sia pure in forma confusa, esprimevano un contenuto democratico e progressista come il concetto dell’unità araba agitato da Nasser negli anni ’50 e ’60, o il sogno bolivariano dell’unità dell’America latina, o ancora all’eredità di Lazaro Cardenas, che negli anni ’30 da presidente del Messico sfidò l’imperialismo statunitense nazionalizzando il petrolio messicano.
In questa situazione, quali sono le risposte che si avanzano? E cosa ha da dirci, che validità mantiene la teoria della rivoluzione permanente?
Sappiamo già qual è la risposta del pensiero liberale borghese di fronte alle crescenti contraddizioni su scala mondiale. Esso vede nei paesi coloniali semplicemente dei paesi “in via di sviluppo”, i quali, se aiutati con le giuste politiche di libero commercio, prima o poi giungeranno anch’essi al regno del benessere. Il riformismo socialdemocratico segue, su questa come su tutte le altre questioni, passo per passo il pensiero borghese.
La “scienza” e la politica borghese hanno una risposta semplice alle questioni poste dai crescenti squilibri internazionali. La concezione borghese si riduce a catalogare i paesi suddividendoli fra “paesi sviluppati” e paesi “in via di sviluppo”, come se ogni area del mondo non dovesse fare altro che salire disciplinatamente una scala che immancabilmente conduce verso l’alto, verso la ricchezza e la prosperità.
Certo, questo quadro idilliaco, questa “scienza” così ipocrita si scontra, con alcuni ostacoli inattesi. Per esempio, i paesi “in via di sviluppo” invece di svilupparsi precipitano nel baratro del debito e della povertà, e in tale spirale vengono risucchiati anche paesi in passato prosperi, come testimonia il caso argentino. Ma alla sapienza ufficiale questo non importa molto: si tratta solo di “spiegare” ai governi di questi paesi quanto sia vantaggioso aderire ai principi del libero commercio, aprirsi alla penetrazione dei paesi imperialisti, abbandonare le vecchie e sorpassate utopie, e allora tutto andrà per il meglio. E chi proprio non vuole capire, prenda buona nota delle guerre che a intervalli regolari l’imperialismo, a partire da quello Usa, scatena contro questo o quello “Stato canaglia”!
I riformisti non fanno che riecheggiare le stesse posizioni, limitandosi ad aggiungere un po’ di confusione e una ulteriore dose di ipocrisia: globalizzazione sì, basta che sia “governata”… Guerre sì, ma, per carità, senza “unilateralismi”, solo “umanitarie” e sotto l’egida dell’Onu…
Tuttavia, anche se la leggenda dello “sviluppo” capitalistico dei paesi poveri si è dimostrata una colossale menzogna, è certo che il mondo coloniale non è più quello di quaranta o sessant’anni fa. Se allora la divisione del lavoro vedeva le colonie soprattutto nel ruolo di fornitrici di materie prime e prodotti agricoli che scambiavano, in termini sfavorevoli, con prodotti industriali, oggi è indiscutibile che lo sviluppo industriale ha attraversato molti di questi paesi. Alcuni dati aiutano a vedere il processo.
Nel 1965 il solo 15 per cento delle esportazioni dei paesi “in via di sviluppo” era costituito da manufatti; la percentuale era salita al 45 per cento nel 1985 e all’80 per cento nel 1998. Paesi come il Brasile, il Messico, gran parte del sudest asiatico, hanno visto sorgere come funghi grandi settori industriali e una consistente proletarizzazione.
Questo sviluppo, tuttavia, non solo non attenua ma anzi esacerba le classiche contraddizioni di queste società. La crescita di un forte proletariato industriale non rafforza la borghesia nazionale, ma al contrario la indebolisce e la getta ancora di più fra le braccia dell’imperialismo; al tempo stesso, data la posizione di questi paesi nel mercato mondiale e nella divisione mondiale del lavoro, tale industrializzazione lascia irrisolti i vecchi problemi, mentre di nuovi e più esplosivi se ne creano, poiché lo sviluppo economico ammassa milioni di persone nelle megalopoli, distrugge il precedente equilibrio economico e sociale delle campagne, mescola nazionalità diverse, in definitiva mette in subbuglio l’intera società.
Basta osservare i rappresentanti politici di questi paesi presuntamente “in via di sviluppo” per comprendere la reale natura dello sviluppo capitalistico che negli ultimi decenni li ha toccati. Tutti fanno a gara nello svendere i propri paesi a prezzi di saldo, tutti genuflessi ai diktat del libero mercato, delle privatizzazioni e della “democrazia” imperialista, tutti ansiosi di conquistarsi la palma di scolari modello della finanza mondiale.
Questi uomini politici, che in questi anni si chiamano (o si sono chiamati) Menem (Argentina), Cardoso (Brasile), Toledo, Vajpayee (India), Musharraf (Pakistan), Megawati Sukarnoputri (Indonesia), Estrada (Filippine) e via di seguito, sono lo specchio fedele dell’incapacità delle rispettive borghesie di svolgere un qualsiasi ruolo nel progresso dei loro paesi… Dittatori o governanti parlamentari, militari o civili, di destra o di sinistra, buffoni da circo, da commedia dell’arte o attori da telenovela, tutti fanno una sola, stessa e identica politica: quella dettata dal padrone di Washington.
E in questo contesto, più che mai vengono chiusi gli spazi per qualsiasi tentativo, fosse anche il più timido, di suscitare uno sviluppo capitalistico autonomo, di resuscitare il programma della democrazia nazionale borghese in questi paesi.
La rivoluzione venezuelana: un banco di prova decisivo
L’esempio del processo rivoluzionario in Venezuela ci pare decisivo per confrontare la concezione teorica con il processo reale.
Il governo di Chàvez, eletto alla presidenza nel 1998 e il cui programma ha raccolto il sostegno popolare in sette successive consultazioni, si è caratterizzato per il più classico programma democratico nazionale: parziale riforma agraria, indipendenza del paese, lotta agli aspetti più tragici del sottosviluppo (analfabetismo di massa, mortalità infantile, ecc.), un maggior controllo sulle risorse nazionali: petrolio, pesca, ecc., da utilizzare per lo sviluppo interno.
Una sorta di programma “giacobino”, ma in ritardo di duecento anni.
Questo ritardo storico fa sì che Chàvez nell’applicare questo programma debba lottare non contro un feudalesimo in declino, come fu appunto nelle rivoluzioni borghesi del passato, ma contro l’imperialismo internazionale. In difesa del programma “nazionale” e in definitiva borghese - nel senso che è interno ai limiti del capitalismo - di Chàvez non si schiera neppure un settore della borghesia venezuelana. Essa è compattamente, ferocemente e unanimemente contro il governo ed è disposta a qualsiasi bassezza pur di vedere gli Usa intervenire e riprendere il controllo del paese. La cospirazione golpista ripercorre fedelmente i passi delle campagne che prepararono il terreno per il golpe contro Allende del 1973 o del golpe argentino del 1976. Di converso, a favore del programma “nazionale” e in definitiva borghese di Chàvez si schiera la grande maggioranza del proletariato, dei contadini, dei settori popolari. L’esercito è diviso, ma è certo che la maggioranza della truppa e anche dei quadri inferiori simpatizza per la “rivoluzione bolivariana”.
Questo schieramento di forze è stato confermato in occasione di due scontri decisivi. Il primo è stato il golpe dell’aprile del 2002, quando sotto la guida della Confindustria venezuelana e con il sostegno e la direzione dell’ambasciata nordamericana, per 48 ore i golpisti riuscirono a far dimettere Chàvez, tenendolo imprigionato. Fu la risposta spontanea delle masse che calarono dai quartieri popolari di Caracas per affrontare la giunta golpista a ribaltare la situazione spingendo anche un settore dell’esercito ostile ai golpisti a schierarsi apertamente, facendo fallire la cospirazione.
Il secondo conflitto fu quello del dicembre 2002-gennaio 2003, quando una ben concertata serrata padronale, che aveva il suo centro nei vertici dell’azienda petrolifera Pdvsa (in teoria statale, in realtà fortemente condizionata dagli interessi petroliferi Usa) tentava di gettare il paese nel caos economico, con la speranza di scatenare una guerra civile; e anche in questo caso era soprattutto la reazione spontanea di migliaia e migliaia di lavoratori, in particolare del petrolio, con l’appoggio dell’esercito e della guardia nazionale, che rimetteva in moto l’economia, superava il sabotaggio e sconfiggeva nuovamente la cospirazione reazionaria.19
Questi avvenimenti hanno dato una dimostrazione sul campo di come non esista alcuno spazio intermedio fra la reazione e le masse sollevate dalla “rivoluzione bolivariana”. In altre parole, non appena è stato posto, con l’elezione di Chàvez, il problema del reale compimento della rivoluzione borghese in Venezuela, il paese è precipitato in un conflitto che vede come protagonisti fondamentali la borghesia locale, l’oligarchia legata all’imperialismo, e la classe operaia alleata agli altri settori popolari. Questa correlazione di forze ci dice molto sul futuro della rivoluzione venezuelana. La borghesia locale e internazionale non è disposta a riconciliarsi con il potere di Chàvez. Proprio mentre scriviamo è in corso un terzo e forse ancor più pericoloso tentativo di rovesciare il governo da parte dell’opposizione reazionaria, che dopo aver fallito nel suo obiettivo di raccogliere le firme necessarie per convocare un referendum revocatorio contro Chàvez, tenta di creare una situazione di scontro armato nelle strade per provocare un intervento americano. L’opposizione gioca tutte le carte più sporche, tenta di provocare un conflitto fra il Venezuela e il regime di estrema destra che governa la Colombia, usa il suo sostanziale monopolio delle televisioni per diffondere ogni genere di menzogna, ecc.
Ogni tentativo da parte di Chàvez di rappacificarsi con l’oligarchia non ha fatto che incoraggiare i suoi avversari; la clemenza mostrata verso i golpisti dell’aprile del 2002, il suo rigoroso legalitarismo nell’affrontare la serrata e il boicottaggio padronale, non solo non hanno condotto ad un accordo, ma hanno aiutato l’oligarchia a superare i propri punti di debolezza e a tornare all’offensiva.
L’unica forza che può assicurare il futuro della rivoluzione bolivariana sono i lavoratori, le masse diseredate, i contadini, che già in tutti questi anni sono stati la forza motrice del processo e l’unico vero baluardo contro la reazione. Basterebbe ben poco da parte di Chàvez per farla finita con l’oligarchia: una legge sul controllo operaio che generalizzasse in forma organizzata quanto già si vide nella lotta contro la serrata, mettendo la compagnia petrolifera Pdvsa sotto il controllo operaio espellendone una burocrazia che di fatto risponde ai voleri delle grandi multinazionali petrolifere Usa; una legge che sancisca il principio fabrica cerrada, fabrica tomada (fabbrica chiusa, fabbrica occupata) che autorizzi i lavoratori a espropriare e gestire quelle aziende che vengono abbandonate dalla proprietà o che si rendono partecipi del sabotaggio economico; un’offensiva che rompa il monopolio dell’opposizione sui grandi mass-media e in particolare sulle televisioni, togliendole dalle mani della cricca oligarchica; e soprattutto un’azione decisa e rapida per disarmare l’opposizione reazionaria (che in questi anni si è armata fino ai denti), dare armi alle organizzazioni popolari formando una milizia popolare che nasca dalla fusione tra quei settori della guardia nazionale e dell’esercito che sono chiaramente dalla parte dei lavoratori, e i settori più coscienti e organizzati della classe operaia e del movimento popolare; e con questa forza sciogliere rapidamente quei corpi armati, come la polizia metropolitana di Caracas, che sono le guardie pretoriane della reazione.
Queste misure, se applicate energicamente, potrebbero schiacciare l’opposizione prima che questa getti il paese in un caos sanguinoso. A loro volta, se applicate sarebbero un passo decisivo che aprirebbe la strada alla definitiva rottura col capitalismo, alla concentrazione nelle mani della classe lavoratrice dei settori decisivi dell’economia, alla rottura del vecchio apparato statale e al potere operaio in Venezuela e in tutta l’America latina.
Il processo venezuelano non è un’episodio isolato, ma un anello in una catena di movimenti rivoluzionari che si stanno estendendo su scala continentale, dall’Argentina all’Ecuador, dalla Bolivia al Perù. Particolarmente gli avvenimenti boliviani, con l’insurrezione di massa che al prezzo di centinaia di morti nell’ottobre del 2003 ha cacciato il presidente gringo Sanchez de Lozada, ci dimostrano come la situazione sia ormai giunta al punto critico. L’intero continente può incendiarsi da un capo all’altro, le cricche oligarchiche locali sono completamente screditate e incapaci di resistere alla pressione delle masse. Per questo devono mandare avanti i vari Kirchner in Argentina, Toledo in Perù, Mesa in Bolivia (e domani probabilmente al suo posto vedremo Evo Morales), ecc.
Alcuni di questi governi possono anche abbandonarsi a una retorica nazionalista e antiamericana ma nessuno di loro ha alcuna possibilità di tracciare una strada per uno sviluppo libero dalla morsa dell’imperialismo.
L’attuale situazione latinamericana conferma quindi con la forza degli avvenimenti le conclusioni teoriche basilari della rivoluzione permanente: il ruolo della borghesia nazionale e internazionale, il frammischiarsi dei compiti democratici con quelli socialisti, la rivoluzione proletaria come unica possibile soluzione dei compiti irrisolti dello sviluppo borghese e nazionale, la prospettiva internazionale della rivoluzione.
Conclusioni
Trotskij avvertiva chiaramente nel presente libro che la teoria della rivoluzione permanente non è un passe-partout, una chiave universale buona per aprire tutte le porte. L’aspetto decisivo della rivoluzione permanente è che essa rompe qualsiasi visione schematica e meccanica, e partendo dalla concezione leninista dell’imperialismo rompe la classificazione liberale fra paesi “sviluppati”, “in via di sviluppo” e “sottosviluppati” mettendo in luce invece la relazione fra queste diverse condizioni, cioè il rapporto fra oppressori e oppressi sullo scenario mondiale. Da questa visione unitaria e complessiva del capitalismo mondiale non discende affatto una “omogeneizzazione”, o una assimilazione per la quale tutti i paesi diventano uguali, e in tutti i paesi i compiti del movimento operaio e dei rivoluzionari diventano identici:
Radek crede di tenere conto dell’“originalità” dei vari paesi (al contrario di me!) per il semplice fatto di dividere il genere umano in due categorie; la prima, quella dei paesi “maturi” per la dittatura socialista, e la seconda, quella dei paesi che sono “maturi” solo per la dittatura democratica. In realtà, si serve di un cliché inerte, suscettibile solo di distogliere i comunisti dallo studio reale dell’originalità di ciascun paese. Eppure, un complesso adeguato di rivendicazioni e di azioni e un programma valido di lotta per l’influenza sulle masse operaie e contadine possono basarsi solo sullo studio dettagliato della effettiva originalità di ciascun paese, cioè sul vivo concatenarsi delle varie fasi dello sviluppo storico. Un paese che non abbia fatto o portato a termine la rivoluzione democratica presenta particolarità di grandissima importanza che devono essere considerate come punto di partenza del programma dell’avanguardia proletaria. Solo con programmi nazionali di questo genere il partito comunista può impegnare con successo una lotta effettiva contro la borghesia e i suoi agenti democratici e assicurarsi la maggioranza della classe operaia e dei lavoratori.”20
Ma questo compito può venire assolto solo partendo da quella visione d’insieme che solo la teoria della rivoluzione permanente ha saputo sistematizzare a livello teorico.
Speriamo che queste note possano aiutare il lettore e il militante odierno ad impadronirsi di un dibattito teorico che si dimostrerà, una volta di più, decisivo nelle sorti dei futuri movimenti rivoluzionari in Italia e nel mondo. Gli scorsi due decenni hanno visto una crisi generalizzata della sinistra su scala mondiale, e tanti movimenti e organizzazioni che sulla base di teorie scorrette erano entrati in un vicolo cieco sono entrati in crisi o sono addirittura scomparsi. È il caso di gran parte delle forze che si richiamavano in una forma o nell’altra alle posizioni guerrigliere, al maoismo, di moltissime forze comuniste in genere, e anche di molte di quelle correnti trotskiste che, come abbiamo richiamato più sopra, si dimostrarono incapaci di spiegare la peculiarità e le distorsioni che in molti paesi il processo rivoluzionario aveva assunto. Ora però la marea si è invertita e l’onda delle mobilitazioni di massa torna a crescere in tutto il mondo. Quello che ora vediamo in America latina, domani lo vedremo in Medio oriente, in Asia, in Africa. In un paese dopo l’altro emerge con sempre maggiore chiarezza la crisi dell’imperialismo, la rivolta delle masse contro condizioni intollerabili e soprattutto le grandi potenzialità di un proletariato che negli ultimi decenni si è grandemente rafforzato in molti paesi ex coloniali. La crisi delle teorie rivoluzionarie (o presunte tali) che avevano dominato il movimento per decenni ha disorientato migliaia e migliaia di attivisti; ma questi militanti oggi hanno la possibilità di legarsi a un movimento ascendente e di sviluppare al suo interno una nuova visione della rivoluzione e dei loro compiti, che applichi e attualizzi le lezioni della rivoluzione d’Ottobre e della migliore elaborazione del movimento comunista internazionale dell’epoca di Lenin e Trotskij.
Se questo movimento ascendente saprà trovare la giusta definizione teorica e programmatica dei propri compiti, allora sarà aperta la strada di una nuova rivoluzione d’Ottobre. La nostra ambizione è che la ripubblicazione di questo libro possa costituire un contributo all’assoluzione di questo compito decisivo della nostra epoca.
Aprile 2004
1 Marx-Engels, India, Cina, Russia, il Saggiatore, Milano 1960, pag. 315.
2 Ibid., pagg. 302-303.
3 Non è questo il luogo per ripercorrere l’intero sviluppo del marxismo russo, al quale ci riferiremo solo per i punti necessari agli scopi di questa introduzione. Fra i tanti testi disponibili, segnaliamo Alan Woods, Bolshevism, the Road to Revolution. La prima parte di questo libro è disponibile in traduzione italiana sul sito www.marxismo.net <http://www.marxismo.net>.
4 Lev Trotskij, Storia della rivoluzione russa, Mondadori 1969, pag. 20.
5 Lev Trotskij, Bilanci e Prospettive, in Classi sociali e rivoluzione, ed. Ottaviano, 1976, pagg. 81-82.
6 Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, vol. 12 pag. 433.
7 Cfr. ibidem, pag 420. e segg.
8 Ibidem, pag. 100. Nella terminologia della Seconda internazionale prima del 1914, per programma minimo si intendevano quelle rivendicazioni che si ritenevano realizzabili all’interno della società capitalista, mentre il programma massimo rappresentava la costruzione della società socialista.
9 Queste righe vennero pubblicate in un articolo intitolato Le nostre divergenze nel 1909. Ripubblicandolo nel 1922 in appendice al libro 1905, Trotskij vi aggiunse la seguente nota: “La critica del punto di vista bolscevico di allora (la dittatura democratica del proletariato e della classe contadina) non ha ormai che un interesse storico. I dissensi di una volta non esistono più da un pezzo”. E alle righe citate nell’edizione francese del 1923 affiancava la seguente nota: “Ciò fortunatamente non è avvenuto: sotto la guida del compagno Lenin, il bolscevismo ha trasformato (non senza lotte interne) la sua ideologia su questo problema primordiale sin dalla primavera del 1917, cioè da prima della conquista del potere. Vedi Lev Trotskij, 1905, Newton Compton 1976.
10 Lev Trotskij, Storia della rivoluzione russa, Mondadori 1969, pag. 340.
11 Lenin, Opere complete, vol. 24, pagg. 37-38.
12 Ibidem, pag. 43.
13 Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, in Lenin, Opere complete, vol. 31, pagg. 163-164
14 Rapporto della commissione sulle questioni nazionale e coloniale, in Lenin, Opere complete, vol. 31, pagg. 229-230.
15 Ibidem, pag.232.
16 Su questo si veda anche Lev Trotskij, La rivoluzione tradita, A.C. Editoriale, 2000, e in particolare l’appendice Socialismo in un paese solo?
17 Ted Grant, The Unbroken Thread, Fortress 1989, pagg. 284-288.
18 Ted Grant, The Unbroken Thread, Fortress 1989, pagg. 299-305.
19 Per una descrizione dettagliata di questi avvenimenti si veda Jorge Martin, Venezuela: la rivoluzione a una svolta decisiva su In difesa del marxismo n° 6, da noi pubblicato nell’aprile 2003.
20 Si veda il capitolo VII di questo volume “La rivoluzione permanente” di Lev Trotskij.