Fuori l’imperialismo dai Balcani
Dopo tre settimane di bombardamenti sulla Jugoslavia nessuno può più avere dubbi sulla falsità delle cosiddette "bombe intelligenti" o degli "obiettivi militari". Ponti, fabbriche, treni, persino le colonne di profughi sono stati bombardati. È evidente che l’obiettivo militare è diventato la Jugoslavia tutta e il suo popolo: i serbi, gli albanesi, i montenegrini, gli ungheresi, i rom e tutte le numerose minoranze che lo compongono.
Questa guerra segna un salto di qualità nei rapporti fra le grandi potenze del mondo: la Nato e i governi "civili", "moderni" e "democratici" dell’Europa hanno dichiarato guerra contro la Jugoslavia, uno Stato europeo dotato di un esercito regolare, ben armato e deciso a difendersi.
Siamo lontani anni luce dalla "guerra lampo" contro l’Iraq o dai cosiddetti "interventi umanitari" in Africa. Questo conflitto segnerà profondamente i rapporti fra le potenze e gli esiti dello stesso sono tuttora incerti e possono facilmente sfuggire di mano ai suoi attori.
Tenteremo qui di tracciare un’analisi sulle ragioni di questa guerra e sulla risposta che il movimento operaio e la sinistra possono dare.
Questo scontro sul Kosovo non è che un anello di guerre a catena iniziate nel 1991, con lo smembramento della ex-Jugoslavia: prima con l’indipendenza della Slovenia e della Croazia, poi con la guerra di Bosnia durata tre anni e mezzo e il successivo insediamento in questa area di 30mila soldati della Nato (che sono tuttora lì), oggi il Kosovo, presto il Montenegro e anche la Vojvodina.
La Jugoslavia di Tito dal ’45 in poi grazie ai nuovi rapporti di produzione (proprietà statale e pianificazione) aveva sviluppato enormemente l’economia garantendo un relativo benessere ad una popolazione in precedenza prevalentemente contadina e analfabeta. Su queste basi riusciva a raggruppare al suo interno un crogiolo di etnie che convivevano pacificamente. Ma un’economia pianificata senza controllo dei lavoratori, con lo strapotere della burocrazia inevitabilmente non può assicurare uno sviluppo economico indefinito. Nella misura in cui la crescita economica si riduceva, le burocrazie delle varie repubbliche hanno iniziato a sostenere idee nazionaliste per mantenersi al potere. All’inizio degli anni ’80 in tutta la Jugoslavia ci sono state mobilitazioni e scioperi generali contro la malgestione burocratica. Queste lotte generalizzate in cui tutte le diverse etnie si mescolavano con un unico obiettivo furono sconfitte e deviate dalla burocrazie sulle linee del nazionalismo.
In questo contesto i paesi capitalisti europei hanno colto la grande occasione di potersi reinserire nei Balcani e di poter ritrovare in questi paesi il loro cortile di casa. Così come gli Usa hanno l’America Latina, i paesi europei si spartiscono la Jugoslavia e i Balcani per garantirsi manodopera a basso costo, paradisi fiscali e le infrastrutture non del tutto obsolete della ex-Jugoslavia. Per raggiungere questo obiettivo hanno investito massicci capitali per accelerare lo smembramento della ex-Jugoslavia e potersi spartire la zona in sfere d’influenza.
La Germania e il Vaticano hanno finanziato i partiti nazionalisti che oggi sono al governo e che sono dei loro fantocci. Hanno altresì finanziato la pulizia etnica contro i serbi e oggi la Slovenia e la Croazia sono di fatto appendici della Germania e le offrono un sbocco sul mar Mediterraneo. In Bosnia i musulmani sono stati armati dagli Usa e da tutte le potenze europee, dove oggi governano sotto la bandiera della Nato.
Passo dopo passo la penetrazione del capitalismo in questa area ha significato miseria, guerra e sottomissione di tutti i popoli a regimi nazionalisti antidemocratici e fantoccio delle potenze imperialiste.
Gli interessi strategici dell’imperialismo
In questa corsa non potevano non entrare gli Usa. I Balcani sono una zona storicamente strategica, sono il ponte verso il Medioriente e l’Asia centrale e dunque gli Usa non possono permettersi di lasciare questa zona completamente in mani altrui. Due sono i motivi fondamentali che spingono gli Stati Uniti. In primo luogo ci sono le risorse energetiche (petrolio e gas naturale) praticamente illimitate delle ex Repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale dove esistono pipeline verso la Russia, ma non verso l’occidente. Esiste un progetto chiamato corridoio n° 8 che sarebbe una via di trasporto multimodale (oleodotto, gasdotto, autostrada, ferrovia) che partirebbe da queste zone, passando per la Turchia, la Bulgaria e avrebbe uno sbocco nel Mediterraneo attraverso l’area albanofona, ovvero il nord-ovest della Macedonia e l’Albania.
Inoltre schiacciando Belgrado sarebbe possibile avere il controllo su tutto il percorso del Danubio, dalla Germania fino al Mar Nero, su cui possono viaggiare navi da tremila tonnellate. Dunque diventa di vitale importanza assicurarsi il pieno controllo di queste zone.
In secondo luogo, in un contesto di crescente scontro fra i tre blocchi commerciali fondamentali (Usa, Ue e Giappone) per il controllo del commercio mondiale è ovvio che gli Usa hanno tutto l’interesse ad indebolire l’Unione europea e a invertire il processo di unificazione economica e politica.
Fino a sei mesi fa Milosevic veniva considerato da tutti i governi occidentali l’unico garante della stabilità dei Balcani. Con lui gli Usa si sono accordati per il protettorato in Bosnia e stavano accordandosi per una revoca completa dell’embargo. In particolare l’Italia, la Francia e la Grecia hanno fatto fluire nelle casse dello Stato jugoslavo migliaia di miliardi.
A nessuna potenza dispiaceva la sua politica nazionalista nella misura in cui Milosevic metteva in vendita tutto e garantiva i suoi interessi.
La Telecom italiana insieme a quella greca hanno comprato la telefonia jugoslava lo stesso stava facendo l’Enel con la sua omologa; la Peugeot e la Fiat Iveco avevano accordi con la fabbrica che copriva tutto il fabbisogno federale di autoveicoli (la Zastava); un’impresa francese ha acquistato il cementificio statale; la Ericsson si è aggiudicata la telefonia mobile. L’elenco potrebbe continuare a lungo: tutti si sono buttati come avvoltoi su quello che rimaneva della Jugoslavia.
Nel corso del ’98 la crisi politica in Jugoslavia ha subito un’accelerata. Milosevic, per mantenersi al potere, rinsalda attorno a sé un governo di unità nazionale al grido di "Kosovo, culla della nazione serba!".
Gli scontri fra forze jugoslave e milizie dell’Uck (Esercito di Liberazione del Kosovo) mettono in discussione la stabilità della zona e costringono le potenze occidentali ad intervenire. Inizialmente le potenze europee preferivano trovare un accordo con il regime jugoslavo anche per evitare un intervento militare dagli esiti incerti, mentre gli Usa spingevano per mettere Milosevic nell’angolo.
Negli ultimi mesi del ’98 si è posto il problema ai governi occidentali di cambiare referente, ma l’opposizione cosiddetta democratica, dall’estrema destra di Seselj fino ai filoccidentali di Draskovic, è stata tutta abilmente compattata nel governo da Milosevic.
La svolta è arrivata alla fine dell’anno scorso. L’Uck dopo aver subito sconfitte pesanti da parte dell’esercito jugoslavo l’estate scorsa, è tornato all’attacco dopo qualche mese rifornito di armi e istruttori professionisti che vengono dagli Usa e pare anche dalla Germania, dove molti dirigenti indipendentisti kosovari risiedono.
Finte trattative di pace
Si arriva alle trattative di Rambouillet già con l’obiettivo di schiacciare Milosevic. Come ha recentemente affermato anche lo stesso Ministro degli Esteri Dini, i protocolli di Rambouillet erano stilati per non essere firmati dagli jugoslavi e sono stati di fatto la giustificazione diplomatica dei bombardamenti, già decisi in partenza.
Parlare oggi di arrivare a nuove trattative di pace è totalmente utopistico.
Innanzitutto la logica di questa guerra porta la Nato a considerare come unica condizione accettabile la sua presenza militare sul territorio, che ovviamente non potrà essere accettata da Milosevic se non con la sconfitta militare.
Se si dovesse arrivare ad una spartizione del Kosovo con relativo protettorato e su questi due capisaldi arrivare ad un accordo, questo non sarebbe che una tregua temporanea e aprirebbe le porte a conflitti ancora più profondi.
La realtà è che nessun accordo, nessuna trattativa condotta dagli attuali attori (Usa, Ue, Onu, Russia, ecc.) può portare ad una pace reale per i popoli dei Balcani.
Ogni governo occidentale ha interessi propri che non coincidono affatto con quello dei popoli. L’Onu ha manifestato in questo frangente tutta la sua impotenza: la corsa per accaparrarsi sfere d’influenza nei Balcani impedisce e impedirà ancora di più in futuro alle grandi potenze di trovare una politica comune.
La Russia emerge come il campione dell’azione diplomatica, ma solo perché nonostante sia piegata dai debiti e dalla crisi deve cercare una indipendenza dagli Usa. Per il momento questa azione non porterà ad una rottura aperta con gli Usa, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. Ma una guerra protratta in Jugoslavia che si estende agli altri Stati dei Balcani può rompere i fragili equilibri politici della Russia favorendo l’ascesa di un blocco nazionalista antioccidentale. Un esito del genere non farebbe che inasprire ulteriormente il conflitto.
Verso l’intervento di terra?
Mentre scriviamo si stanno intensificando le manovre che molto probabilmente porteranno ad un intervento di terra. La Nato ha deciso di basarsi sull’Uck, armandola ulteriormente L’Uck troverà le sue reclute fra i profughi (che non hanno molta altra scelta) e saranno la carne da macello, le truppe di sfondamento. L’esercito albanese armato e addestrato dall’Italia sarà anche impiegato nell’azione, insieme a gruppi speciali della Nato. Ma se non ci sarà un accordo previo di spartizione, la Nato non potrà cavarsela mandando altri alla carneficina al posto suo. Infatti si parla di un intervento che prevede da 80mila a 200mila effettivi impiegati.
Il terreno montagnoso favorisce la guerra di guerriglia e dunque l’esercito jugoslavo, il che significa che potrà essere uno scontro di lungo periodo e con molte perdite.
Clinton ha recentemente dichiarato che la stabilità nei Balcani richiederà una "transizione democratica" a Belgrado; un ex-generale dell’esercito e direttore del Consiglio di Sicurezza Nazionale americano ha dichiarato al Wall Street Journal che l’obiettivo di un’invasione di terra dovrà essere quello di distruggere Milosevic personalmente impegnandosi a rimanere per decenni nella zona e permettendo a qualche promettente liberale serbo di prendere il suo posto. A tal proposito ricordava l’invasione della Germania nazista che in un paio di settimane, passando per l’Ungheria (oggi paese Nato) e la Vojvodina era giunta a Belgrado (William E. Odom, Wall Street Journal Europe, 7/4/99). Questa è evidentemente solo una voce, seppur eminente, che la dice lunga sui possibili esiti di questo intervento di terra.
Ma l’altro tragico aspetto di cui oggi nessuno parla apertamente è l’effetto di destabilizzazione di tutta la zona. Già l’Albania è stata trascinata nella guerra. La Macedonia, un paese di poco più di due milioni di abitanti di cui un terzo albanesi, è al limite della tensione interna. L’arrivo dei profughi altera l’equilibrio demografico, facendo crescere esponenzialmente i sentimenti antialbanesi e antioccidentali da parte dei macedoni e della minoranza serba. Per un paese che ospita la principale forza della Nato (oltre 20mila effettivi) questo significa la guerra civile. Se la Macedonia esplode i paesi che hanno delle mire espansionistiche su questa area e cioè la Bulgaria e la Grecia - quest’ultima in chiave anti-Turchia - entrerebbero nel conflitto aprendo enormi contraddizioni nella Nato stessa.
Nel caso in cui si arrivasse, nell’arco di un periodo ragionevolmente breve, ad un protettorato della Nato sul Kosovo solo temporaneamente ci sarebbe una tregua, ed essa riaprirebbe in tempi brevi nuovi conflitti e lo scenario sopra descritto.
Una cosa deve essere chiara: una vittoria della Nato sarebbe una sciagura per i popoli balcanici e anche dei paesi occidentali.
La cosiddetta alternativa "democratica" a Milosevic sarebbe un governo ancora peggiore, che da una parte si baserebbe su un nazionalismo ancora più esasperato, come fanno tutti i regimi fantoccio della zona e dall’altra permetterebbe un saccheggio senza precedenti delle risorse economiche da parte dell’occidente offrendo una classe operaia piegata e disponibile a qualsiasi condizione. Questa situazione danneggia anche i lavoratori dei paesi occidentali. Ogni volta che il proprio governo consolida una sua colonia, un suo "cortile di casa", dove trova manodopera a basso costo e una legislazione permissiva, questo apre una guerra fra poveri, una concorrenza al ribasso nelle condizioni di lavoro, insomma è garanzia di miseria e disoccupazione anche per i lavoratori europei.
La Nato contro la classe operaia
Per tutte queste ragioni il movimento operaio a livello internazionale deve schierarsi per la sconfitta della Nato e degli eserciti dei propri governi.
Nel nostro paese la campagna pacifista che mette sullo stesso piano la Nato e Milosevic è astratta e pericolosa.
Il regime di Milosevic è un regime assolutamente reazionario, come tutti i regimi della zona; fra di essi la sinistra non ha nulla da scegliere. Ma è di importanza decisiva chi fa cadere questi regimi: se l’azione viene guidata dalla Nato o comunque dall’imperialismo, questo è garanzia di un peggioramento della situazione dal punto di vista della nostra classe.
È dunque prioritario in primo luogo sconfiggere le mire espansionistiche dell’imperialismo, per aiutare a creare le condizioni di un abbattimento di Milosevic e di tutti i regimi dei Balcani per opera dei loro stessi popoli.
A questo proposito vorremmo citare alcuni avvenimenti significativi.
Un anno e mezzo fa i lavoratori del settore energetico jugoslavo hanno lanciato un appello via internet di richiesta di solidarietà ai lavoratori dello stesso settore in Italia contro la vendita della loro azienda all’Enel, e contro la politica di Milosevic. Non ci risulta abbiano trovato risposta.
Prima di questi bombardamenti si stava rafforzando un’opposizione di massa al regime che non aveva nulla a che fare con i "democratici" Draskovic e Seselj. Tutti i principali sindacati erano sul piede di guerra.
Nel novembre scorso, dopo numerosi scioperi di categoria (insegnanti, sanità, metalmeccanici, edili) per il pagamento dei salari arretrati, il governo non solo ha disatteso le aspettative ma ha aumentato le tasse per coprire le spese militari e ha varato una "legge sui privilegi" con la quale venivano aumentati gli stipendi ai funzionari statali. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Sia i sindacati governativi che quelli indipendenti avevano deciso uno sciopero generale che per la prima volta aveva chiaramente fra le sue rivendicazioni la caduta del governo.
Questo processo di radicalizzazione è stato bloccato dalla Nato. I bombardamenti invece di accelerare la crisi del regime lo hanno ricompattato. Un paio di settimane fa, i lavoratori della Zastava, la fabbrica di automobili jugoslava, hanno anch’essi lanciato un appello. Hanno spiegato la loro storica opposizione alla politica di Milosevic, ma di fronte ai bombardamenti Nato si trovavano costretti a difendere il frutto del loro lavoro e dichiaravano di occupare tutti la fabbrica e di fare gli scudi umani. Qualche giorno dopo la fabbrica è stata bombardata, con morti e centinaia di feriti.
Si dimostra ancora una volta che questi bombardamenti non sono diretti contro un regime nazionalista e antidemocratico, ma contro il popolo jugoslavo e in particolare contro la sua classe operaia.
La nostra alternativa
Rifondazione Comunista è l’unico partito in Italia che chiaramente si sta opponendo a questa guerra. Questo è di straordinaria importanza perché attorno a questa opposizione può costruirsi un movimento di massa dei lavoratori a livello internazionale. Ma la richiesta di pace e della ripresa delle trattative è, come abbiamo spiegato, insufficiente.
Oggi il compito degli attivisti, in particolare in Rifondazione e nei sindacati è quello di promuovere una politica internazionale comune della classe lavoratrice attorno a tre temi fondamentali.
Il primo è la sconfitta dalla Nato e dei governi che sostengono questa guerra. In Italia il primo passo concreto in questa direzione è lo sciopero generale contro la guerra e contro il governo D’Alema. Una sconfitta della Nato, se in un primo momento potrebbe rafforzare Milosevic, avrebbe l’effetto più significativo e duraturo di indebolire fortemente l’imperialismo e di dare un segnale a tutti gli oppressi del mondo che è possibile alzare la testa, che è possibile sconfiggere la potenza militare americana.
In secondo luogo è necessario smascherare gli interessi dei governi europei e degli Usa nei Balcani e invertire il processo di penetrazione capitalista della zona. Seppur tutte le potenze occidentali sono unite sotto la bandiera Nato in questo attacco, esiste un contrasto latente fra l’Europa e gli Usa.
Questo contrasto è il risultato di due imperialismi in concorrenza di cui uno, quello europeo, è più debole.
La sinistra non può scegliere fra i due. Rivendicare come fa Bertinotti un Europa più forte in chiave antiamericana è assolutamente fuorviante.
Se l’Unione europea avesse una politica estera comune e una forza militare indipendente dalla Nato, esprimerebbe il suo dominio nei Balcani esattamente come fa oggi la Nato a guida Usa. Dunque, nessuna fiducia nelle potenze capitaliste!
La classe operaia dei Balcani ha tentato più volte di opporsi alle privatizzazioni e alla miseria del capitalismo. Quelle lotte non hanno trovato la solidarietà e il sostegno attivo dei lavoratori europei. È necessario promuovere coordinamenti internazionali in cui i lavoratori europei, insieme, in primo luogo, a quelli jugoslavi decidano azioni di lotta contro il saccheggio delle potenze occidentali.
Il terzo aspetto assolutamente decisivo è riconoscere che il capitalismo e tutte le sue organizzazioni politiche, i singoli governi, la Nato, l’Ue e l’Onu non possono risolvere i problemi dei popoli balcanici e garantire una vera pace nella zona.
Dobbiamo altresì riconoscere che questa zona in tutta la sua storia secolare di conflitti e sottomissioni agli imperi europei e turco ha avuto una sola parentesi di pace e di sviluppo. Solo quando le masse jugoslave si sono rivoltate contro il nazismo e il capitalismo sono riuscite a far convivere le diverse culture, le diverse nazionalità rendendo possibile una reale liberazione dei popoli balcanici.
Un movimento rivoluzionario contro il capitalismo per la nazionalizzazione delle risorse economiche sotto il controllo dei lavoratori è l’unica garanzia di sviluppo economico e di pacificazione della zona in grado di permettere a tutte le culture e alle diverse etnie di manifestarsi liberamente.
L’idea di costruire una federazione socialista dei Balcani non è estranea alla classe lavoratrice della zona. Hanno sperimentato la miseria del capitalismo che è giunta a scaricare le bombe sulle loro teste. Ma hanno anche sperimentato un sistema diverso che aveva permesso uno sviluppo senza precedenti. La rivoluzione guidata da Tito durante la guerra partigiana e dopo la seconda guerra mondiale ha rappresentato una svolta storica per i popoli balcanici: per la prima volta prendevano in mano il loro futuro, combattevano i loro oppressori.
È necessario ripartire da questa esperienza e svilupparla su basi più avanzate per impedire le mostruose distorsioni burocratiche. Anche sotto le bombe è possibile che si sviluppi un movimento in questa direzione. In Italia la sinistra deve sostenere questo movimento e aiutarlo con una politica interna speculare e dunque anticapitalista.
Chi difende i profughi kosovari
Il governo italiano continua a versare lacrime da coccodrillo sui poveri albanesi kosovari, mentre continua a sganciare le bombe che condannano quegli stessi profughi o alla morte da guerra o da inedia.
Dicono che bisogna fare qualcosa, che non si può non intervenire. È evidente che più intervengono più la situazione peggiora, anzi i profughi vengono usati da tutte le forze in campo per i loro scopi. Milosevic usa i profughi per destabilizzare i paesi confinanti, estendere il conflitto e costringere la Nato a impegnarsi su più fronti. La Nato usa i profughi come carne da macello. Vengono costretti con la forza nei campi dai quale l’Uck attinge per rimpolpare il suo esercito.
Ancora oggi nonostante questa drammatica esperienza i kosovari albanesi sostengono l’intervento Nato, come unica garanzia per la loro liberazione. Purtroppo dovranno imparare a loro spese che la Nato non è il buon samaritano che credono.
Le aspirazioni indipendentiste del Kosovo hanno trovato un seguito di massa solo negli ultimi anni. In passato gli albanesi del Kosovo avevano livelli di vita superiori a quelli dell’Albania, dunque non c’era una ragione per l’indipendenza e la conseguente unificazione con l’Albania.
La realtà è che sulla base di un protettorato della Nato, passeranno dall’oppressione serba a quella ben peggiore della Nato. Le truppe militari dell’Alleanza governeranno la zona, impedendo qualsiasi forma di autogoverno democratico. La Bosnia insegna: i trentamila militari della Nato controllano tutto, dai governi ai programmi televisivi. La ricostruzione verrà fatta pagare ai kosovari con livelli di sfruttamento e di sottomissione senza precedenti.
La sinistra non può che appoggiare il diritto dei popoli alla loro autodeterminazione, compreso il diritto ad uno stato indipendente. Cosa significa questo concretamente in Kosovo oggi? Un Kosovo indipendente esisterebbe oggi solo come protettorato Nato e questo significherebbe un rafforzamento dell’imperialismo e un peggioramento delle condizioni delle masse.
Anche qui dobbiamo tornare all’esperienza rivoluzionaria del secondo dopoguerra. Le masse jugoslave si sono ribellate all’invasione nazista, ma la rivoluzione ha significato anche una guerra civile diretta contro le borghesie locali.
Solo individuando anche i nemici interni, gli oppressori locali, nazionalisti e fantocci dell’imperialismo le masse hanno trovato una liberazione autentica.
I limiti della federazione socialista di Tito che si ispirava la modello stalinista sovietico hanno fatto tornare i vecchi odi nazionalistici.
Ma la storia è lì a dimostrarlo: solo la fine del dominio capitalista e l’estromissione delle borghesie nazionaliste le diverse culture ed etnie hanno avuto un periodo di convivenza pacifica.
Oggi le differenze sono usate dall’imperialismo per perpetuare il suo dominio. Gli Usa sostengono l’Uck, ma in realtà nessuna potenza vuole veramente difendere gli interessi nazionali degli albanesi e la loro cultura. È evidente oggi che l’Uck è usata dalla Nato come esercito di sfondamento. Prima o poi, quando l’Uck non servirà più, sarà scaricata dall’imperialismo.
Il movimento operaio deve difendere il diritto di tutti i popoli ad autodeterminarsi. Oggi questo diritto nei Balcani può essere messo in pratica solo da un movimento rivoluzionario delle masse jugoslave contro tutti i suoi oppressori per la federazione socialista dei Balcani.
Nella fase attuale ci sarà il solito scettico che parlerà di soluzioni utopistiche e astratte. È normale che nel movimento operaio ci sia confusione e in certi strati anche appoggio alla guerra: come potrebbe essere altrimenti? In tutta Europa (tranne la Spagna) sono proprio i partiti socialdemocratici, e in Francia anche i comunisti, coloro i quali sostengono questo massacro.
La realtà è che questa guerra mette sotto gli occhi del mondo intero la crisi di questo sistema economico. Quando le potenze non riescono a mettersi d’accordo attorno ad un tavolo, non esitano a ricorrere alle armi, stracciando proclami pacifisti, Costituzioni e quant’altro. La pace relativa che ha regnato in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale è finita. Questo è il futuro che il capitalismo offre alle nuove generazioni: miseria, disoccupazione e guerra.
Su queste basi è inevitabile che le attuali manifestazioni pacifiste cederanno il posto ad un movimento più radicale che identificherà nel capitalismo il responsabile di questo scempio e lo combatterà fino in fondo. La carneficina della prima guerra mondiale, per quanto drammatica è stata questa esperienza per la classe lavoratrice mondiale, ebbe proprio questo effetto, innescando un processo rivoluzionario a livello mondiale che trovò la sua massima espressione nella rivoluzione russa del 1917. I tempi con i quali si svilupperanno questi processi sono impossibili da prevedere, ma gli avvenimenti spingeranno sempre di più in questa direzione.
L’appello degli operai della Zastava
Pubblichiamo qui per intero l’appello dei lavoratori jugoslavi "all’opinione pubblica a tutti i paesi della Nato". Pensiamo che non abbia bisogno di ulteriori commenti.
"Siamo lavoratori della fabbrica Zastava di Kragujevac, una città che ha pagato un prezzo altissimo nell’ultima guerra... la nostra fabbrica dà da vivere a 38mila dipendenti e altri 60mila nell’indotto... Noi odiamo Milosevic, ma ora vogliamo proteggere ciò che abbiamo costruito col nostro lavoro e ciò che resta del nostro futuro. Perciò tutti abbiamo preso la seguente decisione: quando suoneranno le sirene non abbandoneremo la fabbrica ma rimarremo vicini agli impianti. Un muro umano, fatto non solo di lavoratori, ma di familiari e cittadini. Vivremo in fabbrica, finché i bombardamenti contro il nostro paese non cesseranno. Sappiate quindi che una bomba sulla nostra fabbrica provocherebbe migliaia di morti. Molte volte, nella nostra storia siamo stati costretti a difendere ciò che è nostro da soli, con le nostre forze. Anche oggi, questa, è la sola cosa che possiamo fare."