Oggi in Valsusa, domani in tutta Italia! - Falcemartello

Breadcrumbs

Oggi in Valsusa, 

domani in tutta Italia!

Ci hanno provato in tanti a seppellire la lotta della Val di Susa contro la Tav, e ci proveranno ancora. 

Ci hanno provato con le calunnie e con il disprezzo versato a tonnellate sui media: localisti, egoisti, incapaci di capire le meraviglie del progresso, “un misto di no global duri, mezzi terroristi e travet col giardino decorato con i sette nani”, come ha scritto un autorevole editorialista del Corriere della sera. Ci hanno provato con le manganellate e con le provocazioni, con l’aggressione vigliacca nella notte del 5 dicembre.

Quando hanno visto che la linea dura non pagava hanno provato la più classica delle manovre di disinformazione di massa: hanno convocato i sindaci, hanno firmato una tregua fittizia (in realtà una richiesta di resa appena mascherata) per poi dire che tutto era finito, che c’era l’accordo, e che chi si ostinava a voler manifestare il giorno 17 dicembre era chiaramente un violento, un estremista, una ridotta minoranza di provocatori. Poi, una pesante cortina di silenzio.

Non è servito a niente; la valle non ha firmato la tregua, le assemblee infuocate dei giorni successivi hanno chiuso la breccia che si era aperta nel punto più debole del fronte (i sindaci, appunto) e la spinta della base ha scavalcato di slancio i giorni più difficili. Lo hanno detto in tanti in questi giorni: la Valsusa è ancora partigiana!

E così ci siamo trovati in decine di migliaia per le vie di Torino nel sabato 17; con questa manifestazione la lotta di Valsusa esce definitivamente dall’ambito di una lotta circoscritta a un territorio, si lega come un nuovo anello in un lunga catena di mobilitazioni di massa che in questi anni hanno segnato il risveglio delle lotte sociali nel nostro paese: Valsusa come Genova 2001, come Melfi, come Scanzano…

Ci sono tante lezioni da trarre da queste giornate. La prima è che al momento decisivo, in quelle 24 o 48 ore nelle quali la pressione del fronte avversario era più forte, quando tentavano di accreditare l’idea che il movimento fosse pronto a dare il “rompete le righe”, tutti i gruppi “dirigenti” sono stati drammaticamente al di sotto delle necessità. Nessuno ha avuto il coraggio di fare il passo e dire che la manifestazione si doveva comuque fare, che la tregua era un inganno. Non i dirigenti della Fiom, non la maggioranza del Prc, non i sindaci: si sono messi tutti in disparte, aspettando di vedere come soffiava il vento. Solo quando è stato evidente che il corteo comunque ci sarebbe stato, che il popolo No Tav, i comitati, la gente della valle, non si sarebbero accontentati di una kermesse in un parco di periferia, allora gli “stati maggiori” si sono accodati alla mobilitazione.

La lotta della Valsusa dimostra anche come la prospettiva di un governo del centrosinistra sia ben lontana dal garantire la pace sociale che tanto servirebbe ai poteri forti, ai vari partiti trasversali, siano quelli del cemento o quelli della finanza, che sono disposti a sostenere qualsiasi governo purché non vengano toccati i loro affari miliardari. Ormai dovrebbe essere chiaro: chi pensa che l’Unione possa ripetere impunemente l’esperienza del 1996-2001, quando per cinque anni il movimento operaio venne imbavagliato e paralizzato dalla concertazione mentre il governo di centrosinistra approvava una controriforma dopo l’altra, si sbaglia di grosso. L’esperienza di questi anni non è passata invano, quando Berlusconi sarà stato sloggiato da Palazzo Chigi i lavoratori vorranno vedere le cose cambiare e più prima che poi torneranno a muoversi in prima persona per fare avanzare le proprie rivendicazioni. Le illusioni, le deleghe in bianco a Prodi e al suo governo, se pure ci saranno, si infrangeranno rapidamente contro la dura realtà.

È questa la prospettiva che dobbiamo porre al centro del nostro lavoro nella fase che si sta aprendo: quella di una contraddizione sempre più evidente fra le necessità e le aspirazioni di milioni di persone che non ne possono più di salari e pensioni da fame, di precariato dilagante, di privatizzazioni e saccheggio di tutto quello che resta dei servizi pubblici, di una generale incertezza che condiziona in modo intollerabile le loro vite, e dall’altro lato una Unione che a tutto pensa fuor che a cambiare realmente qualcosa.

Oggi questa contraddizione è ancora parzialmente offuscata dalla presenza del governo Berlusconi; ma la stella del Cavaliere è in declino e difficilmente potrà rimontare una sconfitta sempre più annunciata. I chiacchieroni, gli ingenui (e alcuni mistificatori) ci dicono che una volta cacciato Berlusconi, i problemi saranno risolti. Noi sappiamo invece che una volta cacciato Berlusconi i problemi esploderanno.

Il sentiero di Prodi è già tracciato e non si decide certo (salvo qualche particolare secondario o di facciata) nei seminari programmatici del partiti dell’Unione. È un sentiero delimitato da due robusti muri: il debito pubblico che torna a crescere da un lato, e la crisi di competitività dell’economia italiana dall’altro. In mezzo una via obbligata che sarà fatta di tagli, privatizzazioni, ulteriori attacchi ai diritti nei luoghi di lavoro, e tanta “legalità” per fare ingoiare ai destinatari (cioè noi tutti) la medicina amara. Abbattere quei muri significa rompere le compatibilità del capitalismo, e sarà di questo che si discuterà sempre più ampiamente nel movimento operaio di fronte all’inevitabile fallimento del riformismo al governo.

Chi pensa che milioni di lavoratori, di giovani, che hanno lottato per cinque anni contro questo governo accetteranno nuove politiche di lacrime e sangue solo perché lo chiedono Prodi e Fassino, sbaglia di grosso i propri conti; la Valsusa non ha accettato la Tav anche se il centrosinistra governa regione e provincia, e lo stesso accadrà domani in tutto il paese. Sarà allora che si decideranno le sorti non solo di un governo, ma anche della sinistra nel nostro paese. E sarà in quel conflitto che si costruiranno le forze necessarie a riscattare le organizzazioni della sinistra, a partire dal Prc, e la Cgil, da una subordinazione suicida con la quale gli attuali gruppi dirigenti le incatenano all’avversario di classe.

20 dicembre 2005