Giovani Comunisti: la strada per il radicamento - Falcemartello

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Conferenza provinciale straordinaria dei Giovani Comunisti di Milano


Quello che segue è il documento presentato alla Conferenza dei Giovani Comunisti di Milano dai sostenitori di FalceMartello. Il regolamento, le date delle conferenze di zona e il testo degli altri documenti li puoi trovare su: www.giovanicomunisti.it/milano

Le tesi del nostro documento

1. Lo scioglimento per due anni dei Giovani Comunisti di Milano è stato il risultato della linea politica adottata all’ultima Conferenza, fondata sulla Disobbedienza e la contaminazione. A dimostrazione di questo i Gc di Milano non sono stati un caso isolato, ma la punta di una situazione di difficoltà generalizzata della nostra organizzazione.

2. Le contraddizioni del capitalismo a livello internazionale, aggravate dalle particolari debolezze del capitalismo italiano, rendono possibile un nuovo risveglio del movimento operaio e studentesco nel prossimo futuro. Nell’ultimo anno abbiamo assistito ad una radicalizzazione delle mobilitazioni di massa, da Scanzano a Melfi, passando per Alitalia e gli autoferrotranvieri. Questi vanno considerati come le tappe di un processo che potrebbe avvenire su scala più ampia.

3. Mentre a parole il partito e i Gc si sono orientati al “movimento”, nella realtà si sono orientati a quelle concezioni politiche che hanno fallito di fronte agli sviluppi del movimento reale. Tutte le concezioni e le organizzazioni da cui avevamo deciso di farci contaminare sono entrate in crisi. Proprio per questo è necessario abbandonare il terreno della Disobbedienza per dedicarci ad un’attività sistematica e paziente di radicamento verso i posti di lavoro e i luoghi di studio. Ciò che contestiamo della Disobbedienza non è la sua presunta radicalità ma, al contrario, il fatto che ci allontani dalla lotta reale.

4. Tanto più tarderemo ad impostare un’azione di radicamento nelle aziende, tanto più lasceremo che l’ ambiente di scontento presente nei posti di lavoro sia monopolizzato e capitalizzato dalle direzioni sindacali. Se questo è vero per tutto il partito, lo è ancora di più per i Giovani Comunisti. Sono proprio i lavoratori più giovani, sottoposti all’incubo del precariato e privi delle bruciature delle sconfitte passate, il settore della classe più rapidamente coinvolgibile alla militanza politica. E’ all’interno di questo orientamento rivolto a sviluppare un’attività sindacale nei posti di lavoro che potremo realmente affrontare la questione del precariato, intervenendo nelle vertenze reali che i lavoratori precari saranno in grado di mettere in campo nei posti di lavoro. Non è né nel percorso della Mayday Parade né in qualche rete di precari inventata a nostro uso e consumo che nascerà il movimento di massa contro il precariato. Questo sorgerà come parte complessiva di un risveglio del movimento dei lavoratori o non sorgerà affatto.

5. Lo sciopero della scuola del 15 novembre dimostra le potenzialità di un’unica lotta contro la Moratti che veda protagonisti potenzialmente tutti i settori dell’istruzione, dai nidi fino alle università. Finora uno degli assenti principali è stato proprio il movimento studentesco. Se questo avviene non è per una qualche sorta di “virus qualunquista” che si è impadronito del corpo studentesco, ma per gli errori delle strutture studentesche negli anni passati che hanno sfiancato il movimento con una serie di mobilitazioni sempre più spoliticizzate e prive di contenuti. Ma siamo convinti che questa situazione possa cambiare rapidamente. Non si tratta di inventare chissà quale alchimia organizzativa per rilanciare il nostro intervento nelle scuole e negli atenei, ma di orientarsi alla costruzione di una struttura di collettivi e Comitati in difesa della Scuola Pubblica che difendano un programma di difesa del diritto allo studio e che lottino perché questa piattaforma si affermi all’interno delle mobilitazioni contro la Moratti.

6. L’alleanza con il centrosinistra rischia di minare la posizione del partito e dei Gc proprio di fronte a possibili future mobilitazioni. Non sarà il partito ad influenzare l’alleanza, ma al contrario ne sarà profondamente influenzato e ingabbiato.

7. In Iraq non è in corso l’avvitarsi della “spirale guerra-terrorismo”, ma una guerra di resistenza di popolo all’occupazione imperialista.

8. Nella nostra organizzazione si parla di innovazione delle idee del marxismo, ma in realtà è in atto una loro revisione. Questo problema va fronteggiato recuperando un intenso dibattito politico al nostro interno su temi fondamentali come la teoria dello Stato e della violenza secondo i marxisti, la storia del movimento operaio e le ragioni della degenerazione della rivoluzione russa.

9. Le proposte che derivano da queste tesi sono illustrate al termine del documento.

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Poche Conferenze avevano consegnato un risultato così chiaro come quella di Milano due anni fa: il primo documento prevaleva con un’ampia maggioranza, sotto la regia attenta dell’Esecutivo Nazionale uscente presente ad ogni singola Conferenza di zona. Qualche settimana dopo i Gc avevano nei fatti cessato di esistere come struttura organizzata. Non è mai stato riunito un attivo né eletto un coordinatore.

Eppure questi due anni sono stati ricchi di avvenimenti e possibilità per la costruzione di un’organizzazione comunista. Basti ricordare la lotta degli autoferrotranvieri e lo sviluppo delle mobilitazioni contro la guerra. Com’è potuto accadere un simile paradosso? Com’è potuto accadere che a tali possibilità corrispondesse uno scioglimento nei fatti dei Gc di Milano? Non si tratta di una domanda fine a sè stessa. Solo comprendendo ciò che è accaduto, possiamo porre le basi perché non si ripeta.

Secondo i nostri vertici nazionali, ciò che è sucesso a Milano sarebbe stato il risultato di una “spaccatura nella Disobbedienza” che ha portato all’uscita dal partito buona parte del gruppo dei Gc del documento di maggioranza. Si tratta di una spiegazione che in realtà non spiega nulla. Il punto non è se ci sia stata o meno una spaccatura nella Disobbedienza, ma come mai tale spaccatura abbia polverizzato la nostra struttura.

Ci rifiutiamo poi di fare del “gruppo dei fuoriusciti”, del compagno Corradini e del gruppo del Cantiere - rei di essere passati al “lato oscuro” della Disobbedienza - gli unici colpevoli di questa situazione. Se così fosse, infatti, rimarrebbe da spiegare come mai il Cantiere abbia potuto giocare questo ruolo, padrone di fatto dei Gc milanesi. Negli anni di militanza del compagno Corradini nei Gc, mai nessuna critica si è levata dall’attuale maggioranza nei confronti della sua linea. E se si è levata, è subito stata nascosta in un silenzio imbarazzato. Ma soprattutto, cosa ancora più importante, il caso di Milano non è stato né un fulmine a ciel sereno né un caso isolato nel panorama nazionale. Si è trattato semmai della situazione più eclatante in un panorama di difficoltà organizzativa e politica generalizzata della nostra organizzazione.

Dal nostro punto di vista, questa difficoltà nasce proprio dalla linea politica adottata dall’ultima Conferenza. Come spiegavamo allora: “Il blocco con i "Disobbedienti" mette in discussione l’esistenza stessa dei Giovani Comunisti: perchè un giovane dovrebbe iscriversi ai Gc se sono una fotocopia dei "disobbedienti"? Tra l’altro per fare atti eclatanti, non serve un’organizzazione comunista, basta una qualsiasi associazione”…

Lo stato del partito e dei Gc

A poche settimane dal suo congresso non solo i Giovani Comunisti ma tutto il partito registra uno stato di debolezza e passi indietro sul terreno del radicamento sociale. Tutti gli indicatori della nostra influenza organizzata, dalla vendita di Liberazione fino alla militanza, segnano uno stato di difficoltà.

Questo avviene a ben tre anni di distanza dalla “svolta verso i movimenti” che, nelle intenzioni dichiarate della nostra direzione, doveva rimuovere gli ostacoli novecenteschi che si frapponevano fra il nostro partito e le masse scese in movimento. Solo per fare un esempio, è ironico notare come il partito “aperto ai movimenti” sia stato in grado di portare in piazza nell’ultimo corteo nazionale poco più di una decina di migliaia di compagni a fronte dei cortei di qualche anno fa, arrivati a sfondare il tetto dei 200mila manifestanti.

Lungi dall’indurre qualche riflessione critica nei nostri vertici, la situazione sembra spingerli ancora più a rotta di collo sul terreno dell’innovazione. Se tutto va male, ci viene detto, deve essere perché il processo di autoriforma del partito non è ancora completato. Come un naufrago che in preda alla sete beve acqua salata e dopo averne bevuta sente ancora più sete, la presunta innovazione bertinottiana manda in crisi il partito e la crisi viene interpretata come un deficit di innovazione.

In realtà la nostra organizzazione ha fallito nell’intervenire proprio nel movimento reale che si stava sviluppando tra le masse del nostro paese. Nei fatti non solo non ci è stato nessun orientamento al movimento, ma si è deciso di eleggere “movimento” ciò che movimento non era. La radicalizzazione di migliaia di persone, dopo le famose giornate di Genova, non ha cessato di svilupparsi ma ha scelto terreni del tutto diversi da quelli che prospettavamo e dove avevamo scelto di intervenire.

Tutte le concezioni e le strutture organizzate da cui avevamo deciso di farci contaminare (dai Social Forum fino al Laboratorio dei Disobbedienti), che avevamo eletto come il futuro dei movimenti, sono entrate in crisi proprio di fronte agli sviluppi del movimento reale rimanendo di fatto sospese in aria. E noi con loro.

Abbandonare il terreno della Disobbedienza, per radicarci nei movimenti reali

Non una generica società civile, ma i lavoratori di Melfi, gli autoferrotranvieri, gli operai di Terni sono stati i protagonisti dello scontro politico in Italia. Non le mani bianche della non violenza e i gesti avanguardisti della Disobbedienza, ma le barricate di massa a Scanzano e Acerra sono state le forme di lotta con cui è continuato il movimento di massa. Non le tavole rotonde sul pacifismo, ma le cariche della polizia sono state le esperienze vissute dalle masse sulla propria pelle.

Ancora una volta il caso di Milano è il più sintomatico. Mentre i Giovani Comunisti si arrovellavano il cervello per inventare l’ultima azione di disobbedienza (dall’assalto alla Croce Rossa fino a quello alla Statale), assistevamo all’insubordinazione di massa degli autoferrotranvieri senza che il nostro partito imbastisse alcun tipo di intervento organizzato verso questa lotta. Peggio: quando siamo intervenuti l’abbiamo fatto portando le posizioni più arretrate. Così, mentre gli autoferrotranvieri lottavano per continuare lo sciopero, il segretario della Federazione pensava bene di invitare ad un ritorno al lavoro dalle pagine del Corriere Milano. La stessa contraddizione si ripeteva su scala più ampia: mentre i lavoratori di Melfi e dell’Alitalia entravano in lotta, i residui del Social Forum si riunivano a Bologna totalmente avulsi da simile contesto di lotta.

Ciò che contestiamo della Disobbedienza non è la sua presunta radicalità, ma tutto al contrario. Essa fa della comunicazione alle masse la sua ragione di vita, ma proprio alle masse non ha nulla da proporre. Dà l’impressione a molti giovani di avere una scorciatoia alla lotta, mentre in realtà li porta lontani anni luce proprio dalle lotte reali. Mentre con i suoi gesti colorati e “comunicativi” pretende di smuovere la coscienza delle masse, in realtà la Disobbedienza prescinde proprio dalla loro azione. Al movimento di massa sostituisce l’azione di qualche sparuto gruppo di eroi mass-mediatici.

Che cosa c’è di sbagliato, ad esempio, nell’esproprio proletario compiuto a Roma alcune settimane fa? Non il fatto in sé che l’ “espropriazione sia sopraffazione”, come ha spiegato Bertinotti, ma il fatto che non proponga nessuna via di lotta praticabile a quelle migliaia di persone a cui si vuole parlare. E quando queste migliaia di persone decideranno che è l’ora di muoversi contro il carovita ancora una volta non lo faranno per le vie della Disobbedienza, ma attraverso l’attività sindacale nelle proprie aziende.

In questo paese le enormi contraddizioni accumulate dal capitalismo preparano ancora una volta lo scoppio di movimenti di massa di enorme radicalità. Melfi non è la fine di un processo né un episodio isolato: è una tappa verso la generalizzazione di una lotta simile. Ciò che è successo in Basilicata, con le differenze del caso, può riprodursi su tutto il territorio nazionale. La gente comune affronterà la lotta sul terreno dove vive le contraddizioni quotidianamente, in particolare i luoghi di lavoro e di studio. Non dobbiamo inventarci nulla di nuovo ma attrezzare l’organizzazione ad intervenire nei movimenti reali, iniziando da subito un lavoro di radicamento laddove si produrranno queste mobilitazioni.

Non la Disobbedienza, ma la crescita politica e di radicamento della nostra organizzazione è quello che va messo all’ordine del giorno. Si tratta di un lavoro paziente, che pare non trovare spazio sulle pagine di Liberazione, ma che in ultima analisi farà la differenza tra un’organizzazione sospesa in aria e la costruzione di un’organizzazione di massa.

Sulla questione del centrosinistra

“Anzi stanno avvenendo fenomeni di massa significativi in senso contrario.Mi riferisco all’agitazione degli studenti che, malgrado l’oscuramento dell’infomazione, rappresentano una novità rilevante. Ci domandiamo cosa sarebbe successo se anche il Prc fosse stato attirato nell’area governativa e nella corresponsabilità nei confronti dei suoi atti: non saremmo oggi nella condizione di raccogliere questa protesta e di concorrere a politicizzare questa lotta” Fausto Bertinotti 1999

Se in generale in quest’epoca storica il capitalismo non ha alcun margine per fare concessioni alle classi subalterne, questo è tanto più vero per il capitalismo italiano. Vissuta al riparo delle svalutazioni della lira, oggi la classe dominante del nostro paese si trova tra l’incudine e il martello: non è in grado di competere sul terreno tecnologico con le industrie dei paesi capitalisticamente più avanzati e non può competere fino in fondo con il costo del lavoro dei paesi capitalisticamente arretrati. Il debito pubblico che sta ricominciando a crescere e la perdita di fette di mercato a livello internazionale è in aumento. In questa situazione esiste solo una ricetta da un punto di vista capitalista: drenare ricchezza verso il capitale comprimendo il costo del lavoro.

Questo sarà il programma a cui sarà costretto qualsiasi governo che accetti le compatibilità del capitalismo. Inevitabilmente si tradurrà in un attacco ai lavoratori, sognando un futuro in cui finalmente arrivino gli investimenti per ammodernare il tessuto industriale italiano. Ma si tratta di un futuro che vive solo nei sogni di Montezemolo.

Il fatto che un eventuale Governo dell’Ulivo possa in questo contesto avviare una svolta riformatrice nel paese è e resterà una pia illusione; che molti lavoratori si affidino a quest’illusione per autoconvincersi che l’Ulivo sia un’alternativa a Berlusconi è normale. Che il nostro partito contribuisca a crearla, accettando di entrare in coalizione e giocando ad imbellettare l’Ulivo con la nuova maschera della Grande Alleanza Democratica, è un crimine.

Sappiamo che diversi compagni ritengono scandaloso affrontare la questione del centrosinistra in una Conferenza dei Giovani Comunisti, preoccupati di non fare il “congressino dei piccoli”. Vogliamo dire qualcosa su questa preoccupazione: per i comunisti l’esistenza di un dibattito autonomo dei giovani non vuol dire che tale dibattito debba limitarsi solo alle questioni giovanili, ma che al contrario debba approfondire tutti i temi politici fornendo il punto di vista dei giovani compagni e del lavoro che svolgono per la costruzione dell’organizzazione tra studenti, giovani lavoratori e disoccupati.

Non affrontare nel nostro dibattito la questione del centrosinistra significa forse impostare un ottimo intervento verso i giovani che vivranno i prossimi anni sulla luna, ma un intervento scarsetto nei confronti di quelli che vivranno sulla terra. Che ci piaccia o meno la posizione che tutto il partito avrà nei confronti dell’Ulivo peserà come un macigno sul nostro lavoro giovanile. Basta ricordare la contraddizione in cui cadde la nostra organizzazione tra il 1996 ed il 1998 quando a fronte delle mobilitazioni studentesche che si svilupparono contro l’Autonomia Scolastica, il nostro partito si trovò a votarne l’approvazione in parlamento.

Dopo aver dichiarato la morte dell’Ulivo nel ’99 e la “rottura con Prodi come atto fondativo della Rifondazione”, il nostro partito corre a rotta di collo verso l’alleanza con Prodi. Come nella Ddr immaginaria la protagonista di Goodbye Lenin si sente dire che la Coca Cola è diventata una bevanda socialista, così di svolta in svolta il corpo del partito rischia di cadere nel totale disorientamento. Un disorientamento che lo immobilizza anche di fronte a svolte corrette. E non è sicuramente questo il caso.

Ci viene detto che rispetto al passato l’Ulivo sarà influenzabile grazie alla stagione dei movimenti. Questa posizione ribalta completamente quella che dovrebbe essere l’ottica di un partito comunista. Il parlamento non è il fine della nostra azione, ma lo strumento. E’ la nostra tattica elettorale nei confronti del Governo che ci deve permettere di intervenire nei movimenti e non i movimenti che ci devono permettere di intervenire nel Governo. Una cosa è sicuramente vera: un eventuale Governo dell’Ulivo non sarà una ripetizione di quello passato quando la favola del governo amico spinse la curva degli scioperi verso il minimo storico dal 1945. Questa volta i lavoratori mostreranno una pazienza sicuramente inferiore verso un eventuale governo della Grande Alleanza Democratica. Il punto è se la nostra internità al governo favorirà o meno lo sviluppo di tali mobilitazioni ed il nostro invervento al loro interno

Nella realtà se accettiamo l’idea che l’Ulivo sia il calice amaro da bere per cacciare Berlusconi, questo calice dovremo buttarlo giù fino in fondo. Ad ogni minaccia di rompere la maggioranza, ci accuseranno di favorire il ritorno della destra. Il partito sarà così sottoposto ad una pressione dilaniante, rischiando da una parte un ritorno disastroso ad una posizione per cui non si è preparato (l’opposizione al Governo dell’Ulivo) o una permanenza al Governo che lo farebbe diventare una controparte agli occhi delle mobilitazioni che si svilupperanno contro il Governo stesso.

Per convincerci che “potremo uscire in qualsiasi momento” dal Governo con Prodi, si cita il caso della Giunta comunale a Genova e Regionale della Campania da cui siamo usciti. Ma questi esempi non dimostrano proprio il contrario di quello che si vorrebbe dimostrare? In Campania, di fronte alle lotte di Acerra, il partito non è stato visto come una sponda nella Giunta Regionale Bassolino, ma come interno ad una Giunta avversaria. Sotto la pressione delle mobilitazioni non si è prodotto alcun spostamento a sinistra della Giunta, ma una sua rottura con il ritorno frettoloso del partito all’opposizione.

La nostra posizione elettorale deve partire da un principio di fondo: l’unità dell’Ulivo non è un aiuto alla sconfitta di Berlusconi. Al contrario, depotenzia la lotta contro Berlusconi e prepara un ritorno di fiamma della destra stessa. Dando l’impressione ai lavoratori che esistano due coalizioni con un’identica politica di classe, l’Ulivo li spinge verso la passività e un disincanto sui quali marcia la destra. Durante i governi dell’Ulivo i partiti di sinistra persero 2 milioni e mezzo di voti: la Quercia 1 milione e mezzo, Prc e Comunisti italiani oltre 700mila. Per non parlare della crisi di iscritti e di militanza da cui alcuni di questi partiti non si sono ancora ripresi.

La resistenza irachena e la guerra in Iraq

L’alleanza con l’Ulivo non giocherà una pressione sull’organizzazione solo in termini elettorali, ma anche in termini ideologici. Trovandosi in una posizione scomoda, parte del partito rischia di cambiare i propri principi per giustificare l’alleanza piuttosto che rompere l’alleanza per difendere i propri principi. La cosa è ancora più preoccupante se il partito si trova già disarmato teoricamente da un processo di revisione ideologica interna che ormai travolge qualsiasi forma di pensiero scientifico in nome del “nuovo” e dell’ “innovazione”. Nel caso della guerra questo è più che mai evidente.

Di fronte alla guerra in Iraq la posizione maggioritaria nel partito e nei Giovani Comunisti ha sposato l’idea che sia in atto “una spirale guerra-terrorismo”. Un’espressione che si presta a diversi significati, ma tutti comunque sbagliati. Se si intende che il terrorismo causa la guerra, sappiamo che non è così. L’attacco all’Iraq è da tempo nei piani del capitalismo americano. Il terrorismo semmai ha fornito un pretesto.

Se invece intendiamo che la “coppia guerra-terrorismo sequestra monopolisticamente la violenza” per cui “la violenza in ogni sua variante risulta inefficace perché viene riassorbita dal terrorismo” (F. Bertinotti) questa concezione smette di essere sbagliata ed inizia a diventare pesantemente nociva. Di fronte a simile concezione come dovremmo classificare ciò che sta succedendo in Iraq? Quale diritto all’autodifesa ha il popolo iracheno se sono destinati ineluttabilmente a scadere nel terrorismo? Qualcuno dovrebbe andarli ad avvertire.

Tra la spirale guerra-terrorismo presente nella nostra testa e la realtà, i fatti hanno posto un terzo incomodo: la resistenza del popolo iracheno. Da mesi l’esercito occupante è impegnato in operazioni di guerra aperta: com’è possibile che questo sia il risultato dell’azione ben coordinata di qualche gruppo terrorista? Ci si vuole convincere che Bin Laden e Al Zarqawi, insieme a qualche brigata di fondamentalisti, tengono in scacco l’esercito più potente del mondo, con la forza combinata degli eserciti delle 12 successive potenze capitaliste?

La realtà è che ancora una volta l’imperialismo americano sta imparando una dura lezione: nessuna forza militare può sconfiggere una guerra di popolo ed è questo quello a cui stiamo assistendo in Iraq. Secondo la Cia sarebbero circa 100mila i militanti della resistenza. Negli ultimi mesi abbiamo visto moti insurrezionali in diverse città irachene tutt’oggi fuori dal controllo degli occupanti. Questo è l’elemento predominante in Iraq mentre gli sgozzamenti, gli ostaggi, l’azione di presunte cellule di Al Qaeda sono elementi di confusione e secondari su cui la propaganda nostrana punta i riflettori tutti i giorni. Elementi di confusione che, se non esistessero, per l’imperialismo andrebbero inventati.

Secondo un dirigente della resistenza irachena di Baghdad intervistato dalla Stampa “la resistenza non dà alcun valore all’elemento religioso o etnico ma punta sullo spirito nazionale e sull’orgoglio arabo (…) Noi siamo l’espressione di quell’Iraq laico, socialista, pan-arabo”. Nella stessa intervista continua: “non è mai accaduto che un elemento della resistenza decpitasse o sgozzasse prigionieri (…) quanto alle autobombe quelle piazzate da noi rappresentano forse il dieci per cento del totale e si dirigono verso basi americane”.

Noi non neghiamo che il fondamentalismo islamico possa avere un’influenza nella resistenza, ma questa sarà tanto più grande quanto i comunisti si manterranno in una posizione di neutralità. Elementi come Al Sadr giocano un ruolo non perché la lotta irachena sia destinata a cadere inevitabilmente nell’elemento religioso, ma solo perché i leader religiosi si pongono apparentemente senza tentennamenti dalla parte della resistenza.

Per dimostrare il rischio di una degenerazione di questo movimento, ci viene portato l’esempio del peso che col tempo Hamas ed il terrorismo hanno acquistato nella lotta palestinese, ma anche quest’esempio dimostra l’esatto contrario di quello che si vorrebbe. Hamas è arrivata a giocare il ruolo che gioca oggi non come sbocco naturale dell’Intifada, ma proprio per il tradimento dell’Intifada da parte dei dirigenti dell’Anp. Abbandonando il terreno dello sviluppo della resistenza di massa per imboccare la via delle conferenze diplomatiche e delle trattative, i vertici dell’Anp hanno lasciato la direzione di tale lotta proprio nelle braccia di Hamas.

Ironia della sorte, la “via diplomatica” è proprio quella che il nostro partito propone per uscire dalla situazione irachena. Nel documento della Grande Alleanza Democratica, firmato anche dal partito, si legge: “proponiamo che l’Italia si attivi per una conferenza internazionale con la partecipazione di tutte le parti interessate che garantisca uno svolgimento trasparente e democratico delle elezioni irachene (…) la sostituzione delle forze multinazionali chiaramente percepite come forze di pace”. Si tratta di una posizione di rinuncia al ritiro delle truppe straniere senza condizione, per coltivare l’illusione che una forza composta da vari paesi capitalisti possa giocare un ruolo rispetto all’attuale “coalizione dei volenterosi” di Bush.

Per i comunisti la politica imperialista non è qualcosa che nasce dalla mente malata di George Bush, ma una necessità economica del capitalismo stesso. L’idea che altri paesi capitalisti possano giocare un ruolo diverso da quello degli Usa è una pia illusione. Basta dare un occhio a quello che succede in Costa d’Avorio dove le truppe francesi sono impegnate in una vera e propria guerra sotto il mandato dell’Onu.

Infine vi è un equivoco da sciogliere. L’imperialismo non lavora per un Iraq laico. Non abbiamo la scelta tra un Iraq fondamentalista liberato dalla Resistenza ed uno occupato, ma laico, sotto l’egida delle truppe straniere (siano americane o sotto l’ombrello dell’Onu). L’imperialismo è sempre stato il principale motore di qualsiasi guerra religiosa o etnica sviluppatasi nel mondo. Gli Usa lavorano ad un Iraq separato, diviso su basi religiose e razziali. Ai compagni che si preoccupano, giustamente, di quale strada prenderebbe un Iraq liberato dalla resistenza, giriamo la questione: che cosa comporterebbe la vittoria delle truppe imperialiste? Non la democrazia, né laicità, ma un incubo simile a quello dell’Arabia Saudita e un duro monito per tutte le forze rivoluzionarie che nel mondo fronteggiano l’imperialismo.

L’allargamento delle basi di massa della lotta irachena non ha nel fondamentalismo il suo ineluttabile sbocco. Al contrario tanto più la resistenza si allarga, tanto più le questioni sociali (come la soluzione alla disoccupazione di massa) entreranno nella sua prospettiva. Questo è dimostrato dalla serie di scioperi avvenuti in Iraq, in particolare nel settore petrolifero, che rimangono purtroppo per la propaganda del nostro partito un libro chiuso con sette sigilli.

L’intervento nei luoghi di lavoro

La crisi generale del capitalismo si presenta in Italia sotto la forma particolarmente accentuata di un vero e proprio declino economico. Secondo uno studio della Cgil tra il gennaio e l’agosto di quest’anno ben 2.778 aziende hanno denunciato lo stato di crisi (l’anno scorso erano 1.400 circa) e sul totale delle aziende italiane il 28,53% ha fatto ricorso alla Cassa Integrazione nei primi sei mesi dell’anno. L’anno scorso nello stesso periodo erano il 10,59%. Oltre 154mila lavoratori sono stati in cassa integrazione nel 2004 e 250mila posti di lavoro sono in pericolo nei prossimi mesi. Le famiglie che vivono in uno stato di povertà relativa (meno di 850 Euro in due) sono state 2 milioni nel 2003. Si tratta di 7 milioni di individui. A questo vanno aggiunti 6 milioni di lavoratori che guadagnano meno di 1.000 Euro al mese, mentre in tutto 10 milioni non superano la soglia dei 1350 Euro.

Nelle aziende si è andato accumulando negli anni un clima di rabbia e di rivalsa che trova pochi paragoni nella storia. L’idea che “ci stanno spingendo a fare come negli anni ‘60” si fa strada con sempre maggiore rapidità nella testa di migliaia di lavoratori. Lo dimostra l’enorme simpatia ricevuta dalla lotta degli autoferrotranvieri e della Fiat di Melfi. Che cosa testimonia questa simpatia se non il desiderio implicito della classe di ripetere quelle lotte su scala più ampia? Ed è in effetti quello a cui potremmo assistere. Esistono tutte le condizioni perché lo scenario politico nei prossimi anni sia caratterizzato da un enorme risveglio di mobilitazioni operaie e lotte sindacali.

Non stiamo parlando di un processo lineare, che avanzerà allo stesso ritmo ed in tutti i posti di lavoro simultaneamente. Lo stato d’animo dei lavoratori non si sviluppa nel vuoto ma in una relazione continua con lo stato delle proprie organizzazioni. Come la valvola di una pentola a pressione permette al vapore di sfiatare, così le direzioni sindacali giocano un ruolo di costante disorientamento e dispersione del clima di rabbia presente nei luoghi di lavoro. Tuttavia ogni valvola ha i suoi limiti di scarico, e la pressione accumulata nei posti di lavoro sta rapidamente raggiungendo i limiti posti dalle burocrazie sindacali.

Il possibile scoppio di un movimento operaio di massa tuttavia non garantisce automaticamente né la vittoria né la fine dell’influenza della burocrazia sindacale. Come il fenomeno Cofferati ha dimostrato, quando la burocrazia sindacale comprende di non poter più fermare l’insorgere di una mobilitazione, la cavalca per poi disperderla. Il nostro compito fondamentale dovrebbe essere impedire un simile processo, lavorando perché i nostri compagni nei posti di lavoro sappiano diventare un punto di riferimento alternativo alle direzioni sindacali. Al contrario, il partito registra uno dei punti più bassi del proprio radicamento nei posti di lavoro e anche laddove è presente, decide di accodarsi ai momentanei spostamenti a sinistra delle diverse direzioni sindacali.

La questione del precariato e l’azione dei Giovani Comunisti

L’idea che la flessibilità potesse essere regolamentata e mantenuta all’interno di alcuni limiti, idea sostenuta in passato anche dal nostro partito con il Pacchetto Treu nel 1997, si è dimostrata falsa. Per quanto si provi a porre “paletti” e limiti alla flessibilità, quest’ultima è destinata a superarli. Quale lavoratore precario può chiedere il rispetto di alcuni miseri “paletti”, sapendo che da lì a poco tempo deve sottostare al ricatto del rinnovo contrattuale? E’ come usare l’aspirina contro il cancro. Proprio per questo la nostra rivendicazione non può essere altro che la completa abolizione di qualsiasi contratto precario e la trasformazione per legge di tutti i contratti in contratti a tempo indeterminato.

Tuttavia nel nostro dibattito non si tratta di ripetere quanto sia brutto e diffuso il precariato. Questo lo sappiamo e lo proviamo quotidianamente sulla nostra pelle. Il punto è capire come intervenire tra i lavoratori precari e soprattutto chiedersi dove in futuro potranno orientarsi le loro lotte. La realtà è che tutte le mobilitazioni significative di lavoratori precari fin qui scoppiate (dall’Atesia, fino alla Tim di Bologna) hanno dimostrato una tendenza inequivocabile da parte di tali lavoratori ad orientarsi e a muoversi con gli stessi strumenti del resto dei lavoratori: orientandosi, cioè, al sindacato e all’elezione di propri delegati sindacali.

Noi non neghiamo la possibilità, data la loro specificità, di creare momentanei comitati di lavoratori precari. Rifiutiamo tuttavia l’idea che l’intervento verso il precariato lo si affronti con la continua creazione di “reti”,“coordinamenti” che nel migliore dei casi rimangono sigle vuote e nel peggiore dei casi finiscono per organizzare i lavoratori precari più coscienti in maniera separata dal resto della classe. L’idea che il sindacato organizzi i lavoratori “garantiti” mentre la sinistra alternativa ed i centri sociali organizzino i giovani precari (ovviamente nel percorso della May Day Parade) è una forma di divisione del lavoro che forse piacerà alla burocrazia sindacale e forse agli stessi centri sociali, ma che non trova alcuna corrispondenza nella realtà.

L’intervento verso il lavoro precario non costituisce un terreno di intervento separato dal nostro intervento sindacale più generale. Non elimina il problema del radicamento nelle aziende, né della costruzione di un’opposizione nel sindacato, ma anzi li pone con ancora più forza. In un clima di rabbia cresente nei posti di lavoro quali enormi risultati avremmo raggiunto se vi avessimo investito tutte le energie che invece abbiamo speso nel progettare le azioni di Disobbedienza?

La lotta contro la Moratti

La riforma Moratti è l’ultimo capitolo di una storia di 20 anni di tagli all’istruzione pubblica e proprio perché è l’ultimo, è anche il più grave. Il diritto allo studio viene massacrato dalle elementari fino all’università. Mettendo sotto attacco tutti, la riforma Moratti può scatenare potenzialmente la mobilitazione di qualsiasi settore dell’istruzione pubblica: dai ricercatori universitari fino ai genitori delle elementari. Nella nostra azione in scuole ed università dobbiamo porre l’enfasi in particolare su due questioni: la continuità esistente tra la riforma Moratti e le precedenti riforme dell’istruzione (come l’Autonomia Scolastica) e la necessità di unificare la lotta dei diversi soggetti in campo con una piattaforma generale.

Lo sciopero generale della scuola del 15 novembre ha dimostrato di fatto le potenzialità di una simile unificazione, ma allo stesso tempo ha mostrato anche i limiti conferiti alla lotta dalla direzione della Cgil scuola. Lo sciopero ha visto un’adesione massiccia, con la media del 70% di astensioni dal lavoro. Proprio tale risultato, unito allo stato confusionale in cui si dimena la Moratti, dovrebbe incoraggiare a premere il piede sull’acceleratore. Al contrario, la direzione della Cgil non ha lasciato alcuna chiarezza su quale debba essere il seguito da dare alla lotta. Tali limiti non sono dovuti ad incapacità, ma alle contraddizioni che emergono dalla stessa linea della Cgil scuola. Tanto più si radicalizzerà il movimento contro la Moratti, tanto più andrà alla radice dei problemi attuali della scuola pubblica finendo non solo per cozzare contro la Moratti ma anche contro le sue fondamenta, costituite dall’Autonomia Scolastica approvata del centro sinistra. Fondamenta che né la direzione della Cgil scuola né i vertici dell’Ulivo hanno intenzione di rimuovere.

Finora il principale assente nella mobilitzione contro la Moratti sembra proprio il movimento studentesco. La pur discreta partecipazione ai recenti cortei rimane comunque lontana dai livelli di un vero e proprio movimento di massa. Le attuali debolezze del movimento studentesco non sono di carattere oggettivo ma di carattere soggettivo. Sono il risultato degli errori del recente passato delle principali strutture studentesche che hanno di fatto sfiancato il movimento studentesco con una serie di mobilitazioni sempre più spoliticizzate e prive di contenuti. Eppure siamo convinti che questo stato di cose possa rapidamente cambiare. Nelle scuole esiste una leva di nuovi attivisti, concentrati particolarmente tra gli studenti dei primi anni, in via di rapida politicizzazione sotto l’influenza degli avvenimenti politici internazionali e nazionali.

Il nostro compito è offire a questi studenti un punto di riferimento organizzato. Non si tratta di inventare chissà quale alchimia organizzativa per rilanciare il nostro intervento nelle scuole e negli atenei, ma di orientarsi alla costruzione di una struttura di collettivi e Comitati in difesa della Scuola Pubblica che difendano un programma di difesa del diritto allo studio e che lottino perché questa piattaforma si affermi all’interno delle mobilitazioni contro la Moratti. A nostro parere la piattaforma non può prescindere dai seguenti punti:

· Ritiro di qualsiasi taglio di spesa all’istruzione pubblica. Raddoppio dei finanziamenti destinati alla scuola e all’università pubblica. Chiediamo che il 7% del Pil venga speso per l’istruzione.

· Gratuità a tutti i livelli dell’istruzione. In una società basata su profonde diseguaglianze, l’unica garanzia di un accesso reale dei ceti meno abbienti all’istruzione è la sua totale gratuità: non solo dell’iscrizione a scuola, ma anche di tutto ciò che è necessario ad uno studente come libri, mezzi di trasporto, alloggi per gli studenti universitari fuori sede.

· Innalzamento dell’obbligo scolastico fino a 18 anni senza distinzione di percorso: a tutti deve essere data la possibilità di studiare le materie tecniche, scientifiche ed umanistiche. La specializzazione del proprio percorso deve avvenire con l’università

· Assunzione di tutti i lavoratori della scuola a tempo indeterminato, abolizione del precariato.

· Piano di assuzione di nuovi docenti, puntando a creare nuove classi in base al principio di un tetto massimo di 20 alunni per classe.

· Ritiro della riforma Moratti e di tutte le precedenti riforme scolastiche che le hanno spianato la strada, come la riforma Berlinguer per la scuola superiore e la Zecchino per l’università.

· Fuori i privati dalle scuole! No all’apprendistato e agli stage gratuiti presso le aziende, vere e proprie forme di sfruttamento non retribuite. Gli istituti devono essere attrezzati per insegnare a lavorare e anche laddove si ponesse l’assoluta necessità di far pratica direttamente in azienda, tale attività deve essere retribuita regolarmente e sotto il controllo delle rappresentanze sindacali e studentesche. No all’intromissione delle aziende nella determinazione della ricerca e dei corsi universitari.

Innovazione teorica o revisionismo?

Nessun insulto più grossolano può essere pronunciato contro la classe operaia che l’affermazione: le dispute teoriche sono affare esclusivo degli accademici. (…) solo quando scienza e operai, questi poli contrapposti della società, si unificheranno, soffocheranno tra le loro inflessibili braccia ogni difficoltà culturale. Tutto il potere del moderno movimento dei lavoratori poggia sulla conoscenza teorica” Rosa Luxemburg

La nostra convinzione è che il processo ideologico che nella nostra organizzazione va sotto il nome di “innovazione” o “sperimentazione” altro non sia che un processo di revisione ideologica delle stesse basi del marxismo. Dal nostro punto di vista non si tratta di cercare nelle idee di Marx o di Lenin una guida meccanica per la nostra azione quotidiana ma di comprendere come le principali contraddizioni e analisi svolte dal pensiero scientifico marxista sul funzionamento della società capitalista mantengano tutta la propria attualità.

Nel nostro dibattito viene ripetuta come un disco rotto la necessità di “’camminare domandando”. Se in effetti qualcuno che si avventuri per una strada nuova non si fermasse ogni tanto a domandare conferma della strada da percorrere sarebbe considerato piuttosto rigido e tonto. Ma sarebbe considerato altrettanto tonto chi lasciasse a casa tutte le mappe in suo possesso partendo dall’idea che tali mappe non possono spiegare ogni difficoltà che incontrerà sul proprio cammino. L’idea avanzata nel documento dei compagni del gruppo Iqbal Masiq che “riteniamo impossibile oggi più che mai produrre teorie astratte da applicare ad una realtà in trasformazione” non è solo una negazione del marxismo, è di fatto una negazione di qualsiasi pensiero scientifico il cui compito dovrebbe essere proprio trarre teorie generali dai fatti e provare tali teorie nello sviluppo stesso della realtà.

L’idea che il nostro dibattito si divida tra chi vuole la teoria e chi vuole la prassi è doppiamente falsa. In primo luogo non può esistere alcuna pratica separata dalla teoria. Anche la pretesa di non avere nessuna “teoria astratta”, nella realtà non è altro che la copertura di una vera e propria teoria politica non esplicitata. In secondo luogo i compagni sottoscrittori di questo documento non si sono limitati negli anni solo alle declamazioni teoriche: abbiamo sviluppato il lavoro sindacale in importanti aziende come la Direct Line, la St eletronics, l’Aci Global, l’Ups, abbiamo sviluppato il lavoro studentesco alla Statale di Milano con il Collettivo Pantera, siamo stati impegnati in importanti campagne di solidarietà internazionale come quella attorno alla questione venezuelana ecc.

La contraddizione principale che attraversa la società capitalista moderna rimane la stessa descritta da Marx: la contraddizione tra le enormi possibilità date dallo sviluppo delle forze produttive e la proprietà privata dei mezzi di produzione. Mentre la società viene unita sempre di più da un unico processo produttivo sociale e internazionale, la direzione di tale processo è diretto dalla sete di profitto di una cupola sempre più ristretta di capitalisti a livello internazionale. Ancora una volta l’alternativa è una sola: socialismo o barbarie. O la classe dei lavoratori dipendenti, riunendo attorno a sé tutti i settori sfruttati della società, sarà in grado di trasformare i mezzi di produzione in una proprietà di carattere sociale, con un’economia pianificata democraticamente in base ai bisogni della popolazione e alle necessità ambientali all’interno di una reale democrazia operaia, o l’umanità sarà ricacciata nel baratro della barbarie.

E’ questa la causa a cui siamo intenzionati a dedicare la nostra militanza. E sinceramente non comprendiamo cosa vogliano dire i compagni quando si scagliano contro “la militanza totale”. Se si sentono stressati dalla militanza politica o altro, non ci è dato saperlo. Sappiamo che la militanza politica, la conoscenza teorica, la lotta sindacale sono per ogni lavoratore, disoccupato e studente su questa terra l’unica speranza ad un incubo senza fine chiamato capitalismo. I proletari privi di organizzazione e di teoria sono solo massa grezza da sfruttamento: non uomini, ma bestie da soma.

Che cosa proponiamo?

1) Il Coordinamento che nascerà dalla Conferenza non deve rimanere una struttura centrale sospesa in aria. Dovrà coordinare e stimolare l’attività dei gruppi giovani nei circoli o in gruppi di circoli riuniti per zona. Per quanto ogni territorio abbia inevitabilmente le proprie attività specifiche, il numero risicato dei compagni deve spingerci a lanciare campagne politiche unificanti che vengano articolate dai gruppi giovani sul proprio territorio;

2) Individuare almeno una cinquantina di posti di lavoro, tra call center, supermercati e aziende, dove iniziare un lavoro sistematico di volantinaggio e radicamento. Un intervento che deve partire innanzitutto dai luoghi di lavoro dove abbiamo all’interno compagni, con cui va discusso pazientemente e con costanza come iniziare a tessere le fila di un intervento sindacale sul modello di ciò che è già stato fatto in posti di lavoro come la Direct Line;

3) All’interno del nostro orientamento verso le aziende, particolare cura dovrà essere data alla produzione di materiale sul precariato e di materiale in lingua per i lavoratori immigrati con l’obiettivo di intervenire nelle vertenze reali che questi settori della classe potranno sviluppare nei propri luoghi di lavoro;

4) Orientarsi a scuole e università con l’obiettivo di creare una struttura studentesca, composta da collettivi e Comitati in difesa della Scuola Pubblica, che ricerchi adesioni su basi programmatiche. All’interno di tale attività va coinvolto il rinato circolo universitario, strumento fondamentale per la nostra attività negli atenei;

5) Sviluppare una serie di campagne politiche su questioni internazionali. Fra tutti i temi che riteniamo prioritari attualmente sono la resistenza irachena e le esperienze rivoluzionarie che si stanno sviluppando in America Latina come ad esempio le esperienze di controllo operaio in Venezuela.

6) Dare vita ad un serio dibattito teorico al nostro interno che, in base al tempo e alle forze, affronti i seguenti temi che riteniamo ormai improrogabili al nostro interno: a) Le ragioni della degenerazione della rivoluzione russa b) la storia del movimento operaio italiano ed in particolare la storia della Resistenza (in vista del 60° anniversario) c) la questione dello Stato e della violenza nella teoria marxista d) l’economia marxista e il ruolo della classe operaia oggi

7) Impegnarci allo svolgimento di almeno 8 attivi di tutti gli iscritti nel corso dei prossimi 12 mesi e dotarci di un regolamento che preveda la convocazione di un attivo attraverso la raccolta di firme e un meccanismo di revocabilità da parte degli iscritti del Coordinamento eletto.

Sottoscrittori:
Sara Parlavecchia, Francesco Bavila, Samira Giulitti, Andrea Tavano, Tatiana Chignola, Dario Salvetti, Sara Cimarelli, Ivan Piacentini, Sergio Schneider, Mara Ghidorzi, Benny Abarnabel, Francesco Papa, Davide Bordini, Enrico Borella, Silvia Mazzeo.