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Dilaga l’arroganza degli Stati Uniti

Le sconvolgenti immagini del reportage di Rainews24 sull'uso di bombe al fosforo nell'attacco a Falluja da parte dell'Esercito Usa hanno riportato alla ribalta la tremenda realtà dell'occupazione dell'Iraq.

L'intervento imperialista ha portato orrori senza fine nel paese mediorientale, e non a caso l'interessantissimo servizio giornalistico non ha trovato spazio nella programmazione della tv pubblica.
Per chi volesse vederlo on line, o scaricarlo (del tutto gratuitamente) basta cliccare qui per accedere alla pagina di Rainews "Falluja, la strage nascosta".

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Abbiamo registrato il giubilo delle potenze occidentali per il voto favorevole alla Costituzione irachena. Una Costituzione che disintegra l’unità nazionale dell’Iraq, che sposta il conflitto da anti-Usa a interetnico, che permette a Bush di godersi lo spettacolo degli iracheni che si scannano fra di loro mentre le multinazionali si appropriano di tutte le loro ricchezze non può che essere salutata come una grande vittoria della democrazia. Ma il giubilo dura lo spazio di un giorno e i sogni più “rosei” devono fare i conti con la realtà. Le truppe Usa hanno avuto nel mese di ottobre il numero di vittime più alto dopo gennaio scorso (nel corso delle cosiddette elezioni democratiche), hanno ampiamente superato i 2.000 morti e hanno un nuovo fronte di guerra lungo il confine siriano.

La maggioranza di Sì (78%) a sostegno della “Costituzione americana” è in realtà una esigua minoranza. In Iraq ci sono 26 milioni di abitanti, di cui 19 hanno diritto di voto. In questa tornata elettorale si sono iscritti al registro dei votanti in 15 milioni, di questi hanno effettivamente votato ufficialmente 9 milioni, di cui circa 7 sempre secondo le stime ufficiali avrebbero votato Sì, ovvero il 36% degli aventi diritto al voto, una piccola minoranza appunto.

Questi semplici ragionamenti potrebbero essere sufficenti per descrivere una tornata elettorale in un contesto normale, che non è quello dell’Iraq.

Nel corso del mese di settembre e ottobre le truppe americane hanno avviato tre offensive nella provincia di Anbar, da Ramadi fino al confine siriano nel corso delle quali 8 dei 12 ponti sull’Eufrate sono stati distrutti. La scusa è quella di dare la caccia ai terroristi di Al Qaeda, la realtà è sfiancare una delle zone (a maggioranza sunnita) dove più forte è la resistenza contro l’occupazione e rendere impossibile qualsiasi movimento che non fosse sotto controllo delle truppe americane. Le battaglie di Tal Afar e Al Quaim hanno visto la “caccia al terrorista” casa per casa, veri e propri massacri, per lo più di donne e bambini. E possiamo solo imaginare cosa sia successo in queste città, basandoci su quanto sta emergendo dalle ricerche sulla strage di Falluja del novembre scorso: utilizzo di armi chimiche non convenzionali, napalm, fosforo bianco che hanno letteralmente carbonizzato l’intera città.

 Questa regione che aveva boicottato le elezioni del gennaio scorso ha visto un’affluenza al voto del 30%, definibile eroica, considerando le condizioni: vietato l’utilizzo delle auto per raggiungere i seggi che spesso erano chiusi perché le schede elettorali non arrivavano, per non parlare dei seggi aperti presidiati dall’esercito americano e controllati dai partiti favorevoli alla Costituzione i qu ali insultavano e maltrattavano coloro che erano per il No.

Nonostante tutto questo il governo ha dovuto impiegare 10 giorni per contare le schede e piegare il risultato ai suoi voleri. Per bloccare la Costituzione era necessario o una maggioranza di no, oppure che in tre regioni su diciotto il No raggiungesse i due terzi dei votanti. Nella regione di Anbar (con le città di Falluja e Ramadi) e Salaheddin (capitale Tikrit) i no hanno raggiunto rispettivamente il 96,9% e l’81,75%, nella regione di Mosul il governo ha dovuto ricontare le schede più volte e alla fine i no erano il 55%, mancavano 11 punti per raggiungere i due terzi.

Divide et impera

Non stupisce quindi l’aumento della violenza di queste settimane. Nonostante tutte le dichiarazioni sulla necessità di una exit strategy, le truppe americane sono aumentate da 138mila unità a 152mila e questo è inevitabile sulla base della politica del divide et impera promossa dagli americani.

L’obiettivo fondamentale degli occupanti non è più prendere il controllo dell’Iraq, perché si è rivelata un’impresa impossibile. L’obiettivo è dividere il paese e mettere le diverse etnie una contro l’altra, utilizzando a questo scopo qualsiasi mezzo. Ricordiamo la provocazione del settembre scorso in cui proprio poco dopo l’annuncio di un possibile accordo fra le milizie della resistenza sunnita e quelle sciite di Moqtada al-sadr, è stato orchestrato un attentato contro una manifestazione religiosa sciita dove hanno perso la vita almeno mille persone. Successivamente pare che gli sciiti moderati di Al Sistani siano riusciti nell’intento di orientare le milizie di al-Sadr su lidi più miti integrando lo stesso Moqtada nel partito moderato di Sistani; certo è che durante la campagna contro la Costituzione al-Sadr è stato silente, gli sviluppi futuri ci diranno se questa tregua si potrà mantenere.

Una cosa è certa: lo spauracchio che il governo fantoccio iracheno e gli Stati Uniti si sforzano di tenere in piedi per giustificare la loro esistenza, ovvero Al-Qaeda e il suo temibile condottiero al-Zarqawi, sono in forte difficoltà.

Queste forze non hanno giocato che un ruolo molto marginale in tutta la resistenza contro gli occupanti, ma nel momento in cui il centro fondamentale sul quale punta la resistenza per attrarre a sé il meglio del popolo iracheno è il tema dell’unità nazionale e la necessità di superare le divisioni etniche contro la libanizzazione dell’Iraq, la loro crisi è ancora maggiore. Pare si sia aperto uno scontro all’interno di al-Qaeda, perché la sua propaganda jihadista e i relativi attacchi anti sciiti fanno oggettivamente il gioco degli americani, il che non le permette di conquistare di grandi simpatie.

La Siria nel mirino

Tanto più la resistenza mostrerà la sua determinazione, la sua volontà di lotta, tanto più l’occupazione sarà ancora più feroce. Non è casuale il fronte di guerra sul confine siriano; secondo indiscrezioni del New York Times sono già in corso operazioni di guerra anche in territorio siriano. La Siria è rimasto l’unico paese nella zona a chiedere il ritiro israeliano dai territori occupati dal 1967, a combattere il terrorismo jihadista e a difendere il diritto delle popolazioni palestinese, irachena e libanese a resistere con le armi. Al di là delle pesanti ambiguità con le quali la Siria ha difeso questi diritti, resta il fatto che questo paese è una potenza nella zona, non prona agli Stati Uniti e alle potenze occidentali. Se Bush vuole spezzare la tenuta della resistenza irachena, è necessario aggredire anche la Siria. L’aggressione si sta sviluppando su più piani: militare, lungo il confine con l’Iraq, e diplomatico, coinvolgendo anche l’Onu, e in particolare la Francia per promuovere un’ampia compagna di isolamento internazionale, simile a quella tristemente nota delle armi di distruzione di massa contro Saddam Hussein.

Oggi l’accusa americana è che il governo siriano sarebbe direttamente coinvolto nell’assassinio dell’ex-primo ministro libanese Hariri il 14 febbraio scorso. Ovviamente la Siria respinge ogni addebito e, come da copione, dà la massima disponibilità a collaborare nell’inchiesta internazionale. Non è questa la sede per una disamina della vicenda libanese peraltro alquanto complicata, basti dire che con la morte di Hariri è finita l’occupazione siriana del Libano dopo 29 anni e che si sono rafforzate nel paese le tendenze filoamericane, tanto che dopo trent’anni sono riprese le operazioni militari libanesi contro i campi palestinesi nel sud del Libano, accendendo le paure di tutto il popolo libanese di una ripresa della guerra civile. Questi pochi elementi danno qualche spunto di riflessione sull’interesse della Siria ad avviare un processo del genere, visto che nei fatti gli si sarebbe rivoltato contro.

Al centro di questa vicenda invece c’è un governo debole, quello siriano, che sta parzialmente cedendo alle richieste del Fondo monetario internazionale e degli Usa sul terreno delle privatizzazioni e delle relazioni con le multinazionali occidentali. Ma questo non è sufficiente e nel contesto attuale l’arrendevolezza chiama l’aggressività. Gli Usa hanno messo sotto accusa il capo dei servizi segreti militari siriano e di fatto lavorano per destabilizzare il paese e imporre anche qui un governo fantoccio. Per il momento l’Onu ha votato una risoluzione dove non ci sono minacce all’uso della forza come nel caso iracheno, ma è chiaro che si sono aperte le danze.

Se diamo uno sguardo al resto del Medioriente colpisce il fallimento del poliziotto americano. Il conflitto israelo-palestinese, per quanto la stampa ci indori la situazione con la farsa del ritiro da Gaza, vede la ripresa dei bombardamenti sulla Striscia che non avvenivano dal ’73 e un aumento del 15% degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania, l’abbandono di ogni progetto di unificare i due territori e una crisi verticale dell’Anp; il governo iraniano che a tre mesi dal suo insediamento ha già dovuto rinnovare metà dei ministri a causa della crisi verticale economica e sociale ed é costretto a lanciarsi in una propaganda demagogica, nazionalista e antisionista per trovare una minimo di consensi popolari; a queste punte avanzate di crisi si aggiungono l’Arabia Saudita e l’Egitto che si appresta a tenere elezioni politiche “libere” in un clima di crescente scontro interno.

La Pax americana affonda nel sangue che essa stessa sparge a piene mani.

15 novembre 2005.

 

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