Bush e la minaccia di guerra all’Iran - Falcemartello

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Bush e la minaccia di guerra all’Iran

L'instabilità nella regione mediorientale è in continua crescita. Bush con l'invasione dell'Iraq non ha risolto nessuno dei problemi dell'imperialismo nel Miedioriente, anzi ha gettato benzina sul fuoco, come vediamo nelle ultime settimane in Libano. Ospitiamo questo contributo di M.Razi sulle implicazioni della politica di Washington nei confronti dell'Iran.

M.Razi è uno dei dirigenti della Lega Socialista Rivoluzionaria dell'Iran, un'organizzazione marxista costruita da lavoratori e giovani che sono attivi nel paese dagli anni settanta. Hanno partecipato alla rivoluzione del 1979, resistito alla repressione attuata dai mullah negli anni ottanta ed ora si preparano ad intervenire nelle mobilitazioni che inevitabilmente sconvolgeranno da cima a fondo il paese nel prossimo periodo.

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Nel recente discorso sullo Stato dell’Unione, alla presenza di entrambi i rami del parlamento USA, il presidente Bush, nell’esporre le sue idee in politica estera ed interna, ha accusato il governo iraniano di sponsorizzare il terrorismo e di negare ogni libertà al popolo iraniano.

Nel passaggio dedicato ai progressi della democrazia e della stabilità politica nel Medioriente, Bush ha affermato: “Oggi l’Iran è il principale sponsor del terrorismo internazionale, cerca in tutti i modi di ottenere la bomba atomica e, allo stesso tempo, priva il suo popolo della libertà che questo chiede a gran voce e merita”.

Ha poi aggiunto: “stiamo lavorando di comune accordo con i nostri alleati europei perchè si riesca a convincere il governo iraniano ad abbandonare i suoi programmi nucleari di arricchimento dell’uranio, di rigenerazione del plutonio, e perché cessi definitivamente di sostenere il terrorismo”.

Infine, rivolgendosi al popolo iraniano: “ed a voi, popolo iraniano, dico oggi: nella lotta per la vostra libertà, l’America lotta la vostro fianco”.

Non c’è nulla di nuovo nel discorso di Bush. Tre anni fa, in un altro famoso discorso sullo Stato dell’Unione, parlò dell’“asse del male”composto da Iran, Iraq e Nord Corea, i cui governi, diceva Bush, mettono a rischio il mondo intero minacciando la pace e la stabilità e foraggiando il terrorismo. Poco dopo attaccò l’Iraq, installando un altro regime, a lui più consono, al posto di quello di Saddam. Il mese scorso, infine, il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato che non è da escludersi l’eventualità di un intervento militare per fermare i programmi nucleari iraniani, che secondo lui sono segretamente finalizzati alla produzione della bomba atomica.

Ora, prima di determinare se Bush stia preparando o meno un attacco contro l’Iran (simile a quello contro l’Iraq), cerchiamo di capire i reali motivi delle spregiudicate dichiarazioni del governo americano.

 

I veri motivi della retorica guerrafondaia di Bush

Contrariamente a quanto argomentato nel fiume di retorica di Bush, il motivo principale per l’offensiva contro l’Iraq (e lo stesso sarebbe, eventualmente, per l’Iran) non è certo l’“esportazione” di “democrazia” e libertà! Che tipo di democrazia abbiano in mente l’abbiamo ben visto in questi mesi! Uno dei motivi principali per l’intervento americano sul suolo iracheno (ed eventualmente quello iraniano) è l’accesso alle risorse petrolifere di questi paesi. I grandi petrolieri americani, Esso, texano, Halliburton (dalla quale il vice presidente Dick Cheney riceve 600.000 dollari l’anno) hanno grandemente beneficiato dall’azione militare, ed aumenteranno i loro profitti ancor per molti anni. Tuttavia, il petrolio non è l’unica ragione. Il motivo profondo dell’invasione dell’Iraq è da ricercarsi nella profonda crisi economica del sistema imperialista americano.

Dopo un boom decennale, l’economia americana è entrata in crisi nella primavera del 2000 (18 mesi prima dell’attacco alle Twin Towers). La crisi economica si manifestò principalmente nel calo continuato dell’indice NASDAQ, un indice di borsa che comprende numerose imprese specialmente del settore informatico, ma anche l’altro principale indice, il Dow Jones Industrial Average, fu colpito dalla crisi. All’inizio del 2001, il NASDAQ aveva bruciato 3.000 miliardi di dollari, oggi siamo a circa 4.000. Moltissimi azionisti hanno visto azzerati i loro vasti capitali azionari. Il riflesso nell’industria è stato il crollo della produzione e la conseguente, senza precedenti emorragia di posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione tra gennaio e settembre 2001, passò dal 3 al 5%. In solo due anni di presidenza Bush, due milioni di persone persero il lavoro, ritornando a livelli di disoccupazione mai visti nei vent’anni precedenti.

In questi ultimi tempi stiamo assistendo alla fine dell’“età dell’oro” delle politiche “neo-liberiste” iniziate da Reagan e proseguite dal Bush padre, rafforzate dal crollo dell’Unione Sovietica. Lo scatenarsi della crisi scompaginò tutti i piani di medio-lungo termine del governo statunitense. Così, nel periodo immediatamente precedente l’11settembre, gli strateghi delle classi dominanti americane cominciarono ad interrogarsi attorno alle “nuove” politiche da proporre per sconfiggere questa nuova, e pesante, crisi economica. Alla fine, in queste politiche non c’era proprio niente di nuovo, si tratta piuttosto delle stesse idee portate avanti negli ultimi vent’anni, con più forza dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, dalle élite dirigenti gli USA, che contenevano già il succo di quella che oggi si definisce “dottrina Bush”.

I ‘neocons’, altrimenti detti i “falchi”, che oggi ricoprono tutti i ruoli dirigenti nell’amministrazione Bush vanno ripetendo da almeno dieci anni che, in un contesto in cui la Guerra fredda è finita e l’Unione Sovietica non c’è più, per evitare il riproporsi di crisi economiche importanti, come delle nuove “grandi depressioni”, gli USA debbono affrontare le questioni internazionali unilateralmente. I principali paladini di queste idee sono gente come Paul Wolfowitz (il principale artefice delle politiche di Washington, vice di Donald Rumsfeld), Richard Cheney (il vicepresidente USA), Donald Rumsfeld (il ministro della difesa), Richard Perle (il principale consigliere di Bush), Condoleezza Rice (il ministro degli esteri). Questa cricca di politicanti si confronta con un altro gruppo di potere in seno all’amministrazione Bush, le cosiddette “colombe”, che invece sostengono un approccio più moderato e multilaterale alle questioni internazionali.

Il punto di vista dei “falchi” è proposto sin dal 1991. Cheney, ad esempio, già ministro della difesa ai tempi di Bush padre, in un discorso alla commissione difesa del Senato Americani il 21 febbraio 1991, il giorno in cui iniziarono le operazioni militari della prima guerra del golfo, disse: “Questa guerra è un esempio degli scontri che saremo costretti ad affrontare negli anni a venire (…) Oltre al sud-est asiatico, abbiamo interessi importanti in Europa, in Asia, nel Pacifico e in America centrale e meridionale. E’ nostro dovere organizzare le nostre politiche, e le nostre forze, in modo che in futuro potremo essere in grado di prevenire l’insorgere di qualsiasi pericolo regionale o di schiacciarli rapidamente”. (Ritradotto da una traduzione in farsi).

Sebbene al tempo in cui questo punto di vista veniva proposto gli indicatori economici non mostravano grossi segni di crisi, con l’esplodere di quest’ultima, verso la fine degli anni ’90, le idee dei neoconservatori si sono molto rafforzate. Nel 2000 George W. Bush fu eletto con una manifesta frode elettorale, proprio perché si portassero avanti proprio queste idee. I fatti dell’11 settembre 2001 furono una tragica manna per l’amministrazione USA, cui consentirono di mettere in pratica in grande stile tutto quello di cui andavano discettando da un decennio.

Subito dopo quella data, le posizioni che oggi sono dottrina ufficiale del governo USA furono proposte in un documento del governo: La strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America. A grandi linee, i punti strategici posti dal governo USA sono:

1- Gestire adeguatamente ed assicurare la continuità dell’assoluta superiorità militare degli USA, in quanto unica superpotenza militare mondiale.

2- Assicurare in ogni momento la capacità di scatenare attacchi militari “preventivi” contro qualunque paese che si ritiene possa mettere in pericolo la sicurezza nazionale o gli interessi degli USA.

3- I cittadini americani che operano all’estero siano esenti da qualsiasi forma di indagine penale internazionale. (Ritradotto da una traduzione in farsi).

L’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq sono l’innesco di questo piano su scala mondiale, al cui svolgersi è connessa la minaccia di un eventuale attacco all’Iran.

La percentuale del bilancio statale destinato alle spese militari dal governo USA è aumentato di 160 milioni di dollari: dai 75 milioni richiesti il 25 marzo 2003 si è arrivati oggi a 360, e molto probabilmente continueranno a salire dopo la rielezione di Bush. Va da sé che, nel contempo, il complesso militar-industriale è pesantemente coinvolto nello sfruttamento di questo fiume di soldi: imprese come Northrop, Lockheed, General Dynamics e Boeing, stanno tutte potentemente incrementando le loro produzioni militari.

 

E’ imminente un attacco militare contro l’Iran?

Sebbene la tendenza istintiva del governo Bush sia verso la minaccia ed agli attacchi militari, contrariamente alle tendenze borghesi e piccolo-borghesi dell’opposizione iraniana che conta i giorni dall’insurrezione del ’79 a quando gli USA invieranno truppe per sostituire il regime dei mullah con un altro filo-occidentale, il governo USA ha sempre preferito stipulare qualche forma di accordo con il regime clerical-capitalista iraniano.

I monarchici ed i seguaci di Reza Pahlavi [il figlio dello Scià] non hanno sufficiente credibilità politica nel paese (sebbene facciano del gran chiasso sulla loro sedicente conversione socialdemocratica e sulla ricerca di convergenze con le altre correnti d’opposizione) per poter pensare ad un ritorno al potere. Il marchio d’infamia di appartenenti alle forze armate reali, della SAVAK (la polizia segreta dello Scià), di delinquenti veri e propri (quali mercenari nel colpo di stato del ‘53) è stampato a fuoco sulle loro storie politiche. I mujaheddin, che non sono mai stati una credibile alternativa per la borghesia, hanno scommesso sull’appoggio al regime di Saddam, ed hanno perso. I riformisti, infine, si sono rivelati inconsistenti, privi di reale forza politica e di capacità. Dunque, sebbene il governo statunitense tenga in considerazione tutte le suddette ipotesi per un’eventuale alternativa, alla fine, la cosa più probabile è che trovi una qualche forma di compromesso con il regime stesso.

Per tentare di spostare i rapporti di forza a suo favore, l’imperialismo utilizzerà tutti gli strumenti a sua disposizione, come è ovvio. Userà sia il moderatismo dei paesi europei, in primo luogo Francia, Germania e Gran Bretagna, sia i metodi più spicci e le minacce di uso della forza da parte di Bush. Non ci sono grosse differenze tra USA ed Europa, infatti, sulla questione iraniana, e se pure esistono sono sottigliezze di natura tattica, minore. Il recente viaggio della Rice in Europa sta a testimoniarlo. Entrambi i metodi hanno l’obiettivo di mettere l’Iran con le spalle al muro. Bush, nel suo discorso al congresso, ha sostenuto tra l’altro che, sebbene il suo governo giudichi inaccettabili le strutture e le idee politiche della Repubblica Islamica, non è disposto a precludere ogni canale diplomatico ai paesi europei per tentare di sistemare alcune questioni importanti, quali il programma nucleare e la questione dei diritti umani. Evidentemente gli USA non vogliono inasprire ulteriormente il dissidio con l’Europa, né perderne il sostegno su tutta una serie di questioni internazionali prossime venture, tra cui, appunto, quella iraniana.

La reazione dell’establishment della Repubblica Islamica, fatte salve le “proteste” e le “resistenze” di facciata, ha avuto un significativo mutamento. Fino a tre anni fa quando Bush includeva l’Iran nell’“asse del male”, il capo del Consiglio dei Guardiani, Ahmad Janati, definiva il discorso di Bush “stucchevole”, paragonando il presidente americano ad un “povero pazzo che non ha idea di cosa fare per il bene del suo paese” mentre il leader supremo, Khamenei ne parlava come di un “assetato di sangue umano”. Khatami, infine riteneva le sue parole “disgustosamente offensive”. Oggi, invece, il regime non ha avuto alcuna reazione ostile. Al contrario, Hossein Mousavian, membro dello staff diplomatico incaricato del negoziato con gli europei, in un’intervista al Financial Times (3 febbraio 2005), lamentando l’eccessiva lentezza con la quale i negoziati si svolgono, ha dichiarato che vedrebbe di buon grado la partecipazione aggiunta degli USA! Questa volta i dirigenti del regime iraniano hanno valutato solo come “inesatte” le valutazioni del Presidente americano sul programma nucleare iraniano. Tale morbidezza nei toni indica chiaramente la sottomissione all’imperialismo da parte della Repubblica Islamica. Le preoccupazioni dei dirigenti si concentreranno ora principalmente sul quanto e come ottenere il massimo dei benefici e delle concessioni da una trattativa con Washington.

D’altro canto, Condoleeza Rice in un’intervista il giorno seguente, ha escluso che l’attacco militare all’Iran sia sull’agenda del governo americano, aggiungendo che sono ancora molti i canali diplomatici da esplorare per cercare di risolvere la questione del programma nucleare. In altre parole, finché il regime iraniano continuerà a mantenere questo basso profilo rispetto ai dettami imperialisti, il governo americano non avrà alcun problema col regime, dimenticando, ovviamente, come questo sia uno dei più dispotici del mondo.

Inoltre, alla luce del disastro dell’avventura irachena, i rapporti di forze militari non consentono al governo Usa di sferrare un ulteriore attacco. Contro ogni sua aspettativa infatti Bush sarà costretto a rimanere ancora a lungo in Iraq e pertanto non avrà alcuna chance di poter attaccare anche l’Iran nello stesso momento.

 

Il “terrorismo” ed il governo Bush

Sempre nel recente discorso sulla stato dell’unione, Bush si è dipinto quale campione della libertà e della democrazia, dichiarandosi nemico implacabile del terrorismo. Ha dimenticato di dire, però, che proprio il suo paese regna in cima alla lista degli stati terroristi: anche applicando le loro stesse definizioni di “terrorismo” e di “stato canaglia” viene fuori che gli USA sono i peggiori terroristi del pianeta. 

Forse che Saddam e Bin Laden non sono stati sul libro paga della CIA? Forse che gli stessi che oggi rivolgono le armi contro gli americani non sono gli stessi utilizzati nella persecuzione del popolo curdo e contro l’Urss in Afghanistan, armati dagli americani? Il governo Khatami non era forse sostenuto dagli USA fino a qualche anno fa in quanto “moderato” e riformista? E Jack Straw, il ministro degli esteri britannico, non si è recato in Iran recentemente per prendere accordi sottobanco con il regime? E come mai, ancora, Saddam Hussein, fino a quando non ha disobbedito agli americani ne era considerato uno dei migliori alleati? Forse che gli orrori da questi perpetrati contro il popolo curdo erano meno terribili dell’invasione al Kuwait? E come mai gli Usa non dissero niente sull’utilizzo delle armi chimiche contro i curdi? E perché di fronte all’eliminazione sistematiche degli oppositori politici, dei lavoratori e degli studenti più combattivi, il governo USA non ha considerato terrorista il governo Khatami? Forse perché la definizione di terrorismo è elastica a seconda dei voleri di Bush? E lui stesso non si è reso responsabile di decine di condanne a morte quando era governatore del Texas? Perché Bush non racconta quale è stato il ruolo della CIA nei colpi di stato contro Mossadeq nel ’53, contro Allende nel ’73, ed in tutte le altre tragedie in cui la CIA si è resa responsabile dell’assassinio delle menti più capaci nel nostro mondo?

La radice di queste contraddizioni è ben piantata nella natura intrinsecamente terrorista del governo americano. Se si volesse davvero cancellare il terrorismo dalla faccia della terra se ne dovrebbe prima eliminare il suo principale artefice. Fin quando una vera democrazia non si esisterà in tutto il mondo, ed il “dèmone” del terrorismo resterà in piedi, il suo vero “asse del male” continuerà a riprodursi, nonostante qua e là qualche tiranno sia deposto.

 

La svolta del regime iraniano e la condizione del movimento operaio in Iran

Subito dopo l’invasione dell’Iraq, l’ala più autoritaria del regime iraniano ha compiuto una svolta radicale nelle sue relazioni con gli USA, una svolta il cui campione è l’ex presidente Rafsanjani. Nel primo numero successivo all’invasione dell’Iraq, il periodico Rahbord, edito dal Centro per gli Studi Strategici, un organismo emanazione del Consiglio del Discernimento [organo costituzionale che dirime le controversie tra parlamento e Consiglio dei Guardiani. Rafsanjani ne è presidente, Ndt], ha pubblicato 24 pagine d’intervista ad Ali-Akbar Hashemi Rafsanjani. Il tema era quello del ruolo del Consiglio del Discernimento nella soluzione delle controversie tra Iran e Stati Uniti. Nell’intervista, Rafsanjani dice: “in quanto musulmani non abbiamo alcun pregiudizio nella soluzione di questi contrasti di politica estera… abbiamo un principio nell’islam che suggerisce la priorità del discernimento della forza su quello della debolezza… il principio in base al quale questo Consiglio è stato formato è esattamente questo…”. Inoltre, riferendosi al punto di vista di Khomeini che sosteneva come si potesse ben smettere di pregare e digiunare se questo serviva al mantenimento del sistema, ha aggiunto: “mettere in pericolo l’integrità del nostro paese pretendendo di comportarsi coerentemente con l’islam, non è coerente con l’islam”. Rafsanjani prosegue dicendo che, in passato, a causa dell’inesperienza dei suoi funzionari, lo staff diplomatico iraniano ha perso molte occasioni: oggi, invece, la qualità del personale è tale da consentire all’Iran un attenta comprensione delle questioni in essere, ed una corretta valutazione delle alternative!

Deduciamo, dunque, che il nuovo corso della destra iraniana è già cominciato, ed ha l’obiettivo primario di mantenere la fiducia dei governi occidentali. Va da sé, infatti, che perché i governi imperialisti investano, vengano a saccheggiare le risorse petrolifere, a sfruttare la forza lavoro, non è rilevante quale delle cricche politiche sia al potere: quello che gli preme è che i loro interessi siano ben tutelati, ed in questo momento la destra si sta candidando a svolgere questo ruolo.

In tutto questo, il movimento operaio iraniano sta entrando in una nuova fase della sua vita politica. Oggi il primo punto sull’agenda economica della classe dominante iraniana è la creazione di uno stato capitalista “moderno”, che rispetti i dettami delle banche internazionali e le compatibilità del capitalismo, in modo da consentire il mantenimento del flusso d’investimenti esteri nel paese. Nel prossimo periodo, il capitalismo internazionale, importando componenti, tecnici, tecnocrati, manager, penetrerà definitivamente il terreno “vergine” della scena economica iraniana.

Il lancio dell’industria a pieno regime porterà con sè una maggiore domanda di forza lavoro e su basi molto più stabili che in passato. Un simile aumento dell’occupazione farà diminuire l’incertezza e l’insicurezza da parte dei lavoratori rispetto al posto di lavoro mentre farà aumentare la fiducia dei lavoratori stessi nei propri mezzi. Un capitalismo rifondato e moderno, in un paese che per lunghi anni è stato arretrato per tutta una serie di ragioni, quali la guerra Iran-Iraq, la repressione, le politiche economiche sbagliate, porterà ad un significativo aumento dell’intensità di lavoro, per recuperare il tempo perso. Macchinari ultramoderni, manager che sanno il loro mestiere, direttive economiche razionali faranno aumentare moltissimo l’intensità di lavoro richiesta a tutti i lavoratori, così condannati ad altissimi, e continuati, livelli di sfruttamento. La combinazione di questi fattori con la nuova coscienza di sé segnerà il passaggio ad una nuova fase delle lotte operaie.

Per la prima volta in vent’anni di capitalismo, le contraddizioni tra lavoro e capitale sono ben più evidenti e definite che in passato. In più cambierà completamente il modo stesso di relazionarsi tra capitalisti e lavoratori. Infatti, se in passato il regime poteva contare su una legislazione del lavoro sostanzialmente medievale, insieme alla pura e semplice repressione dei lavoratori, nel prossimo futuro dovrà necessariamente adottare una nuova cornice legislativa, più o meno in linea con gli standard internazionali. Questo sarà sostanzialmente necessario per mantenere in piedi proprio quegli alti livelli di sfruttamento che il capitale internazionale vorrà garantito, proprio attraverso la definizione di regole e strutture che siano accettabili a livello internazionale.

Naturalmente, in questo contesto anche i lavoratori entreranno in una nuova fase di lotta contro il capitale, e lo spostamento dei rapporti di forza in favore della classe lavoratrice è quanto si sta vedendo, a partire dalle lotte del Primo Maggio 2004. la rivendicazione centrale dei lavoratori iraniani oggi è quella di avere delle organizzazioni indipendenti dal regime. Purtroppo queste non cadono dal cielo, né dagli uffici dell’ILO [agenzia ONU per il lavoro; si occupa, tra l’altro di fondare sindacati gialli in giro per il mondo, Ndt]. Nel caso in cui, infatti, fossero creati con lo zampino dell’ILO sarebbero senz’altro radicalmente contrari alle rivendicazioni più elementari, quali il diritto di sciopero, il controllo operaio sulle proprie organizzazioni, la scala mobile e quant’altro. Organizzazioni indipendenti possono essere create solo dai lavoratori stessi. Il primo punto all’ordine del giorno, dunque, è quello di prepararsi perché queste organizzazioni siano coscienti della propria forza ed organizzate in perfetta autonomia dai poteri costituiti, e questo non potrà ottenersi se non attraverso la partecipazione diretta da parte dei lavoratori sulla scena politica.

Il nostro compito principale è intervenire efficacemente nel movimento operaio affinché si definisca un programma d’azione attorno a rivendicazioni democratiche, sindacali, di transizione verso il socialismo. I lavoratori ed i giovani allo stesso tempo dovranno porre i loro rappresentanti in grado di parlare a tutta la società, ed attorno a questi, articolare e presentare il loro programma alla società.

5 febbraio 2005

Traduzione dell’editoriale della rivista marxista iraniana Kargar-e Socialist (Il lavoratore socialista) No. 143