Di recente è uscito un libro che si pone come la summa programmatico-teorica delle tesi della maggioranza del PRC. Si tratta di un tentativo coraggioso di dare un fondamento organico alle proposte politiche bertinottiane. Risulta dunque utile esaminare con attenzione questo testo, per fare emergere i punti critici rispetto a queste posizioni.
Va dato atto al compagno Ricci del notevole sforzo di ricerca posto nel mettere assieme i temi fondamentali del dibattito politico-economico di oggi. E diciamo anche subito che il libro risulta estremamente efficace nel descrivere la situazione dei lavoratori e dei ceti popolari, che negli ultimi decenni è drammaticamente peggiorata, con la complicità e spesso l’attiva partecipazione dei dirigenti di “sinistra” e dei sindacati. Ma occorre anche osservare il suo punto debole decisivo, che lo accomuna alle famose 15 tesi di Bertinotti: non è chiaro quale sia l’“alternativa di società” che questi compagni hanno in mente. In tutto il libro, evidentemente di proposito, su questa questione si glissa, non chiarendo mai se sia possibile una “alternativa” all’interno del capitalismo o se invece questo sistema vada rovesciato per aprire la strada a un altro mondo che diciamo tutti essere possibile e necessario. Da questa confusione discende l’equiparazione, storicamente falsa, di neoliberismo e guerra e, soprattutto il completo disinteresse per l’analisi dei riflessi che un determinato programma ha sulle classi che sono chiamate a giudicarlo. La ricchezza dello sforzo e l’esatta descrizione dei problemi che il movimento operaio si trova oggi ad affrontare, punti chiave dell’opera, non si meritavano questa confusione paralizzante, che impedisce, alla fine, l’individuazione di un quadro progettuale unitario entro cui inserire, come si dice di voler fare, le proposte per una politica economica di sinistra, insomma un programma di transizione.
Premessa: lo scopo di questo libro
Il neoliberismo è in crisi. È in crisi la sua dimensione internazionale, con l’impasse sempre più grave del WTO, ormai ridotta a guscio vuoto. È in crisi in Europa, dove la sua incarnazione istituzionale, Maastricht, costringe il continente alla stasi economica e alla esplosiva crescita dell’ingiustizia sociale. È ancor più in crisi in Italia, per via delle caratteristiche strutturali della sua economia, su cui poi torneremo. Di fronte a questa situazione, i “riformisti” invocano come cani di Pavlov di fronte alla campanella concertativa, la politica dei due tempi: ora i sacrifici domani la ricompensa. Che siano 25 anni che il secondo tempo non arriva non sembra preoccuparli. Questi finti ingenui non si avvedono che la politica del rigore è un atto unico che prevede solo tagli, tagli e ancora tagli. Che bisogna fare allora? “Ciò che occorre, nell’Italia di oggi, è invece una rottura, un salto, una discontinuità rispetto all’evoluzione storica dell’organizzazione economica e sociale” (p. XIII). Ossia una rivoluzione sociale? Non è certo, considerato che la premessa del libro si chiude osservando che lo scopo dell’opera è esporre “proposte per cambiare in meglio il mondo in cui viviamo” (p. XIV), un progetto ben compatibile con la sopravvivenza del capitalismo.
Seattle, WTO e il movimento dei movimenti
Come il FMI e la Banca Mondiale sono state le principali armi con cui l’imperialismo ha tirato le fila dell’ordine economico internazionale nel dopoguerra, così negli ultimi anni è emerso il ruolo del WTO, il cui scopo è distruggere ogni difesa da parte delle masse di diseredati del “sud del mondo” di fronte ai diktat delle multinazionali. Ma sebbene l’atteggiamento delle corporations sia più prepotente che mai, le condizioni che pretendono di dettare sono talmente brutali che hanno dato adito a una reazione. La V conferenza dell’organismo, svoltasi nel 2003 a Cancun in Messico, ha segnato lo sprofondamento del WTO in uno stato di crisi, di cui nessuno può prevedere la fine.
Dietro allo strapotere del WTO l’autore vede, correttamente, la crescita impetuosa delle interdipendenze economiche tra aree e paesi, quella che Marx chiamava la divisione internazionale del lavoro, che, secondo Ricci, andrebbero oltre la categoria classica dell’imperialismo. Non vi è dubbio che il peso del commercio internazionale sia più rilevante che mai nella storia del capitalismo. Si pensi che nella seconda metà del XX secolo il valore delle esportazioni mondiali è aumentato di 60 volte, quello della produzione solo di 6. Ma che cosa c’è di qualitativamente nuovo in questa globalizzazione rispetto all’imperialismo analizzato, ad esempio, da Lenin e Rosa Luxemburg? Non basta citare la composizione settoriale dell’export per dimostrare tale novità. L’imperialismo non si denota infatti per l’esportazione di materie prime piuttosto che di prodotti industriali, ma per la subordinazione del mondo coloniale (o post-coloniale) alle potenze dominanti sulla base dello scambio diseguale determinato da una maggiore produttività. Forse che lo scambio diseguale non domina più l’economia mondiale? Diremmo al contrario che non l’ha mai tenuta sotto più stretto controllo come ora.
Il libro di Andrea Ricci
Le conseguenze di questa globalizzazione, nota l’autore, sono state nefaste. Nel corso degli anni ’90 in 52 paesi il reddito pro capite è diminuito rispetto al decennio precedente. La divaricazione dei redditi e della ricchezza tra ricchi e poveri è esplosa ovunque, tra paesi, all’interno dei paesi, anche quelli occidentali. Ci sono due miliardi e ottocento milioni di persone al mondo che non vivono ma sopravvivono in attesa di essere spazzati via da una guerra, da una malattia guaribile, o come abbiamo visto poche settimane fa, da una catastrofe naturale annunciata. La liberalizzazione imposta dal WTO ha significato grassi profitti per le grandi aziende, un oceano di miseria e devastazione sociale per interi continenti. Si è dimostrato ancora una volta come la pretesa teorica che il mercato allochi efficientemente le risorse sia tragica ancor prima che comica. Si pensi alla produzione di farmaci. La spesa per produrre vaccini contro le malattie che distruggono interi paesi sono del tutto neglette, in quanto queste medicine non produrrebbero sufficienti profitti. Non solo, ma quando un farmaco viene creato, il monopolio sulla sua commercializzazione garantisce lauti guadagni alla azienda e la sicura morte di migliaia se non milioni di persone.
Ora il WTO è in crisi. Giustamente Ricci osserva che sarebbe superficiale vedere in questa crisi solo l’eco delle contese inter-imperialistiche. Almeno altrettanto importante è “l’emergere di un forte movimento contro la globalizzazione…[che] ha prodotto una crisi di consenso e di legittimazione nei confronti delle istituzioni economiche internazionali e delle politiche neoliberiste” (p. 31). Ha anche influito il “blocco dei 21” che raggruppa la Cina, l’India, l’Egitto, il Venezuela e altri paesi che compongono il 65% della popolazione mondiale. Non è un caso che molti paesi dell’America Latina abbiano assunto questa posizione critica verso il WTO, perché ne hanno assaggiato la versione che Washington ha creato apposta per loro, il famoso accordo ALCA, che prevede un’area di libero scambio dall’Alaska alla Patagonia, ovvero il totale asservimento del continente all’economia statunitense. Siccome questo accordo è odiato, a ragione, da buona parte del continente latinoamericano, il progetto, nota l’autore, si accompagna al processo di militarizzazione dell’America Latina, con in testa il famigerato Plan Colombia.
Quali conseguenze abbia avuto questa politica per il continente è ben noto. Solo negli ultimi tre anni questi paesi hanno pagato oltre 460 miliardi di dollari di interessi sul debito mentre interi paesi sprofondavano letteralmente nella fame. Ecco spiegato il fatto che ovunque si sia votato sull’ALCA, dal Brasile all’Argentina, i “no” siano risultati il 90%. Conta senz’altro anche il ruolo di Chavez, che sulla spinta del movimento rivoluzionario venezuelano si batte contro l’accordo, trascinando su questa posizione anche paesi più attendisti. Di fronte a questa situazione, nota Ricci, l’Europa si è distinta per l’intransigenza liberista delle sue proposte laddove aveva vantaggi competitivi e per il suo becero protezionismo negli altri settori.
L’analisi proposta sull’impasse della globalizzazione, qui succintamente descritta, è condivisibile. Povera tuttavia appare la proposta politica che - oltre al giusto richiamo all’immediata interruzione dei negoziati - rivendica “un radicale cambiamento di ispirazione e di orientamento nella politica commerciale dell’UE al fine di costruire un nuovo ordine economico internazionale” (p. 46). L’ingenuità di una simile idea balza agli occhi. Non si può pretendere che una tigre diventi vegetariana solo facendole osservare il dolore che provoca alle sue prede mentre le divora. L’UE non può che essere quello che è: il bastione degli interessi delle borghesie europee. Un’altra UE non è possibile. Un aspetto pericoloso di questa debolezza nelle proposte politiche è che se non si è in grado di sviluppare un’alternativa operaia alla globalizzazione, i lavoratori potrebbero cadere preda delle sirene nazionaliste, dell’idea che bisogna difendere la “propria” borghesia contro lo straniero, il protezionismo e tutta la retorica classica che i capitalisti usano quando la fanfara del libero mercato non funziona più. La storia ha dimostrato che per i lavoratori il protezionismo non è stata una politica meno disastrosa del liberismo.
FMI, Banca mondiale e sistema finanziario
La politica economica neoliberista ha al suo centro una certa configurazione degli assetti finanziari mondiali. I famosi accordi di Bretton Woods erano funzionali alla situazione del capitalismo nel ’46, quando furono conclusi: il dollaro fungeva da moneta di riserva mondiale al posto dell’oro. Ovviamente, un sistema finanziario sopravvive solo finché i suoi assetti tecnici sono funzionali ai rapporti di forza tra le classi e tra gli Stati capitalisti. Negli anni ’50 e ’60 Bretton Woods funzionò bene perché il capitalismo cresceva e l’economia americana era di gran lunga la più forte e competitiva, e questo si rifletteva in una bilancia commerciale sempre positiva e nell’investimento del surplus negli altri paesi avanzati e nei paesi satellite. Quando questo mondo crollò per il deterioramento delle condizioni economiche degli Usa (guerra del Vietnam, shock petrolifero), Bretton Woods cadde a pezzi. I capitalisti abbandonarono i cambi fissi e usarono l’inflazione per impedire alle lotte operaie di consolidare la crescita salariale nominale in termini reali. Nella seconda metà degli anni ’70, il sistema finanziario mondiale vagò da una crisi all’altra, in mezzo a elevata inflazione e comportamenti aggressivamente protezionistici delle diverse potenze.
Nel ‘79-’80 gli Usa imposero una svolta. L’inflazione venne stroncata aumentando enormemente i tassi d’interesse, i sindacati vennero stroncati dal governo Reagan. Il dollaro tornò così a divenire la moneta di riserva internazionale. Ma questo nascose un cambiamento ben più profondo della situazione: “a partire dalla prima metà degli anni ottanta l’economia statunitense si è trasformata in un’economia strutturalmente e permanentemente deficitaria nei conti con l’estero, tanto che oggi gli USA sono di gran lunga il paese più indebitato del mondo” (p. 58). Il paese riesce a tirare avanti grazie al boom borsistico che attrae denaro dall’estero. Questo ha anche aiutato l’America a riprendere la leadership in molti settori produttivi chiave. Abbiamo così una situazione in cui il centro dell’economia mondiale risucchia i risparmi di tutto il pianeta per avere una domanda solvibile con cui dare sbocco alla crescita produttiva de paesi clienti. Ovviamente questa situazione è estremamente fragile, come si vede nelle continue crisi finanziarie (Messico ’94, tigri asiatiche ’97, Russia e Brasile ’98, crollo della “new economy” nel 2000), “l’ordine neoliberale degli anni novanta era un gigante dai piedi di argilla. Si riaffacciano, dopo settanta anni, gli incubi della deflazione e delle svalutazioni competitive” (p. 62). In questo quadro il FMI e la Banca Mondiale si sono comportati come i sicari dello strozzino, che minacciano o puniscono chi sgarra con i pagamenti. Come nota l’autore, in vent’anni oltre settanta paesi del sud del mondo sono stati strangolati dai famigerati “programmi di aggiustamento strutturale” del FMI, il cui fallimento, totale, è stato pagato in vite umane con un costo che è paragonabile solo alla barbarie nazista.
Che queste politiche abbiano miseramente fallito lo riconoscono i loro stessi esponenti (si pensi alle recenti opere di Stiglitz, ex capo economista della Banca Mondiale). Il punto è che cosa c’è che non funziona in esse e come sostituirle. Purtroppo, anche in questo frangente l’autore mostra una commovente fiducia in un capitalismo “buono” non inquinato dal neoliberismo. È quest’ultimo a essere nefasto, mentre vi sarebbe un'altra politica pur borghese che potrebbe funzionare (e che viene identificata con il “riformismo radicale di matrice keynesiana”). Occorre dunque dire qualcosa su questo tema. Keynesismo e liberismo (che siano “neo” o meno) non sono politiche funzionali a interessi di classi sociali diverse, ma sono politiche sviluppate dalla borghesia in condizioni differenti. La stessa borghesia può passare dal keynesismo al liberismo in un attimo, se necessario. Non solo, ma spesso queste due politiche vengono fuse ecletticamente se necessario. Non c’è nulla di intrinsecamente progressista nell’intervento pubblico nell’economia da parte del padronato. Prendiamo i casi estremi delle dittature fasciste degli anni ’30. Come ben noto si trattò di regimi altamente interventisti che però avevano anche elementi liberisti al loro interno. Possiamo dire che i regimi interventisti di Mussolini e Hitler fossero pacifici e progressisti? E per venire al dopoguerra, non erano forse impostate in senso pubblico le politiche economiche degli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam e della Francia e dell’Inghilterra durante l’aggressione all’Egitto di Nasser? E in Italia, non era forse naturalmente keynesiana la DC, che nella spesa pubblica vedeva ampio foraggio per le sue correnti? L’esaltazione del keynesismo è dunque un triplo errore. Innanzitutto perché la borghesia, tutta, non quella “liberista” o quella “keynesiana” fa la guerra quando le serve. In secondo luogo, perché la politica economica condotta dallo Stato borghese risponde alle esigenze immediate della frazione dominante della borghesia. È dunque irrilevante auspicare un’altra politica economica all’interno di questo sistema. I padroni sanno ben fare i propri interessi. In terzo luogo, è falso che tra keynesismo e liberismo vi sia un muro impenetrabile. Questo è ben visibile nell’amministrazione Bush, che mentre impone l’agenda neoliberista al mondo inietta enormi quantità di denaro nell’economia tramite la spesa pubblica. Bush è dunque liberista o keynesiano? Non ha senso porsi questa domanda. Bush è un politico borghese e fa quello che occorre a rilanciare i profitti americani. Lo stesso Keynes era un liberale che comprese come per uscire dalla depressione degli anni ’30 occorressero ricette politiche più spregiudicate di quelle ortodosse. Ma Keynes spiegava anche che in altre circostanze avrebbe difeso strenuamente la politica liberale classica: bilancio in pareggio, bassi salari, bassa inflazione.
L’illusione keynesiana deriva dal fatto che le politiche di spesa pubblica sono storicamente coincise, almeno per gran parte dei paesi occidentali, con il boom postbellico, il più forte della storia del capitalismo. Così, i dirigenti riformisti hanno scientemente confuso causa ed effetto, difendendo l’idea che fossero le politiche keynesiane ad aver alimentato il boom. Il processo storico era invece rovesciato: la crescita del capitalismo permetteva alla borghesia di concedere, sotto la spinta delle lotte operaie, lo stato sociale, migliori condizioni di vita. Il keynesismo era dunque un sottoprodotto della crescita economica. Finita questa, morì anche quello. Nella nostra epoca l’unico modo per ottenere miglioramenti significativi delle condizioni di vita è tramite uno scontro frontale con il capitalismo. Se non si è disposti a questo, rimpiangere i bei tempi andati o spargere illusioni sulla praticabilità di ricette keynesiane contribuisce solo a seminare confusione nelle file del movimento operaio e particolarmente tra i comunisti che ne dovrebbero essere la parte più cosciente e avanzata. E invece si insiste sulla linea di un capitalismo “altro” ed alto, che si basi su “un nuovo ordine mondiale”. La cosa interessante è che lo stesso Ricci spiega che il WTO “non è riformabile perché la ragione stessa della sua nascita e della sua successiva esistenza è legata in modo indissolubile con la necessità di legittimare lo scambio ineguale e le politiche neoliberiste” (p. 70) ed è dunque corretto proporre “la disarticolazione e il superamento delle istituzioni internazionali esistenti”, ricordando che “il neoliberismo deve essere prima sconfitto sul terreno politico e sociale” (ivi). Prendendo sul serio queste dichiarazioni ne dovremmo concludere che il “nuovo ordine” non potrà che svilupparsi sulle macerie del capitalismo, e invece ci viene proposto “un nuovo sistema commerciale pluralista, democratico e paritario” (p. 73) evidentemente capitalista e in particolar modo euro-centrico. Ci si illude dunque che esista un “modello di sviluppo alternativo a quello neo-liberista” ma pur sempre capitalista, che rompa con gli interessi del grande capitale, così almeno si dice, ma non con la proprietà privata tout court. Si propone esplicitamente una “nuova Bretton Woods” che riformi il sistema finanziario e monetario mondiale. Si parla di una Corte internazionale per l’insolvenza, una Corte internazionale per la risoluzione delle controversie commerciali, un’organizzazione per la responsabilità sociale delle imprese. Queste proposte sono impossibili o inutili. Sono un impossibile libro dei sogni finché le leve di comando economiche e politiche non appartengono alla classe operaia. Diventano del tutto inutili in quel momento.
Emerge con forza, qui e lo ritroveremo altrove, la vecchia illusione che i riformisti possano insegnare ai padroni a fare il loro mestiere, che la borghesia è miope e i riformisti lungimiranti. Osservare che il sistema finanziario è “instabile e ingiusto” è corretto, a patto che ciò non induca a prendere la posizione che sia possibile in questa società che invece sia stabile e giusto. Lo scopo della borghesia di ogni tempo è massimizzare i profitti. Neoliberismo, keynesismo, intervento pubblico, privatizzazioni, sono solo mezzi diversi per un unico obiettivo. Invece qui si perora la causa di una globalizzazione buona: “la globalizzazione neoliberista è una falsa globalizzazione perché ha creato istituzioni, regole e norme tese a proteggere e difendere interessi e privilegi particolari a scapito dei diritti e delle aspirazioni della comunità dei popoli del mondo” (p. 87). Vi sarebbe dunque anche una “vera” globalizzazione buona per tutti, che dovrebbe basarsi su di “un governo mondiale, pluralistico e democratico” che sarebbe l’obiettivo centrale dell’azione politica del movimento no-global, moderna incarnazione dell’internazionalismo proletario. Incarnazione peraltro migliorata, dato il “tragico tentativo di assalto al cielo compiuto dal movimento operaio novecentesco” (p. 88) va respinto in nome della non violenza e della rinuncia alla presa del potere. L’assalto al cielo è stato “tragico” e dunque dobbiamo limitarci a riformare l’ordine mondiale. Non è evidentemente l’altro mondo possibile, è questo ma un po’ migliorato.
Il declino dell’Europa
La seconda parte del libro si occupa del declino economico dell’Europa. Il continente ristagna da anni, anche per le politiche restrittive imposte dal Trattato di Maastricht. Tagli ai servizi sociali, privatizzazioni, politiche monetarie restrittive, precarizzazione del mercato del lavoro, tutti questi processi hanno devastato socialmente l’Europa e non sono riusciti a rilanciare l’economia. Al contrario, riducendo la domanda complessiva, hanno contribuito al ristagno che ormai dura da oltre quattro anni, il più lungo del dopoguerra.
Un diffuso pessimismo avvolge l’Europa. Da speranza, l’unificazione europea è divenuta il capro espiatorio di ogni problema. Come osserva Ricci “il triste lascito del Patto di Stabilità” è un continente moribondo, che non cresce. Se dal ’61 al ’73 l’economia crebbe nell’UEM (l’area dell’Euro) del 5,1% annuo, dal 2001 la crescita è stata solo dello 0,9%. Le “spiegazioni” ufficiali sono note: i lavoratori europei lavorano meno ore, i sussidi sociali, il mercato del lavoro troppo “rigido”, ecc. Ma l’autore dimostra molto chiaramente che queste spiegazioni sono aria fritta. La realtà è che gli USA crescono di più perché investono di più.
Grazie a Maastricht, il mercato del lavoro europeo è divenuto il far west: il 49% degli uomini e il 42% delle donne dell’UE lavora in orari “anomali” (la sera, il week-end, ecc.). Si lavora di più, in condizioni precarie e meno sicure: nel 2000, osserva l’autore, oltre sette milioni e mezzo di lavoratori europei ha subito un infortunio, di questi oltre 5.000 mortali. La destrutturazione del mercato del lavoro non è servita dunque a rilanciare l’economia. È servita però ad aumentare i profitti, pagati letteralmente col sangue della classe operaia. Ma che senso ha dire che questo situazione è “moralmente esecrabile perché mossa soltanto da evidenti interessi di classe a favore del padronato”? (p. 101). La morale del capitalismo è questa: è morale ciò che aumenta i profitti. È immorale ciò che li diminuisce. Che tale “morale” sia orribile e distruttiva per il genere umano, va da sé. Non per nulla siamo comunisti. Il problema è che la condanna morale deve farsi programma di trasformazione, oppure rimane sterile denuncia.
Ricci paragona l’economia statunitense a quella europea e trova che la prima se l’è cavata molto meglio grazie a una politica monetaria espansiva (cioè tassi d’interesse reali negativi), una politica fiscale anch’essa espansiva (anche se la spesa pubblica andava a finanziare bombardamenti anziché pensioni) e maggiori investimenti produttivi. I profitti sono aumentati molto sia negli Stati Uniti che nell’UEM, ma negli USA di più (2,2% annuo negli ultimi dodici anni, contro 1,6%) e dunque l’America ha guadagnato margini di competitività anche grazie all’intervento pubblico. Ma se è vero che Maastricht ha significato declino e devastazione sociale, la linea di Bush è la prova che anche una politica interventista non significa un miglioramento di vita dei lavoratori. Americani o anche iracheni. E invece, incredibilmente, si difende questa politica: “l’amministrazione Bush non ha esitato un attimo a buttare alle ortiche l’ortodossia di bilancio e si è lanciata in una nuova, enorme corsa agli armamenti, giustificata dalle necessità della guerra preventiva al terrorismo, e in una massiccia riduzione delle tasse e delle imprese e ai ceti abbienti, che hanno fatto esplodere il deficit pubblico…L’Europa è invece rimasta ferma, immobile nella reiterazione ottusa e impotente delle vecchie litanie di Maastricht. Non bisogna confondere la profonda avversità che suscita la politica di guerra dell’amministrazione Bush con la risposta tecnica di politica economica da essa data alla crisi. Dal punto di vista tecnico, la risposta americana è indubbiamente più corretta, perché essa tiene conto della lezione della storia, quella della grande depressione degli anni Trenta” (p. 106). C’è da lucidarsi gli occhi increduli. La “lezione della storia” di centomila morti in Iraq e della distruzione dello stato sociale americano sarebbe “tecnicamente corretta”? E vent’anni di nazifascismo e della più spaventosa carneficina della storia sarebbero anch’essi una politica “tecnicamente corretta”? Perché è solo con la seconda guerra mondiale che il mondo è uscito dalla crisi del ’29. Ieri come oggi, separare il contenuto politico di queste scelte dal suo aspetto “tecnico” è completamente sbagliato. L’essenza della politica di Bush è difendere i profitti americani. Per fare questo terrorizza mezzo mondo con cacciabombardieri e marines, distrugge lo stato sociale e taglia le tasse sulle imprese. In Europa la borghesia non può agire in questo modo perché è più debole. L’euro non è moneta di riserva internazionale, non esiste un esercito sufficientemente forte, i rapporti di forza sono differenti. E dunque impiega Maastricht per ottenere lo stesso scopo: aumentare i profitti. Gli anni ’30 come Bush dimostrano che c’è ben poco di buono per i lavoratori nell’intervento pubblico, quando questo è gestito da un governo borghese. Non è vero che il neoliberismo è guerra. È il capitalismo che significa guerra, quando qualcuno gli si oppone. Qualunque politica economica prevalga.
E invece l’autore cerca di convincerci che i borghesi americani sono lungimiranti, anche se guerrafondai, quelli europei miopi: “a volte per ottusità, più spesso per corposi interessi particolari, le classi dirigenti europee hanno così costruito con le proprie mani le condizioni del declino economico” (p. 107). Si tratterebbe dunque di una classe sociale di masochisti...È la solita storia: i padroni non sono capaci di fare il loro mestiere. Ci vuole un’alleanza con la borghesia illuminata.
Il capitolo su Maastricht, che descrive impeccabilmente quali disastri abbia provocato quella linea di politica economica, dal ’92 fino al Patto di Stabilità e di Crescita che tuttora devasta il continente, soffre di questa ambiguità di fondo: la borghesia europea non è improvvisamente impazzita. Occorre piuttosto comprendere le ragioni profonde di quella scelta. È troppo poco dire “la scelta fu quella di fare dell’Europa un avamposto del neoliberismo” (p. 110), riducendo tale scelta a un problema ideologico. Tutto si può dire della borghesia tranne che sia “ideologica”. L’unica ideologia, morale, religione del capitalista è il suo utile. Maastricht è la conseguenza della situazione strutturale della borghesia europea negli anni ’90. Dire che i parametri di Maastricht non avevano alcuna base scientifica e che implicavano una politica deflativa e recessiva è vero. Ma ciò dimostra solo che la borghesia sacrifica volentieri la crescita ai profitti. Come marxisti sappiamo, o dovremmo sapere, che la logica della borghesia è necessariamente miope, dato che attaccare i salari riduce a medio termine la domanda effettiva sui mercati e dunque la crescita. Non a caso dopo i tagli selvaggi degli ultimi decenni l’economia ristagna, come in Europa, o avanza solo grazie ai debiti, come negli Usa. Ma questa “miopia” non è curabile. Certo, se esistesse un consiglio di amministrazione della borghesia mondiale potrebbe aumentare i salari del 10% a tutti, non modificando le condizioni di profittabilità di nessuno.
Ma questa è un’idea che si scontra con la realtà del capitalismo, basato sulla concorrenza o anche la collusione, ma pur sempre belligerante, dei molti capitali. Nel capitalismo reale, ogni borghese invita i suoi simili ad aumentare i salari per assicurarsi più vendite, ma lui mira a tagliarli senza pietà per fare più profitti. Questa è l’essenza del capitalismo da sempre. Senz’altro, la concentrazione del capitale anche per quello che Marx chiamava l’aumento della composizione organica (ovvero dei costi fissi, essenzialmente), ha aumentato la grandezza del capitalista medio, con lo sviluppo delle multinazionali, dei monopoli, che controllano lo Stato. E questo per alcuni periodi ha reso più stabili i prezzi e i salari. Ma il punto è sempre quello: lo Stato fa la politica economica che meglio serve gli interessi del profitto. Non segue alcun “manifesto ideologico”. Vale per Bush come per l’Europa.
Considerando l’analisi che il libro fa dell’economia mondiale, colpisce l’assenza di una qualsivoglia analisi del Giappone se non per osservare, di passata, che attraversa una fase ormai decennale di crisi e che ha fatto molti interventi pubblici. Colpisce questo perché il Giappone negli anni ’90 ha effettuato il più massiccio intervento pubblico nell’economia di tutti i tempi, almeno in dimensioni assolute. Basta pensare che il debito statale del Giappone era fortemente negativo ancora negli anni ’70 e non superava il 14% del Pil nel 1990. Oggi si stima attorno al 130-150%. La crisi economica è talmente forte che il paese sperimenta una deflazione (ovvero una riduzione assoluta dei prezzi) pressoché ininterrottamente da otto anni, il periodo più lungo dal ’29. E buona parte di questo intervento non aveva quei connotati politici apertamente reazionari del caso Bush. Si trattava di aiuti alle imprese, infrastrutture pubbliche ecc1. Certo, la retorica nazionalista e l’esaltazione dei crimini dell’imperialismo giapponese negli anni ’30 e ’40 sono elementi qualificanti dei governi giapponesi degli ultimi anni, a ulteriore dimostrazione che l’aspetto “tecnico” non è mai disgiunto da quello politico, ma non è certo la “guerra infinita” di Bush. Anche per quanto riguarda la politica monetaria il Giappone ha seguito la strada indicata dall’autore per l’Europa, con tassi d’interesse sotto zero da anni, e la banca centrale a comprare valanghe di titoli del debito pubblico, tanto che il suo bilancio vale ormai il 25% del Pil, mentre il debito pubblico stesso ha raggiunto e superato il 150% del Pil. Ora, per chi si propone di rilanciare una politica keynesiana, non sarebbe stato il caso di analizzare questa situazione? O forse, non essendoci di mezzo Maastricht e i marines, si aveva paura di scoprire la semplice verità che il keynesismo, di per sé, non è un’alternativa alla crisi del capitalismo?
Sia come sia, grazie a Maastricht i lavoratori hanno pagato il riaggiustamento dei conti pubblici. L’hanno pagato con riforme fiscali che hanno imposto sui redditi da lavoro l’onere della tassazione, con la disoccupazione e la precarietà, con la diseguaglianza sempre più stridente del reddito, con la povertà. E quando dieci anni fa circa, a Maastricht si è aggiunto il Patto di Stabilità, la situazione è peggiorata, rendendo impossibili politiche espansive e progressiste. La crescita si è ulteriormente ridotta cosicché il Patto ha fallito miseramente proprio nell’obiettivo di riequilibrare il deficit pubblico. Infatti, se pure gli investimenti pubblici sono crollati, i conti pubblici rimangono miseri, il che è ovvio, data la stagnazione economica.
Maastricht dunque ha fallito, e come si potrebbe non essere d’accordo con questa conclusione. Ma qual è l’alternativa? La DC anni ’60?
Una piccola notazione la merita la critica, peraltro ovvia, all’idea di ritorno all’autarchia nazionale. Il fallimento dell’Europa di Maastricht ha riaperto vecchie illusioni protezioniste e autarchiche. È il caso dei risibili proclami della Lega sui dazi doganali. Risibili ma indicativi della profondità della crisi del capitalismo italiano. Ovviamente, i lavoratori non hanno nulla da guadagnare dal protezionismo, che con la scusa di rendere più competitive le merci italiane riduce i salari e aumenta i prezzi. È ovvio che quella non è la soluzione, anche se, occorrerebbe osservare, il keynesismo di Keynes si sosteneva per l’appunto sulla disgregazione dei rapporti economici internazionali. I comunisti non sono né protezionisti né liberisti, spiegano che nessuna politica borghese favorisce i lavoratori. Ma questo non significa che un governo dei lavoratori non dovrebbe attuare tutte le necessarie misure anche economiche a difesa della rivoluzione. Dire che dall’Europa non si torna indietro significherebbe disarmare ogni futuro programma di alternativa.
L’illusione dei bei tempi andati emerge anche quando l’autore analizza il comportamento della BCE. È verissimo che “il vero obiettivo intermedio assunto dalla BCE in funzione antinflazionistica è rappresentato dalla dinamica salariale…ogniqualvolta emergono rivendicazioni salariali, la BCE è pronta ad annunciare correzioni in senso restrittivo della politica monetaria in nome della lotta all’inflazione…si scopre che l’autentico obiettivo della politica monetaria è una particolare distribuzione del reddito, favorevole al rendimento del capitale industriale e finanziario e alla compressione dei redditi da lavoro” (p. 159). Assolutamente giusto. Ma quando mai una banca centrale in un regime capitalista ha avuto un altro obiettivo? È diverso quello della Federal Reserve americana? Era diverso quello della Banca d’Italia prima dell’arrivo della BCE? La storia della politica economica italiana ed europea chiariscono implacabilmente come stanno le cose. Basti qui citare un’osservazione di Carli, Governatore della Banca d’Italia dal ’60 al ’75: “la tesi principale in Banca è che per accrescere la quota del risparmio e quindi dell’investimento occorre una distribuzione del reddito che favorisca i profitti”2. Certo la BCE non è democratica, certo non è sottoposta al controllo di nessuno. In una parola, è la classica istituzione borghese. Ed è semplicemente patetico, di fronte all’oceano della disuguaglianza e dell’instabilità prodotte dal capitalismo, voler usare il cucchiaino della Tobin Tax 3. È dunque giusto dire che “l’Europa è a un bivio”, ma tra cosa? Tra Maastricht e le partecipazioni statali o tra socialismo e barbarie? Invece si spargono illusioni pericolose. Ad esempio perorando la giusta causa della riduzione dell’orario di lavoro si sostiene che su questo obiettivo “nessuna differenza è esistita in passato tra le correnti marxiste e le correnti liberali della cultura occidentale” (p. 165). No compagni, esisteva eccome. La classe operaia ha strappato ai “liberali” la riduzione dell’orario di lavoro con il sangue dei propri figli migliori. La borghesia non ha mai rinunciato a spremere ogni secondo possibile dal tempo di vita dei lavoratori. Non ci sono padroni liberal e padroni feroci. Ci sono solo bassi e alti profitti, con conseguente vario grado di disperazione della classe borghese.
È vero, usare l’inflazione prima e la recessione poi per distruggere le conquiste salariali degli anni ’70 ha infranto l’economia europea contro il muro della stagnazione. Che fare dunque? Ecco di nuovo la confusione. Si dice infatti: “non è questo il tempo della concertazione, della ricerca di un nuovo compromesso sociale. Esso è stato spazzato dal capitale. Sta qui in fondo…l’impotenza e la subalternità del riformismo europeo” (p. 168). E si parla di rilanciare le lotte di classe. Benissimo. Anche se come questo si ricolleghi a un futuro governo Prodi è impossibile a dirsi. Ma le lotte per fare che? Davvero crediamo alla “radicale trasformazione in senso democratico delle istituzioni europee”? Questi sono sogni pericolosi. All’ordine del giorno deve esserci non una velleitaria riforma degli strumenti con cui il capitale domina il mondo, ma la loro distruzione. Proprio perché il riformismo in crisi devasta la vita di interi continenti con le sue politiche fotocopia dei governi di destra, non si può proporre niente di meno del rovesciamento del capitalismo.
La situazione italiana
All’interno della crisi europea, spicca la crisi particolarmente acuta dell’Italia. Dal ’91 al 2002 l’UE ha perso circa il 10% della sua quota mondiale di esportazioni; nello stesso periodo quella italiana è crollata del 24%. Il Pil pro capite italiano aumentò tra il 5 e il 6% annuo negli anni ’50 e ’60. Ora se va bene cresce dell’1%. Per trovare un periodo così lungo di stagnazione bisogna tornare alle due guerre mondiali. La causa principale di questa crisi è ben esposta da Ricci: assoluta mancanza di progresso tecnico. La rinuncia totale della borghesia italiana a competere sulla frontiera della tecnologia non si è però accompagnata a un calo dei profitti grazie ai tagli selvaggi ai salari. Come ricorda l’autore, la precarizzazione del lavoro (che non è certo partita con la famigerata Legge 30 ma risale anche al “Pacchetto Treu” votato entusiasticamente dal PRC nel ’97) è stata davvero spaventosa: “tra il 1990 e il 2003 la quota del lavoro part-time sull’occupazione totale è passata dall’8,8% al 12 per cento…le ore-lavoro annue complessive per occupato nel settore dell’industria manifatturiera sono addirittura aumentate…anche l’occupazione atipica in Italia è cresciuta a ritmi superiori…Nel 2003 soltanto il 33,9 per cento delle nuove assunzioni avveniva con un contratto a tempo indeterminato…L’occupazione dipendente totale nell’industria e nei servizi è ormai composta per poco meno di un quarto da lavoratori atipici (p. 180) e si potrebbe continuare all’infinito. Ovviamente con la precarizzazione del contratto di lavoro è arrivata la precarizzazione dell’intera esistenza dei lavoratori, dai turni sempre più infami, ai debiti che infuriano, dalla spesa sempre più cara, ai servizi sociali che non ci sono più. La risposta reazionaria della borghesia italiana alla globalizzazione è insita nel suo DNA. Incapace di competere sull’innovazione, ha accentuato negli ultimi decenni i suoi caratteri di nanismo e arretratezza, arroccandosi nei “distretti industriali”, fatti di flessibilità selvaggia. Ha ragione dunque Ricci: “il problema dell’economia italiana non è affatto quello di una scarsa flessibilità del lavoro o di un eccesso di protezione sociale e salariale, ma riguarda la struttura della nostra produzione” (p. 187). Ovviamente questo non funziona perché i paesi “emergenti” stanno arrivando con forza. Si pensi solo che nel ’90 l’Italia aveva una quota mondiale del 13% dei beni di consumo del “sistema moda” contro la quota cinese del 5,4%. Nel 2002 le parti si erano invertite. La quota cinese superava il 17%, quella italiana era scesa sotto il 10%.
Ha inciso sul nanismo delle imprese italiane anche la svendita dell’industria pubblica. L’incapacità storica dei capitalisti italiani di competere diede, nel dopoguerra, un ruolo di supplenza allo Stato che non aveva eguali in occidente. Dal settore creditizio a molti settori industriali, le partecipazioni statali hanno creato o gestito la modernizzazione economica del paese. L’hanno fatto, ovviamente, negli interessi del ceto politico democristiano, l’hanno fatto come stampella del capitale privato. Poi è arrivata “l’orgia delle privatizzazioni”, come la chiama Ricci, che ha regalato alle multinazionali italiane e straniere i pezzi pregiati dell’industria pubblica: “una colossale svendita fallimentare del più qualificato patrimonio industriale del paese alle imprese multinazionali straniere” (p. 195). E non c’è che da concordare con l’autore quando ricorda il disastro che ha comportato la privatizzazione dei servizi sociali, con le ferrovie inglesi come caso più eclatante.
Un caso a parte sono le banche, privatizzate nella maniera peculiare delle fondazioni, che sono “enti senza scopo di lucro” che si ritrovano però a gestire masse enormi di denaro e di potere senza dove risponderne a nessuno. La borghesia, aiutata dalla Banca d’Italia, è riuscita ad arginare in questo settore, l’arrivo del capitale straniero. Ovviamente questo non ha comportato alcun beneficio per i lavoratori di questo settore, i cui salari e diritti sono stati distrutti come quelli dei settori regalati alle multinazionali estere.
Questo processo si è accompagnato a una forte redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale: “i redditi da capitale…hanno accresciuto il loro peso sulla torta del reddito per più di otto punti percentuali, passando dal 29,9% al 38,3%. Poiché nel frattempo l’occupazione totale è aumentata di circa il 10%…l’effetto redistributivo è ancora più accentuato” (p. 207). Sia in Europa che in Italia la quota del reddito da lavoro è la più bassa dagli anni ’60. In Italia è crollata in questi quarant’anni dal 76% al 62%, in Europa dal 70% al 64%. Non solo i salari di tutti si sono ridotti, ma sono aumentate le disparità all’interno del lavoro dipendente, con pochi che hanno stipendi alti e moltissimi che hanno sempre meno. Basta pensare che è raddoppiato il numero di lavoratori poveri dall’89. Se poi dai redditi ci rivolgiamo alla ricchezza, la diseguaglianza esplode. Il 50% degli italiani possiede solo il 10% della ricchezza complessiva mentre il 10% più ricco ne detiene la metà e nel caso delle famiglie “normali”, ovvero dei tre quarti degli italiani, l’unica “ricchezza” è la casa dove si abita. Abbiamo dunque un quadro completo: bassi salari, povertà, a un estremo, enorme ricchezza all’altro. E dove sono finiti questi soldi? Non in attività produttive ma verso attività finanziarie. L’autore stigmatizza ovviamente questo “comportamento speculativo” e parassitario, ricordando l’opinione di Keynes che l’intento speculativo è parte della natura dell’imprenditore. Alla fine torniamo alla solita vecchia idea socialdemocratica delle due borghesie: la borghesia brava, onesta, produttiva delle fabbriche e la borghesia corrotta, cattiva, delle speculazioni finanziarie. Inutile dire che questa suddivisione, se mai ha avuto senso, non ne ha alcuno nella realtà del capitalismo odierno. I capitalisti sono interessati ai profitti, comunque vengano. Lamentarsi del modo con cui li fanno serve a poco. Sapranno bene come farli. È verissimo che questo parassitismo è “segno della decadenza” ed è giusto dire che cercare di abbellire il modello neoliberista è una “pia e colpevole illusione”. Giusto! Il riformismo è una illusione pericolosa. Ne dovrebbe derivare che l’unica strada è l’abbattimento del capitalismo. Macché…
Il programma
L’ultima parte del libro è dedicata al programma che il partito dovrebbe difendere sulla base delle analisi svolte. C’è da dire che molte delle proposte dell’autore sono pienamente condivisibili. Qui e là si notano alcuni tentativi di conciliare l’inconciliabile, come diremo, ma il punto essenziale è un altro: è l’assenza di una direzione chiara in questo progetto. Eppure lo stesso Ricci lo ritiene indispensabile: “per uscire dalla crisi attuale occorre una politica economica coerente e unitaria, guidata da una strategia complessiva, che riesca a utilizzare in modo organico la leva della domanda e quella dell’offerta” (p. 263). Ma questa strategia complessiva in che cosa deve sfociare? Che obiettivi si deve porre? La fuoriuscita dal capitalismo, sulla linea delle migliori elaborazioni di Marx, Lenin e Trotskij, o il rilancio dell’economia italiana sotto l’egida del capitale?
Il nucleo del programma è azzeccato: rimettere al centro il lavoro, partire dalla centralità del lavoro salariato nella molteplicità di forme prodotte dal capitalismo di oggi, evitando la solita lagna sulla scomparsa delle grandi fabbriche anche se non manca il riferimento alla frantumazione della classe operaia fordista. La classe lavoratrice ha pagato la crisi del capitalismo, paga e pagherà Maastricht. È ora di invertire la marcia. Più reddito al lavoro meno al capitale. Niente aggancio alla produttività, niente “politica dei redditi” ma conflitto sociale per vincere una nuova scala mobile e la messa in discussione degli accordi di luglio. Ancora: aumento una tantum di tutti i salari per la differenza tra inflazione reale e programmata, salario minimo intercategoriale, democrazia sindacale, salario di cittadinanza, ampliare lo Statuto dei lavoratori, difendere e ampliare i servizi sociali. Tutto giusto, ma quale governo farà queste cose?
L’attacco alle pensioni è respinto con dovizia di cifre, dalle quali risulta quanto chi anche a sinistra brandisce la canzone della crisi dell’INPS menta sapendo di mentire. La sostenibilità dei servizi sociali, siano essi pensioni o ospedali, dipende dalla crescita economica e dalla lotta di classe. Le pensioni degli italiani sono bassissime e con la riforma Dini stanno diventando sempre più misere. La media della pensioni italiana è di 750 euro netti al mese. Che cosa si possa o non possa fare con 25 euro al giorno i pensionati italiani lo sanno bene. La realtà, spiega Ricci, è che chi attacca le pensioni cerca di giustificare il definitivo collasso del sistema della previdenza pubblica, anche accollando al sistema previdenziale compiti che dovrebbero essere assolti dalla fiscalità generale, come la fiscalizzazione degli oneri sociali e altri regali ai padroni.
Ma all’efficacia della descrizione non si accompagna il rigore nella prognosi. Nel capitolo che analizza la necessità dell’intervento pubblico in economia torna l’ambiguità. Quali fini persegue questo intervento? L’idea di Ricci di usare le fondazioni bancarie per nazionalizzare la Fiat è tecnicamente brillante ma non tocca il punto centrale: chi deve pagare? I lavoratori, come sappiamo per bocca dello stesso ministro Maroni, hanno pagato e ripagato la Fiat più volte. Deve dunque essere espropriata senza alcun indennizzo. Ma non è questo il punto decisivo. Lo stesso Marx osservò che in determinate circostanze la classe operaia potrebbe pagare un certo prezzo alla borghesia per riprendersi i mezzi di produzione. Il problema è chi controllerà la Fiat e ogni altra azienda pubblica. In uno Stato borghese le aziende pubbliche sono aziende borghesi. Ciò non toglie che vada contrastata ogni privatizzazione, ma soprattutto va posto al centro del dibattito il tema centrale: il controllo operaio. In fondo, prima di essere regalata ad Agnelli l’Alfa era dello Stato. Ma era gestita come la Fiat. Il punto dunque non è solo la proprietà formale, ma il controllo sociale. Espropriata o comprata, la Fiat, come le acciaierie di Terni, come le aziende di pubblica utilità, devono essere poste sotto il controllo dei lavoratori, altrimenti la nazionalizzazione servirà solo a rimetterle in sesto per la prossima svendita. Ricci ha l’onestà di riconoscere il problema. Descrive “gli errori strategici della sinistra e del movimento operaio” nella stagione del primo centrosinistra, quando l’intervento pubblico ingrassava notabili democristiani e padronato. Ma non ne trae alcuna conclusione.
È anche giusta l’osservazione che il “cosa” nazionalizzare non è un problema tecnico, di questo o quel settore, ma di piano sociale complessivo. Ma qui si intravede la logica keynesiana e dunque perdente per la classe lavoratrice, di questa impostazione. Questo piano, infatti, dovrebbe gestire il settore pubblico a fianco e parzialmente in concorrenza di un settore privato (per esempio “è bene che continuino a operare le banche private” (p. 278), accanto a quelle pubbliche). Il “nuovo metodo di programmazione e pianificazione strategica”, il “nuovo modello di sviluppo della società” sono dunque iscritti nella logica della programmazione borghese, sono strumenti per rendere più efficiente il capitalismo italiano. Già decenni orsono i marxisti facevano osservare, a chi a sinistra si illudeva che l’interventismo keynesiano avrebbe risolto i problemi di instabilità e miseria del capitalismo, che delle due l’una: o l’azienda pubblica è in perdita, e allora drena risorse dai lavoratori a se stessa, o è in attivo e allora fa rabbia e insieme gola ai padroni che dunque se la compreranno o la distruggeranno. Lo Stato borghese non può fare concorrenza ai borghesi privati, ne è invece il fedele maggiordomo. Questa lezione è persa in molte aree del partito. È una dimenticanza che può costare molto caro al movimento operaio.
L’unico elemento che viene dato è una critica alla crescita puramente quantitativa che accomunava capitalismo e stalinismo. È giusto. Il benessere non si misura solo dalle tonnellate di ghisa o dal numero di trattori. Il marxismo intende per sviluppo delle forze produttive l’insieme degli strumenti atti a generare ricchezza, non solo gli altiforni e le presse. Ma questa spinta all’aumento quantitativo nasce dalla ricerca del profitto o dei privilegi burocratici, nel caso sovietico. Non è un fatto ideologico, ma pratico. Non può essere eliminato senza sbarazzarsi della borghesia. Il nodo è dunque quello dei rapporti di produzione e di proprietà. Ricci se la cava ripescando una bella frase del prete rivoluzionario tedesco Munzter “omnia sunt communia”. Tutte le cose sono comuni. Molto bello. E senz’altro una situazione di socializzazione dei mezzi di produzione è “un progetto di società alternativa a quella capitalistica”. Ma come arrivarci?
L’ultima parte del programma è dedicata alla tassazione. Il sistema fiscale è stata una conquista dei lavoratori attraverso cui era possibile ridistribuire il reddito. Da decenni non è più così. Il sistema fiscale dei paesi avanzati, e particolarmente quello italiano, ha ormai la funzione opposta: drenare risorse dal lavoro al capitale. Sempre più tasse indirette, per loro natura regressive, aliquote sempre più piatte, evasione fiscale sempre più agevole, crollo dell’aliquota sui patrimoni finanziari. Basti pensare che nel ’74, quando fu istituita l’IRPEF, l’aliquota massima era l’80%. Oggi la metà. Dal ’91 al 2002, nota l’autore, lo Stato ha incassato circa 480 miliardi di euro più delle sue spese per servizi e investimenti, eppure il debito pubblico è aumentato. Come è possibile? Perché nel frattempo ha pagato 1.090 miliardi di euro per interessi, una media del 10% del Pil. Ricci adombra anche che l’allungamento della durata del debito pubblico sia stata una strategia cosciente del Tesoro e della Banca d’Italia per aumentare i tassi e dunque la rendita finanziaria. È possibile. Ad ogni modo, come reperire le risorse necessarie a invertire la situazione? L’autore parla di tagli alle spese militari, lotta all’evasione ed elusione fiscale, la Tobin Tax, la patrimoniale. Si tratta di misure giuste, ma del tutto insufficienti ad affrontare il problema che abbiamo di fronte. Inoltre scontano l’ambiguità di tutta l’opera: con chi e contro chi attuare queste misure? I padroni le lasceranno passare? Ovviamente no. Questo significa che i rappresentanti della borghesia nelle file del movimento operaio, cioè i riformisti, non ne vorranno sapere. L’unica strada è il non pagamento del debito pubblico al di sopra di una quota minima. Solo questa misura fornirà al governo che dovesse attuarla le risorse necessarie per invertire la situazione. Ma, appunto, quale governo?
L’alternativa posta dai marxisti a queste proposte slegate è, come ricordato, il programma di transizione. Tale programma non è solo un insieme di rivendicazioni, ma essenzialmente un metodo. Il suo obiettivo è di annodare i fili delle lotte quotidiane della classe lavoratrice con l’obiettivo di generalizzarne ed esplicitarne il contenuto anticapitalistico. L’essenza del programma di transizione è negare le “compatibilità”, rifiutare di farsi carico della crisi del capitalismo. Nella situazione disastrosa dell’economia italiana ciò è assolutamente necessario. Ad esempio se gli aumenti salariali e le riduzioni d’orario possono essere proposti solo se non incidono sui profitti delle aziende, è chiaro che in questo contesto sono impossibili. Infatti le 35 ore sono sotto attacco in tutta Europa. Se l’intervento pubblico deve “risanare” le aziende per poi rivenderle può essere tranquillamente compatibile con il capitalismo, infatti il governo di destra giapponese ha nazionalizzato moltissimo negli ultimi anni, usando i soldi dei lavoratori per rendere competitive le imprese. È chiaro che non può essere quella la strada. Si tratta, invece, di utilizzare le diverse rivendicazioni come aspetti di un complessivo programma di rottura con la società borghese. Le 35 ore pagate 40 o aumenti salariali del 10% non sono “sopportabili” dalle aziende italiane? Peggio per loro. Se vanno in crisi passino sotto il controllo operaio. Le aziende non reggerebbero tasse più alte? I padroni se ne vadano pure all’estero, ma i mezzi di produzione (compresi i loro soldi) rimarranno qui a costruire un avvenire ai lavoratori italiani. Non solo dunque ci vuole un programma complessivo, ma questo programma deve essere di transizione perché la storia dimostra che anche il programma più radicale non basta a mettere al riparo il proletariato dalla reazione feroce della borghesia finché essa mantiene il potere economico e lo Stato. Anzi, tanto più radicali i programmi, tanto più sanguinose le sconfitte. Non si può fare una rivoluzione a metà. Ogni rivendicazione deve avere l’obiettivo di sviluppare le contraddizioni del capitalismo, mostrare ai lavoratori che la difesa delle loro condizioni di vita è incompatibile con la sopravvivenza della proprietà privata dei mezzi di produzione. Altrimenti, ogni conquista verrà spazzata via alla prossima recessione, se mai verrà ottenuta. Cosa che è da escludere nel contesto di un eventuale futuro governo Prodi.
L’epilogo del libro, a merito dell’autore, è dedicato alla lotta degli operai di Melfi. La Fiat costruì la sua nuova fabbrica nella piana di Melfi per lasciarsi alle spalle le lotte e l’esperienza di organizzazione della classe operaia del Nord. Ha reclutato ragazzi inesperti, che per anni ha terrorizzato estraendone una produttività sei volte maggiore di quella di Mirafiori. Tutto inutile. La fabbrica insegna. Si è ritrovata con lavoratori coscienti e maturi. Malpagati, disorganizzati, alla fine si sono ribellati alla Fiat, chiedendo la parificazione dei salari e delle condizioni di lavoro con il resto dei lavoratori del gruppo. Nonostante le manganellate della polizia, le cariche, la fame, gli operai hanno piegato la Fiat. Questi lavoratori sono davvero la speranza e l’anticipazione del futuro. Ma andare al governo Prodi, li aiuterà?