A partire dalla seconda metà degli anni novanta molti enti locali hanno cominciato a utilizzare derivati finanziari(1) per ottenere risorse aggiuntive. L’esito è stato disastroso. Sotto il profilo penale, i tribunali decideranno chi pagherà per tali pratiche, ma il costo sociale sarà ovviamente a carico dei lavoratori sotto forma di più tasse e meno servizi.
La dimensione del fenomeno è ingente. Hanno fatto ricorso ai derivati 18 regioni su 20, la metà delle province e oltre 700 comuni. Tra essi le grandi città, a partire da Roma e Milano, ma anche 82 comuni con meno di 2000 abitanti. Il numero è esploso dopo il 2001, quando furono approvate norme che consentivano esplicitamente tali pratiche e i tagli agli enti locali diventavano sempre più pressanti.
Per anni è sembrato un affare per tutti. Le banche vendevano questi prodotti guadagnandoci laute commissioni, gli enti locali ricevevano soldi freschi subito. Dopo pochi anni, si è visto che gli enti locali stavano giocando col fuoco e i debiti verso le banche hanno cominciato a schizzare verso l’alto.
Che i derivati siano strumenti altamente rischiosi e destabilizzanti lo sanno tutti, tanto che Warren Buffet, uno dei più grandi investitori del mondo, li definì “armi di distruzione di massa”. Ad ogni modo, quando a giocare con i derivati sono grandi banche, si può immaginare che vi sia almeno un certo equilibrio tra i contraenti. Qui però avevamo, da una parte, grandi banche d’affari internazionali, dall’altra, funzionari di enti locali spesso al limite minimo di scolarità e probabilmente, i processi lo diranno, con interessi personali in gioco, leggasi tangenti.
Il meccanismo con cui le banche proponevano derivati agli enti locali era simile a quello dei famosi mutui “subprime”. Nell’immediato le amministrazioni ricevevano un miglioramento della situazione del debito e dunque risorse per finanziare servizi pubblici (su cui i loro amici imprenditori mangiavano poi ampiamente, come è ovvio), così come le rate iniziali dei “subprime” erano molto basse per invogliare il cliente a contrarre il mutuo. Ciò però a scapito di un onere crescente. Nel caso dei mutui, la rata iniziava a salire strangolando la famiglia. Nel caso dei derivati, i debiti con le banche cominciavano ad aumentare, drenando sempre più risorse pubbliche verso questi operatori. Quando comuni e altri enti, come la regione Sicilia, si sono trovati sull’orlo del fallimento, l’allora governo Berlusconi decise di modificare la legge per impedire di stipulare nuovi contratti.
Si trattava, naturalmente, del classico tentativo di chiudere la porta a buoi ampiamente scappati. Così, ormai da alcuni anni si va riducendo il numero di amministrazioni locali che hanno in essere operazioni in derivati. Nel complesso, il valore di mercato di queste operazioni è ora negativo per 1,2 miliardi di euro, che non è poco e potrebbe anche peggiorare, considerando che l’indebitamento complessivo supera i 100 miliardi. Già nel 2009 la Corte dei Conti aveva denunciato “l’uso sconsiderato di derivati finanziari da parte degli enti locali”. Alla fine, come detto, è stato vietato espressamente agli enti di stipulare tali contratti in attesa di una regolamentazione che non è ancora stata varata. Il punto è che cosa succederà con i contratti in essere.
Le aule di Tribunale dovranno stabilire quanto le banche abbiano ecceduto nel vendere prodotti a controparti chiaramente sprovvedute, ma non è facile. Bisogna dimostrare la malafede e i funzionari dei comuni non sono contenti di passare per incapaci raggirati come Pinocchio dal gatto e la volpe. Senza contare possibili interessi personali. Le banche si difendono sostenendo che nessuno costringeva i comuni a firmare. C’è anche il rischio che, dato che le banche da cui dipende gran parte di tali contratti ha sede a Londra, cerchino di spostare i processi all'Alta Corte di Giustizia di Londra, terreno più congeniale alle grandi banche d'affari che non agli enti locali italiani. In attesa che la giustizia produca qualche sentenza, alcuni comuni hanno smesso di pagare, altri sono appunto in causa, altri hanno imboccato la strada degli accordi extragiudiziali. È questo il caso di Milano.
Sotto Albertini sindaco, iI comune di Milano sottoscrisse, con cinque banche internazionali, il contratto di interest rate swap più grande di tutti: 1,7 miliardi di euro. Alla firma del contratto (il 27 giugno del 2005), le banche avevano già incassato 50 milioni di plusvalenza in cambio di 100 milioni di liquidità. Negli anni però, l’andamento dei tassi ha aggravato i debiti del comune che arrivò ad accumulare 400 milioni di euro di perdita. Inutile dire che le banche si sono ben guardate da proporre accordi finché il giudice non le ha costrette sequestrando 400 milioni di profitti. Dopo questa “spinta”, hanno accettato di ridare indietro alla città 500 milioni e chiudere la vertenza giudiziaria. I contenziosi si moltiplicano.
Soluzioni?
Quando lo scandalo è esploso, il governo è corso ai ripari, come detto, impedendo agli enti locali di indebitarsi ulteriormente. Si è parlato di maggiore trasparenza, maggiore informazione, prodotti più semplici. Si è evidenziato il conflitto d’interesse insito nel rapporto tra i comuni e i dirigenti che gli vendevano prodotti intascando un bonus personale. Nel caso del contratto con il comune di Milano, i dirigenti di Unicredit direttamente interessati presero un bonus di 3,4 milioni di euro a testa per provocare il dissesto del comune più ricco d’Italia. Di simili “consulenze” si potrebbe anche fare a meno.
Di chiacchiere sulla maggiore trasparenza e sui tagli dei bonus miliardari ai banchieri se ne sentono dopo ogni scandalo finanziario. L’indignazione è molta ma i risultati scarsi. Infatti continuano a scoppiare scandali finanziari di ogni tipo. Possiamo tranquillamente escludere che simili “riforme” cambino alcunché di sostanziale.
Persino sotto il profilo dell’ordinata conduzione di uno stato borghese, le esigenze finanziarie dei comuni italiani andrebbero soddisfatte attraverso il fisco, ovviamente un fisco ben diverso dall’attuale, che grava sui lavoratori e favorisce ricchi e grandi imprese. Ad ogni modo, ammesso che gli enti locali dovessero ricorrere ai derivati, non aveva senso che ognuno si cercasse una banca che ovviamente l’avrebbe imbrogliato in ogni modo. Sarebbe bastato costituire un nucleo di esperti presso la Cassa Depositi e Prestiti o la Banca d’Italia che, gratuitamente, avrebbe valutato quale emissione si adattava al singolo ente locale. Stipulando il contratto con la CDP, le perdite e i profitti dei due contraenti si sarebbero compensati a livello di bilancio statale. Una soluzione ovvia, ma altrettanto ovviamente non favorevole alle banche.
La vicenda dei derivati ai comuni dimostra per l’ennesima volta che le banche usano lo stato come una mucca da mungere, salvo poi far scrivere dai giornalisti loro maggiordomi invettive sui “costi della politica” e “l’inefficienza della pubblica amministrazione”. Portare le banche sotto il controllo dei lavoratori è l’unico modo per evitare gli scandali finanziari.
L'articolo è stato pubblicato anche sul sito www.marxist.com
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(1) I derivati sono prodotti finanziari che consentono di scommettere sull’andamento di altre variabili economiche (da cui appunto “derivano” il proprio valore). Nel caso in questione, gli enti locali siglavano degli swap, prodotti che servono a coprirsi o speculare sull’andamento di tassi d’interesse.