Bilancio del Comitato politico nazionale del 3-4 maggio
La riunione del Comitato politico nazionale (Cpn) del Prc tenuta il 3-4 maggio scorsi ha visto un dibattito incandescente, per certi versi imprevisto, che ha diviso profondamente la maggioranza congressuale.
L’innesco del dibattito è stato lo scontro riguardo le tre condanne a morte avvenute a Cuba e gli arresti di numerosi oppositori. Ma la discussione è andata ben al di là di una valutazione sulla situazione specifica su Cuba.Gli interventi dei compagni dell’area di Bertinotti hanno scelto di allargare la discussione su un terreno generale, di principio, facendo entrare nel dibattito non solo la questione della pena di morte, ma un ragionamento a tutto campo sulla questione del pacifismo, della non violenza e della guerra. Le stesse conclusioni di Bertinotti hanno voluto accentuare il carattere di principio delle divergenze: prima di trattare lo specifico della questione cubana, quindi, è necessario analizzare i cardini della impostazione di Bertinotti.
Violenza e democrazia
Dopo le condanne a morte dei tre dirottatori cubani, il governo volle un dibattito parlamentare per condannare Cuba. I deputati del Prc presentarono allora una propria mozione (pubblicata integralmente su Liberazione del 20 aprile). In tale mozione si affermano i seguenti concetti: “I principi della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo devono rappresentare l’architrave sul quale ogni società deve poggiare le proprie fondamenta (…) il ricorso alla pena di morte è comunque e sempre ingiustificabile (…) neanche nei casi estremi della guerra o di un tentativo, operato dall’esterno di strangolamento economico (embargo)” e via di seguito.
Sorge spontanea una domanda: i “diritti dell’uomo” (cioè i diritti democratici borghesi) come si sono affermati storicamente? La risposta dovrebbe essere nota a Bertinotti: si sono affermati attraverso grandi rivoluzioni, e in particolare la rivoluzione inglese, quella americana e soprattutto la rivoluzione francese, che rovesciarono le vecchie classi dominanti (e con esse le vecchie servitù) facendo uso di una violenza spietata. Può piacere o meno, ma è questa la realtà storica: i diritti democratici borghesi, che furono un enorme passo avanti storico, non si sono affermati per via democratica, ma per via rivoluzionaria. La dittatura di Cromwell, la dittatura giacobina, non furono “aberrazioni” o parentesi storiche, ma costituirono le doglie del passaggio da un sistema sociale all’altro; un passaggio caratterizzato dalla guerra civile aperta, dall’uso della violenza da una parte e dall’altra, nel quale la rivoluzione borghese vinse precisamente per non essersi arrestata di fronte alle misure più drastiche e spietate.
Naturalmente ai tanti ideologi che affollano le università, la grande stampa e i dibattiti televisivi, non fa piacere ricordare questa elementare verità: che la “democrazia” è nata dalle rivoluzioni e dalle guerre civili. Non per questo un partito comunista dovrebbe dimenticarla.
Anche nell’epoca successiva, i diritti democratici si sono dovuti affermare e difendere non solo attraverso la pacifica competizione elettorale, ma anche attraverso l’uso della forza. I popoli coloniali hanno ottenuto l’indipendenza (e per di più una indipendenza che è più di nome che di fatto) solo dopo lotte decennali o addirittura secolari: si pensi all’Algeria, all’Angola, alla Cina, al Vietnam, e via di seguito. E anche l’India fu abbandonata dagli inglesi dopo un secolo di movimenti di liberazione che subirono migliaia di vittime, dalla rivolta del 1867 in poi. L’imperialismo inglese non si ritirò dall’India perché convinto dalla disobbedienza civile e dalla non violenza gandhiana, ma perché si rese conto che non aveva nessuna speranza di continuare a soggiogare l’India con la forza e preferì lasciare il potere ai rappresentanti marci e corrotti della borghesia indiana, dopo aver fatto a pezzi il corpo vivo dell’India con la partizione fra India e Pakistan, gettando i semi dei conflitti sanguinosi che durano ancora oggi.
E lo stesso si dica per i diritti democratici che il proletariato ha conquistato nei paesi capitalisti, dal diritto al voto alla libertà di associazione sindacale, conquistati e difesi con dure lotte, non solo pacifiche ma anche insurrezionali (ad esempio il movimento cartista in Inghilterra, o le rivoluzioni del 1848-49).
L’impostazione di Bertinotti, e di numerosi altri interventi, abbraccia pienamente la concezione del pacifismo integrale e nega così qualsiasi legittimità alla prospettiva delle lotte di liberazione, all’autodifesa di una rivoluzione, ecc. Poco importa che in alcuni interventi, più “radicali” su questa impostazione, si dia a questo rifiuto un carattere di principio permanente, mentre in altri viene affermata una motivazione “storica” (nella nostra epoca, si dice, i termini della lotta sono diversi dal passato, la guerra ha una natura differente e così la devono avere i metodi di lotta, ecc.). A nostro avviso è la prima posizione a “dettare la linea”, proprio perché è più coerente e radicale nel portare alle conclusioni logiche le premesse di partenza.
Non a caso è stato detto nel Cpn (ma non riportato nei resoconti) che si deve rifiutare parole d’ordine come “Intifada fino alla vittoria” (così Gennaro Migliore, responsabile esteri). La logica conclusione è quella di negare qualsiasi legittimità alle rivoluzioni e alle lotte di liberazione, passate, presenti e future.
La questione della guerra in Iraq
Non a caso il dibattito ha trasceso la questione cubana è si è esteso alla valutazione del conflitto iracheno. Nelle conclusioni Bertinotti si è scagliato contro chi ha sollevato la questione della resistenza irachena e della lotta per la liberazione dell’Iraq e di tutto il popolo arabo: “Da diversi interventi individuo l’esistenza di un filo da cui sono estraneo. Mi riferisco in particolare alla concezione della guerra giusta, al concepire il rifiuto della violenza come esigenza di ‘anime belle’, alla concezione del potere e della sicurezza nel processo rivoluzionario” (conclusioni del dibattito). Tra i “diversi interventi” potremmo citare i compagni Izzo (Napoli) e Lindi (Carrara), oltre a quello di chi scrive.
Riassumiamo: no alla lotta per il potere, no alla rivoluzione, e se per qualche strano caso un popolo dovesse avere la fortuna di rovesciare i propri oppressori, deve offrirsi come agnello sacrificale alla reazione interna o all’imperialismo: “Molti pensano che il potere vada comunque difeso in quanto rivoluzionario, ma essi non colgono che la non violenza è il terreno di riflessione più alta da parte del movimento. Si trascura lo sforzo fatto per realizzare la pratica della non violenza come antidoto alla tenaglia fra guerra e terrorismo”. (conclusioni di Bertinotti). Dunque, la Comune di Parigi, la rivoluzione d’Ottobre, hanno sbagliato tutto. Non dovevano difendersi armi in pugno, ma dovevano avviare una “riflessione sulla non violenza”. E oggi sbaglierebbe, secondo Bertinotti, il popolo venezuelano che a gran voce chiede a Chavez mano dura contro la reazione golpista. Meglio, molto meglio lasciarsi massacrare come avvenne nel Cile di Allende nel 1973. Non si può trattenere un moto di sconforto nel constatare quanto indietro sia scivolato il livello del dibattito.
Difendere Cuba. Ma come?
La mozione che abbiamo sottoscritto nel Cpn, respinta con 12 voti favorevoli, 76 contrari, 2 astenuti e la “non partecipazione al voto” di Livio Maitan che ha però votato l’ordine del giorno di Bertinotti, esordisce con chiarezza: “Il Cpn del Prc esprime il proprio sostegno incondizionato a Cuba nella sua lotta nei confronti dell’imperialismo. Ritiene infatti dovere di ogni comunista nel mondo difendere Cuba come stato e le conquiste che permangono della sua rivoluzione”. Che l’amministrazione Usa abbia rilanciato l’aggressione a Cuba è sotto gli occhi di tutti.
Negli anni ‘90 l’amministrazione Clinton aveva imboccato a piccoli passi una via più simile a quella di molti paesi capitalisti europei rispetto a Cuba, volta ad avere relazioni diplomatiche meno tese che avrebbero potuto aprire la strada a una penetrazione economica e commerciale che minasse ulteriormente quello che resta degli elementi socialisti nell’economia e nella società cubana. Questa “svolta” degli Usa (che ovviamente non aveva nulla a che vedere con motivi democratici e umanitari, ma era solo una via alternativa verso lo stesso scopo, cioè la ripresa del controllo su Cuba), era emersa chiaramente con il caso del bambino Elian Gonzalez, che l’allora ministro Janet Reno (fedelissima di Clinton) fece riconsegnare ai suoi familiari a Cuba pestando i piedi alla mafia anticastrista emigrata a Miami.
Al contrario, Bush è tornato alla vecchia linea dura, come si manifesta chiaramente dalle sue dichiarazioni degli ultimi mesi, nonché dagli stretti legami che ha con gli anticastristi cubani che hanno base in Florida (il fratello di Bush è governatore dello Stato).
La questione dell’emigrazione da Cuba illustra con chiarezza la situazione. Mentre gli Usa hanno una linea di dura repressione rispetto all’immigrazione clandestina da qualsiasi paese (si pensi alla caccia feroce che subiscono gli immigrati che tentano di entrare clandestinamente nel paese dal Messico), la ley de ajuste prevede l’immediata regolarizzazione di qualsiasi cubano che lasci l’isola ed entri negli Usa, anche clandestinamente. Parallelamente, l’ambasciata cubana in Italia sottolinea come gli Usa scoraggino l’emigrazione legale da Cuba. L’accordo che prevedeva la concessione di 20mila visti all’anno da parte degli Usa è stato regolarmente disatteso e se negli ultimi anni la media dei visti concessi era la metà, nei primi quattro mesi del 2003 sono stati solo poche centinaia (fra 7 e 800). Detto in altre parole, la politica Usa vuole creare l’incidente diplomatico, vuole fare la guerra dei nervi col governo cubano usando l’emigrazione clandestina come leva di questa politica.
A questo si sommano le altisonanti denuncie su Cuba “rifugio di terroristi” e membro dell’“asse del male”.
È presto per dire se questa campagna contro Cuba guidata da Bush costituisca il preludio di una aggressione militare in grande stile, a nostro avvisto nonostante il temporaneo successo degli Usa in Iraq non esistono le condizioni politiche per una simile avventura. Indipendentemente da ciò, è chiaro che Cuba è sotto attacco e che ha il diritto e il dovere di difendersi.
Nel contesto dato, tuttavia, le condanne a morte per i dirottatori non sono affatto un deterrente all’aggressione. Il vero “pericolo interno” a Cuba non è costituito principalmente dagli agenti pagati dagli Usa. Il vero pericolo viene da una situazione economica e sociale sempre più contraddittoria, e dalla mancanza di una prospettiva internazionalista da parte di Castro e del suo governo.
Il pericolo viene da un’economia che è sempre più penetrata dal capitale straniero, che vive ormai un doppio circuito economico, con il dollaro seconda moneta di fatto, nella quale gli sforzi del governo per mantenere rigidamente separato il circuito dell’economia interna e statale da quello del settore privato largamente aperto al capitale straniero, sono scarsamente efficaci. Se è vero che questa situazione è dettata dalle condizioni obiettive (embargo, isolamento, eredità della struttura coloniale della vecchia Cuba prerivoluzionaria), è anche vero che la risposta a questi pericoli può venire solo dalla partecipazione attiva e cosciente dei lavoratori, dalla democrazia operaia, da una prospettiva internazionalista che leghi la lotta di Cuba alla prospettiva rivoluzionaria nell’intera America latina. Citiamo ancora la risoluzione da noi sottoscritta: “A Cuba, invece, nella sua più che quarantennale storia post rivoluzionaria, il potere non è mai stato nelle mani di strutture consiliari di operai e contadini. Al di là delle ultime decisioni, obiettivamente esagerate e controproducenti, avvenimenti recenti hanno sottolineato questo deficit di democrazia operaia. Così è stato per le elezioni (…) con 179 candidati su 179 eleggibili, senza nemmeno possibilità di voto negativo. Così per il referendum plebiscitario di sostegno al regime, concluso con un incredibile 99,2% di voti favorevoli.
Più in generale la mancanza di democrazia operaia si esprime in un parlamento che vota sempre all’unanimità e in un Partito che si riunisce in congresso circa ogni 10 anni (…).
La prospettiva che i comunisti devono auspicare e sostenere per Cuba non è quella di una ‘democratizzazione’ astratta e senza contenuti di classe; ma quella dell’instaurazione di un vero potere dei/le lavoratori/trici basato su una loro autorganizzazione consiliare.”
L’esperienza del Nicaragua
Nel suo intervento il compagno Grassi (che ha sottoscritto un ordine del giorno espressione dei compagni che fanno riferimento alla rivista L’Ernesto) ha affrontato la questione della democrazia a Cuba tracciando un parallelo con il Nicaragua sandinista. I sandinisti vennero rovesciati, ha detto in sostanza, dalla combinazione dell’aggressione esterna (la guerriglia dei contras) con l’opposizione interna che alla fine riuscì a vincere le elezioni nel 1990. Conclusione implicita: concedere i diritti democratici in una condizione di assedio imperialista significa aprire le porte alla restaurazione capitalista.
Questa analisi dimostra una singolare mancanza di memoria. Il problema non è se concedere o meno i diritti democratici in astratto e in generale. Il problema è: quali forze politiche e sociali si vogliono combattere (anche con la repressione), e quali no. Questo discende direttamente dal programma e dalla prospettiva politica che si vuole difendere. Non è la stessa cosa se si reprimono i diritti della borghesia e dei suoi rappresentanti politici o se si reprimono i diritti dei lavoratori, le tendenze politiche internazionaliste e coerentemente rivoluzionarie. La posizione sostenuta dai compagni dell’Ernesto mantiene su questo un silenzio imperdonabile.
I sandinisti perseguirono una illusoria “terza via” e rifiutarono di condurre a termine la rivoluzione innanzitutto sul terreno economico e sociale, limitandosi ad espropriare le sole proprietà del dittatore Somoza e lasciando in mano alla borghesia il grosso dell’economica. Lo fecero nell’illusione di poter contare sull’appoggio o sulla neutralità della borghesia nicaraguense nella lotta contro l’aggressione Usa. Questa si rivelò una pia illusione: il capitale privato, nazionale ed estero, non si rassegnò mai a vivere sotto il governo sandinista, sabotò sistematicamente il governo, collaborò direttamente e indirettamente con l’imperialismo. Il caos economico, le necessità di mantenere un pesante bilancio militare per fare fronte alla Contra ma soprattutto la delusione delle masse che col passare degli anni capivano sempre meno il motivo delle loro privazioni (che pure nella prima fase avevano sostenuto con un coraggio eroico) indebolirono la resistenza, fino alla sconfitta del 1990.
Quale fu il ruolo di Castro in quella lotta? Sostenne forse la necessità di andare fino in fondo con la rivoluzione, di espropriare una borghesia corrotta e alleata dell’imperialismo, fece forse appello alla più ampia partecipazione delle masse e alla lotta per l’estensione del processo rivoluzionario all’interno e all’estero? Tutto il contrario. Nel 1985, in visita in Nicaragua, si espresse come segue: “Ieri abbiamo avuto l’opportunità di sentire il discorso del compagno Daniel Ortega e devo congratularmi con lui. È stato serio e responsabile. Ha spiegato gli scopi del Fronte sandinista in ogni settore - economia mista, pluralismo politico e anche una legge sugli investimenti esteri. So che c’è spazio nella vostra concezione per un’economia mista. Potete avere un’economia capitalista. Quello che indubbiamente non avrete, e questa è la cosa più importante, è un governo al servizio dei capitalisti”.
“Chi tenta di fare mezza rivoluzione, si scava la fossa”, disse il grande rivoluzionario francese Saint Just. Questa elementare verità venne tragicamente confermata una volta di più in Nicaragua.
La prospettiva internazionalista
Oggi più che mai le sorti della rivoluzione cubana sono legate agli avvenimenti internazionali, e in primo luogo in America latina. L’intero continente, dall’Argentina al Venezuela, vive una situazione di estrema instabilità politica e sociale, il processo rivoluzionario è di nuovo in marcia. Chi vuole veramente difendere il futuro di Cuba deve assumere questa prospettiva come centrale. Non saranno gli abbracci a Kirchner o a Lula a garantire il futuro della rivoluzione cubana. La leadership cubana ha abbandonato da molti decenni qualsiasi ipotesi di uno sviluppo internazionale della rivoluzione cubana. Ma nelle lotte che scuoteranno il Sud America la questione si porrà nuovamente nella sua forma più acuta: l’imperialismo non rispetta i confini, né li rispetterà la rivoluzione.
Per approfondire la discussione puoi consultare i seguenti materiali:
• Cuba, una rivoluzione al bivio (pubblicato sul nostro sito www.marxismo.net);
• Nicaragua: due secoli di rivoluzione e controrivoluzione (pubblicato sul nostro sito www.marxismo.net);
• Il resoconto del Cpn del Prc è pubblicato su Liberazione dei giorni 4, 8 e 10 maggio;
• La mozione presentata dal Prc è su Liberazione del 20 aprile.