---
Documento 3
Investire sul conflitto per il partito di classe
Una breve premessa: le ragioni di questo documento
Questo documento nasce dalla necessità di presentare una proposta organicamente alternativa a quella che è stata la linea che il partito ha seguito negli ultimi anni a Napoli.
In particolare non ci convince l’idea di un partito che, abbandonando qualsiasi proposta di ampio respiro per la propria ricostruzione nel conflitto di classe, è perennemente impegnato in una discussione politicista, incapace di parlare ai settori più avanzati della società, che proprio in questi mesi si stanno mobilitando con forza.
L’inizio della discussione sulle prossime comunali a Napoli ha già chiarito quale sarà il cuore della proposta avanzata dai compagni: un nuovo accordo col Pd per le prossime comunali. L’ennesima alleanza di centrosinistra come punto di partenza fondamentale per Rifondazione Comunista. Al contrario di questi compagni crediamo che il nostro partito debba collocare il centro del suo intervento altrove e caratterizzarsi come alternativa alla gestione del centro sinistra napoletano.
Può far storcere il naso a qualcuno l’idea che nonostante la difficoltà palesi in cui versa il partito, a Napoli come a livello nazionale, possano esserci più documenti con cui discutersi e confrontarsi. Noi continuiamo a pensare che se esistono delle differenze fondamentali queste devono essere espresse apertamente in un dibattito che coinvolga il corpo del partito, su cui i compagni possano confrontarsi.
Questo ragionamento vale ancora di più in questa fase, caratterizzata da una forte instabilità del quadro politico e sociale.
Abbiamo scritto la gran parte di questo documento prima del 16 ottobre, ci pare che tanto la manifestazione in sé, quanto il dibattito che si sta aprendo sulle prospettive del conflitto di classe nel prossimo periodo confermino il punto centrale del ragionamento che presentiamo: ci sono le condizioni per ricostruire una forza di classe in questo paese che si faccia promotrice di un progetto ambizioso: ridare voce e rappresentatività politica ai lavoratori, ai giovani e agli sfruttati; sta a noi saper cogliere questa opportunità e lavorare tenacemente affinché a partire da Napoli, questa strada venga percorsa.
Il cambio di fase
Il congresso straordinario della federazione di Napoli cade in una fase di cambiamento del quadro politico ed economico di straordinaria importanza per le ripercussioni che avrà sui lavoratori e i giovani di tutto il paese ed in particolare del mezzogiorno.
La luce in fondo al tunnel della crisi economica è ancora molto lontana. Dopo oltre due anni di recessione l’economia italiana ha iniziato negli scorsi mesi una ripresa molto lenta e i dati economici confermano che almeno per il prossimo anno e mezzo i suoi ritmi non subiranno accelerazioni significative. Per recuperare il terreno perso in questi anni, dunque, bisognerà attendere diversi anni. Questo non sarà privo di profonde ripercussioni sui lavoratori. I padroni hanno scaricato i danni provocati dalla fase recessiva dell’economia sugli ammortizzatori sociali, almeno nei casi in cui esistevano ancora, facendo un massiccio uso di cassa integrazione ordinaria e straordinaria. Oltre a non creare le premesse per una ripresa del mercato interno, questa strategia ha spostato più avanti nel tempo il problema, rinviando i licenziamenti e le mobilità ad una seconda fase in cui stiamo entrando. È evidente che l’ulteriore compressione dei salari e le future ristrutturazioni di numerose aziende non faranno altro che ridurre ulteriormente le possibilità di un rilancio del mercato interno e dell’economia in generale, producendo una spirale negativa a tutto svantaggio dei lavoratori.
La classe dominante italiana non è stata con le mani in mano in questi due anni, ha anzi operato su più fronti. Approfittando della crisi greca ha iniziato a porre, coma la stragrande maggioranza dei governi europei, il tema della trasformazione delle tutele e dello stato sociale, che tradotto in sostanza vuol dire una cospicua riduzione di entrambi, a partire dai servizi quali la sanità, l’istruzione, la casa e, ovviamente, i diritti sindacali ed in generale del lavoro. L’altro versante su cui sono intervenuti è stato quello del modello di lavoro. Il piano Marchionne altro non è che un insieme di linee guida per modificare il sistema di sfruttamento in tutti i luoghi di lavoro, uno strumento che consenta, come ha giustamente rilevato il segretario della Fiom Landini, non di favorire la ripresa, ma di fare il pieno di profitti quando questa avverrà, ovviamente a danno dei lavoratori. Questo simultaneo attacco alle condizioni di lavoro e allo stato sociale avviene grazie al basso livello di mobilitazione degli scorsi anni della classe operaia, che, impaurita dalla crisi e priva di riferimenti sindacali e politici ha prodotto un gran numero di conflitti confinati nei limiti della singola azienda e condotti in maniera coraggiosa, ma troppo spesso priva di prospettiva.
L’aggressione ai diritti dei lavoratori ha visto in prima linea il governo Berlusconi, che nei primi due anni ha goduto di ampio consenso tra la popolazione e la totale assenza di opposizione politica in parlamento. La firma dell’accordo sul nuovo modello contrattuale, le riforme della scuola e dell’università, la feroce campagna contro i lavoratori del pubblico impiego sono passati senza colpo ferire, anche quando, come nel caso dell’onda studentesca del 2008, i lavoratori e gli studenti sono scesi ripetutamente in piazza, senza, però, trovare alcuna sponda in grado di valorizzare la mobilitazione e condurla ad un risultato positivo.
Dallo scorso giugno si sono visti i primi segnali di controtendenza rispetto agli anni precedenti. La resistenza messa in campo dagli operai della Fiat di Pomigliano è divenuta il punto di riferimento per i numerosi lavoratori che subivano gli attacchi congiunti di governo e padroni, ha tracciato con chiarezza una linea di discrimine tra le organizzazioni sindacali e politiche favorevoli e contrarie allo smantellamento dei diritti, ha riproposto con forza lo strumento della lotta come principale arma nelle mani degli sfruttati. Non è un caso che il fulcro di questa resistenza sia avvenuto negli stabilimenti di Pomigliano e Melfi, ossia nel mezzogiorno in cui la crisi ha colpito un sistema produttivo debole e dominato dal più selvaggio sfruttamento e dalla precarizzazione, ma in cui una nuova generazione si è ribellata all’idea di un futuro di iperlavoro senza tutele.
Non è un caso che la crisi del berlusconismo si sia intrecciata con questa ripresa del conflitto sindacale. La fuoriuscita di Fini dal Pdl è il riflesso dell’insoddisfazione di ampi settori della classe dominante alla linea del premier, incapace di portare fino in fondo la modernizzazione del paese, ovvero lo smantellamento di ogni diritto sociale e politico dei lavoratori, nonostante l’enorme sostegno ricevuto. Questa insofferenza è stata accelerata dalla ripresa del conflitto in fabbrica e dalla paura di non riuscire a rendere definitivamente “governabili” le aziende, per usare il lessico di Marchionne. Berlusconi, troppo preso dalla risoluzione dei suoi problemi personali è stato percepito come inaffidabile per portare rapidamente a termine lo scontro di classe.
Lo scenario che si è aperto negli ultimi mesi è gravido di possibilità, in particolare per la grande domanda di politica insita in una mobilitazione guidata da un’organizzazione sindacale. Prima di analizzare quale sia il possibile intervento da mettere in campo occorre indagare lo stato del nostro partito.
In che stato versa Rifondazione a Napoli?
In seguito alla scissione di buona parte dei compagni facenti riferimento all’ex area vendoliana il partito napoletano è entrato in una convulsa fase di discussione circa la linea politica. In un’organizzazione che si è caratterizzata negli scorsi quindici anni per la partecipazione alle giunte di centrosinistra a tutti i livelli era inevitabile che il dibattito si concentrasse su questo tema e sulle sue conseguenze. Il partito, infatti, oltre ad essere partecipe di tutte le scelte fondamentali delle scorse giunte comunali, provinciali e regionali, ha introiettato una serie di pratiche politiche, diretta conseguenza di questa partecipazione: dibattito diretto dai livelli istituzionali, peraltro spesso autonomi dal corpo militante; costruzione dell’organizzazione dall’alto a discapito del lavoro sui territori e luoghi di lavoro e studio; partecipazione al sottogoverno con immediata ricaduta in termini di composizione del gruppo dirigente, espressione dell’amministrazione e non dei conflitti cui il partito prendeva parte. In sostanza la lunga permanenza nei governi locali ha comportato un progressivo sradicamento del partito dai quartieri popolari e dai luoghi di lavoro ed una sua ricollocazione nei palazzi del potere.
L’aspro conflitto che ha avuto luogo nel cpf di Napoli all’indomani delle passate elezioni provinciali ha avuto la collocazione in queste come suo argomento fondamentale anche se non unico. La spaccatura verticale degli organismi ha avuto come inevitabile esito il commissariamento della federazione. Ad oggi si sono succeduti due commissari, con il conseguente annientamento del dibattito interno, ridottosi negli ultimi due anni a pochi sporadici appuntamenti, quasi sempre in concomitanza con scadenze elettorali. Nonostante ciò il processo disgregativo del partito è proseguito con la fuoriuscita dalla nostra organizzazione di numerosi compagni che facevano riferimento all’ex assessore regionale Gabriele, che hanno rotto a causa della collocazione in alternativa al centrosinistra alle regionali della passata primavera. Il bilancio finale vede le forze del nostro partito dimezzate negli ultimi due anni, così come dimezzata è la presenza sui territori, con circa la metà dei circoli chiusi e molti altri in difficoltà politiche, finanziarie e di iscritti. Cosa ancora più grave è la passivizzazione di interi settori, in particolare di lavoratori, che sfiduciati e privi di una chiara prospettiva si sono defilati dalla militanza. Si è perso un enorme patrimonio di esperienza e di combattività, che non è stato controbilanciato da un sufficiente sforzo di ripresa del radicamento del partito, in particolare nei luoghi del conflitto.
Sul nostro partito pesa ancora come un macigno la partecipazione al governo Prodi, raddoppiato dal prolungato rapporto con il centrosinistra napoletano e campano, che per milioni di cittadini ha l’odioso nome di Bassolino e Iervolino. Questo pone come primo obiettivo per la nostra organizzazione il recupero della credibilità perduta. Per fare ciò è necessario individuare con cura i luoghi in cui investire le nostre forze, che ancora compiono un generoso lavoro di resistenza e radicamento nei comuni, nei quartieri e nei luoghi di lavoro. Occorre ribaltare la piramide della nostra attenzione, negli scorsi anni basata sui vertici del partito, e rimettere al centro la base militante.
Per farlo è necessario un orientamento ben definito, sostenuto da un metodo e da un programma per i più importanti luoghi di intervento, ma non si può trascurare l’importanza della collocazione del nostro partito rispetto alle future elezioni locali.
Un bilancio politico
La svolta a sinistra emersa dal congresso di Chianciano si fondava su un riorientamento verso i luoghi di lavoro ed il conflitto operaio. Dopo anni in cui le teorie postfordiste basate sull’idea di una società liquida, un lavoro atomizzato e l’inattualità della contraddizione capitale-lavoro come principale causa di scontro nella società si riproponeva un orientamento alle fabbriche. La svolta ha generato entusiasmo ed un clima positivo nel partito, in particolare tra i compagni più attivi nella sua costruzione nei luoghi di lavoro e attivi sindacalmente. Anche a Napoli si sono potuti apprezzare i risultati positivi della svolta a sinistra, come testimoniano la nascita ed il rafforzamento di alcuni circoli di lavoro, la ripresa di un dibattito interno al partito sulle modalità di intervento nelle numerose vertenze che sono esplose nella provincia e sulla presenza del partito nella battaglia interna ai sindacati a partire dalla Cgil.
La spinta propulsiva di Chianciano si è, tuttavia, esaurita rapidamente per due cause. La prima è di carattere oggettivo e rimanda alla fase della lotta di classe in cui è caduta. L’orientamento al conflitto operaio è infatti coinciso con la prima fase della crisi, quella in cui i lavoratori sono stati più inerti ed incapaci di resistere alle pressioni. Lo stordimento e la paura generate dalle prospettive nere che si delineavano hanno considerevolmente ridotto la capacità di mobilitazione della classe, per cui è mancata una sponda oggettiva al progetto di Rifondazione. L’altra causa del fallimento della svolta a sinistra è di tipo soggettivo. Sin dalla sua approvazione la svolta a sinistra è stata percepita negativamente da una parte del partito che in alcuni casi l’ha subita, in altri l’ha boicottata. Questo era dovuto all’incapacità di un’ampia parte del gruppo dirigente di comprendere le cause profonde delle sconfitte elettorali e politiche e dall’abitudine, ormai cristallizzatasi, a fare politica in modo diverso dal passato. Un atteggiamento conservatore che ha coinvolto un settore crescente della direzione del partito che ha preferito continuare sulla vecchia strada piuttosto che raccogliere la sfida. Mentre la svolta a sinistra si era scontrata con una robusta resistenza interna, l’inversione a destra è stata prontamente applicata, in particolare dai gruppi istituzionali. Una posizione pilatesca sul dibattito sindacale (leggasi mancato sostegno alla Fiom nell’ultimo congresso Cgil) cui fa da contraltare un atteggiamento di delega passiva agli apparati durante le vertenze; la ripresa delle relazioni con organizzazioni studentesche moderate; il proseguimento di pratiche di sottogoverno in contrasto con l’azione politica dei compagni sui territori (vedi partecipazione all’amministrazione dell’Arin durante la campagna referendaria); infine il ritorno ad alleanza sistematiche con il centrosinistra in quasi tutta Italia hanno caratterizzato la nuova fase. L’ovvia conseguenza è stata la demoralizzazione della base che aveva creduto in una possibilità di ricostruire il partito tra i lavoratori e i giovani.
Lo affermiamo con forza, dal nostro punto di vista le ragioni di una svolta a sinistra per il partito sono ancora centrali e costituiscono l’unico modo per rilanciarne l’azione, a Napoli come nel resto del paese. La situazione di fermento nella classe la rendono più praticabile e necessaria ora che in passato. D’altronde gli episodi più positivi per Rifondazione negli ultimi anni vengono da quel tentativo. Se non ci fosse stato un sistematico lavoro di orientamento alle fabbriche e di radicamento del partito non sarebbe stato possibile rafforzare il circolo della Fiat di Pomigliano, il cui intervento è stato caratterizzante dell’operato dell’intero partito negli ultimi mesi. Ha inoltre dimostrato come sia possibile operare in un luogo di lavoro costruendo consenso e militanza, e, soprattutto, svolgendo un ruolo non meramente passivo, ma di direzione nella lotta.
Bisogna rifuggire da un‘idea di sola testimonianza, rendendoci ininfluenti e inutili agli occhi di chi si mobilita. Non è importante la quantità di interventi e di presenze davanti ai cancelli delle migliaia di aziende in crisi, magari alla ricerca di un secondo sotto le telecamere, conta invece la qualità del nostro intervento, se siamo percepiti come uno strumento utile al conflitto, un valore aggiunto ad esso. La storia recente di Rifondazione ha fatto sì che l’utilità del partito coincidesse per molti compagni con la sua possibilità di rappresentare le lotte in seno alle giunte locali. Non intendiamo sminuire l’importanza che può avere la rappresentanza dei lavoratori nelle istituzioni, ma proporsi come principale obiettivo la presenza ad ogni costo in esse per poi divenire punto di riferimento dei conflitti significa invertire l’ordine delle cose. Tornare ad essere una forza rilevante elettoralmente è la conseguenza del radicamento e dell’utilità politica di un’organizzazione, non la sua causa. Come comunisti individuiamo principalmente nella lotta lo strumento di trasformazione della società, per cui riteniamo che uno scontro condotto in maniera cosciente e organizzata possa ottenere molti più risultati di una delibera o un emendamento. In ultima analisi i lavoratori riterranno Rifondazione il loro partito se sarà in grado di far ottenere dei risultati e dei miglioramenti alle loro condizioni materiali, e questo lo potrà fare solo diventando attore di rilievo nel conflitto sociale e politico nel paese. Se diventerà questo tipo di forza la sua consistenza elettorale sarà l’ovvia conseguenza di ciò. Tra presenza istituzionale e capacità di agire il conflitto occorre compiere una rivoluzione copernicana e riporre quest’ultimo al centro della nostra elaborazione ed intervento.
Alla base di questa rivoluzione va discusso un programma d’azione che chiarisca quali sono i nostri obiettivi nei luoghi principali di intervento.
La centralità del conflitto operaio
L’elemento di maggior novità del panorama politico italiano degli ultimi mesi è dato dalla ripresa del conflitto operaio, che ha riportato al centro del dibattito politico lo scontro tra lavoratori e Confindustria, in una fase in cui questo significa essenzialmente una ridefinizione di tutto l’impianto delle condizioni di lavoro così come erano uscite dalla stagione di lotte operaie degli anni ‘60-70.
Dopo decenni in cui le conquiste operaie sono state smantellate, ora si tenta l’assalto finale, eliminando il contratto collettivo nazionale e lo statuto dei lavoratoti.
L’epicentro di questa battaglia è, com’è noto, il Mezzogiorno, ed in particolare la Campania, a partire dagli stabilimenti di Pomigliano.
Salta agli occhi l’intreccio esistente tra il ricatto di Marchionne e il processo che ha attraversato il nostro territorio negli ultimi decenni
E’ evidente che la crisi economica ha avuto i suoi prodromi in una crisi sociale e di coscienza politica che ha visto il suo epicentro in Campania negli scorsi anni. In regione ed in particolare a Napoli abbiamo assistito negli anni Novanta ad un massiccio processo di deindustrializzazione che ha avuto il suo primo momento fondamentale con lo smantellamento dell’Italsider ed è proseguito con la dismissione dell’intero settore industriale dell’area orientale ed un progressivo indebolimento della presenza industriale nel pomiglianese. A questo processo ha fatto solo in parte da contraltare una crescita del settore dei servizi e del terziario. Quest’ultimo continua ad avere una certa vitalità attraverso la costruzione, in particolare nelle ex aree industriali, di centri commerciali, il più delle volte utili anche al riciclaggio di denaro sporco, che tuttavia non rappresenta un’alternativa credibile all’industria. Per quel che riguarda i servizi essi hanno due differenti facce, da una parte quelli privati, legati soprattutto alle comunicazioni, hanno visto investimenti in città ma non hanno portato uno sviluppo reale, quelli pubblici sono diventati lo strumento privilegiato per il consolidamento di potentati politici di tipo clientelare.
Questo quadro è indubbiamente peggiorato negli ultimi anni, con un aumento costante al ricorso alla cassa integrazione, e l’apertura di decine e decine di vertenze con posti di lavoro a rischio.
Un qualsiasi ragionamento di rilancio del Partito a Napoli non può prescindere da questo contesto drammatico, in cui la crisi comporta uno sfaldamento del tessuto sociale, inserendosi e aggravando il processo di degrado che attraversa la città.
Rimettere al centro del nostro operato la questione operaia significa in primo luogo entrare mani e piedi nelle vertenze che si stanno consumando sul nostro territorio, con un ruolo che non può limitarsi al semplice sostegno solidaristico.
Il caso di Pomigliano in particolare dimostra come un lavoro costante e controcorrente possa rendere possibile quel processo di reinsediamento del partito nei luoghi di lavoro. Processo che anche in questo caso non è né compiuto né definitivo, ma che rappresenta un punto fermo sempre più consolidato e riconosciuto del lavoro del partito.
In particolare il vero salto di qualità di questo lavoro si trova nella possibilità di intervenire all’interno della vertenza, come circolo di fabbrica, formato quindi da quegli stessi lavoratori che sono stati l’avanguardia politica ma anche sindacale dello contro in atto nel gruppo Fiat.
Se l’esperienza di Pomigliano deve dirci qualcosa, al di là dei facili apprezzamenti, ci parla in primo luogo dell’esistenza di una classe operaia giovane che intorno ad alcuni quadri storici politici e sindacali, è stata capace di mettersi in gioco in prima linea nella difesa dei loro interessi di classe.
Il fatto che sia proprio questo stabilimento al centro dello scontro in atto a livello nazionale ci deve far riflettere su come il nostre territorio possa produrre dialetticamente non solo il dramma della disoccupazione e della miseria, ma anche una risposta all’altezza dello scontro in atto, come dimostra il risultato del referendum del 22 giugno e il prosieguo della mobilitazione di questi mesi.
Insieme a Pomigliano è stata Castellammare a guadagnarsi l’attenzione per la lotta che i lavorati di Fincantieri hanno messo in atto nelle scorse settimane.
Il caso di Fincantieri più ancora che quello di Pomigliano ci dimostra come manchi completamente una seria politica industriale in questo paese, un problema che non può essere addossato solo a Berlusconi e al governo nazionale, ma che riguarda a pieno anche le istituzioni locali, specie quelle del Mezzogiorno, al governo da più di quindici anni in Campania.
Proprio per questo dal punto di vista programmatico non è possibile prescindere dal un rinnovato processo di intervento pubblico, a partire dal ruolo che possono giocare gli enti locali, ma inserendoli ovviamente in una battaglia nazionale che deve riprendere il ragionamento sulla nazionalizzazione dei settori produttivi e sul coinvolgimento degli stessi lavoratori in questo processo.
Una sfida non semplice, ma l’unica capace di dare il giusto respiro ad una battaglia epocale sul futuro della produzione in Italia e sul futuro del Mezzogiorno che si sta trasformando in un deserto dal punto di vista industriale.
In un quadro di necessaria autonomia dal PD e dal centro sinistra, il partito deve riprendere una capacità di elaborazione collettiva, in grado di fornire un’interpretazione coerente del processo che stiamo vivendo, ed elaborando una proposta all’altezza dello scontro.
Questa proposta può essere declinata solo a partire dalla valorizzazione delle esperienze di conflitto, unico strumento per incidere sul serio sulle dinamiche sociali in atto.
Ridare centralità al conflitto significa in primo luogo abbandonare equilibrismi istituzionali e impegnare l’intero corpo del partito nel faticoso lavoro di costruzione quotidiana dei rapporti di forza nei luoghi di lavoro.
Solo a partire da questo lavoro è possibile far riguadagnare credibilità e fiducia al partito, considerato agli occhi della stragrande maggioranza dei lavoratori come uno strumento inadeguato e inservibile alla difesa dei propri interessi.
Soprattutto va condotta con tenacia una battaglia per sottrarre il partito al legame malsano con alcuni settori della burocrazia sindacale.
Non è possibile che per un accordo al vertice all’interno della Federazione della Sinistra con l’area di Lavoro e Solidarietà non siamo in grado di portare avanti una battaglia coerente che punti a rafforzare e a costruire la sinistra sindacale (è di pochi giorni fa la costituzione dell’area La CGIL che vogliamo a Napoli e in Campania), e a concentrare le nostre forze nella battaglia che sta mettendo in piedi la Fiom.
Vale la pena ricordare come Lavoro e Società (la costola sindacale da cui è nata l’associazione politica che aderisce alla FDS) abbia sostenuto nell’ultimo CC della Fiom il documento della minoranza epifaniana in Fiom che fa riferimento alla destra di Durante.
Va da sé che questo processo non solo indebolisce il nostro lavoro, ma rafforza il ruolo che Sel fa nella direzione opposta, schierando i propri uomini a difesa della Fiom, col risultato paradossale che Vendola viene percepito come più a sinistra e più coerente dello tesso PRC.
Di questo passo è impossibile qualsiasi azione coerente che punti a rispondere alla mancanza di un’organizzazione capace di rappresentare politicamente il conflitto che la Fiom sta praticando in questi mesi, destinato ad aumentare nel prossimo periodo, accentuando le stesse contraddizioni in CGIL.
Sostenere la battaglia della Fiom non vuol dire un’accettazione acritica dell’operato di questa organizzazione, ma individuare questo conflitto come determinante per definire gli schieramenti in campo.
È inevitabile che la mobilitazione che sta mettendo in campo la Fiom favorirà un processo di polarizzazione tra chi crede ancora possibile una politica in difesa dei diritti dei lavoratori e chi chiude qualsiasi spazio di costruzione di un’alternativa di classe in questo paese.
Questa spaccatura colloca automaticamente, se ancora ce ne fosse bisogno, non solo il PD nel campo degli avversari, ma anche tutti quei settori che in un modo o nell’altro tentano ancora di rilanciare una qualsiasi proposta di concertazione, magari sperando ancora una volta nella sponda istituzionale rappresentata dal centro sinistra in questi anni.
Per quale prospettiva politica lavoriamo quindi?
Lavoriamo affinché attorno alla Fiom e al conflitto operaio si possano aggregare quelle forze disposte a garantire una politica di classe indipendente dai poteri forti in Italia, un polo autonomo e alternativo al PD e al PDL e alle altre forze reazionari, e in grado di ridare voce ai lavoratori in questo paese.
Il PRC può lavorare a questo progetto a partire dal dare un orientamento di lavoro chiaro ai propri iscritti, a cominciare dai lavoratori che pur tra mille difficoltà sono ancora vicini a noi, senza limitarsi a ciò.
Una prospettiva politica di questo tipo ci permetterebbe di riprendere un ragionamento serio sul terreno programmatico per il lavoro a Napoli.
È sempre più urgente infatti la necessitò di aprire una vertenza generalizzata del lavoro, che parta dalla difesa dei posti di lavoro ma che non si limiti a ciò.
Lavoriamo per un progetto in grado di riaggregare ciò che in questi anni si è inevitabilmente scisso, e cioè un settore sociale complesso come quello del proletariato napoletano, riprendendo dalla discontinuità con le politiche di questi anni, riallacciando il dialogo anche con quei settori dei movimenti, a partire dai disoccupati, che comprendono questa necessità.
Difendere il diritto allo studio per difendere il nostro futuro
In una realtà come quella napoletana è imprescindibile trattare della situazione in cui versa l’istruzione pubblica. Quasi dieci anni di amministrazione del centro sinistra ci consegnano un quadro allarmante nel quale il diritto allo studio diventa oggettivamente una chimera. La scuola pubblica subisce ormai da anni un processo di smantellamento che solo come ultimo atto vede le controriforme del governo Berlusconi. Il ministro dell’istruzione Gelmini con il suo progetto di annientamento di ogni più tenue forma di diritto allo studio, e trasversalmente di diritto al lavoro, prevede che nelle scuole pubbliche più di 130.000 posti di docenti ed ATA siano tagliati in tre anni, con conseguenti enormi difficoltà di funzionamento per le scuole e forte riduzione dell’occupazione. La Campania, con 8.200 posti cancellati (circa 6200 docenti e 2000 ATA) è la regione più colpita. Molte sono le conseguenze che derivano da questi tagli e che contemporaneamente riguardano sia gli studenti che i lavoratori della scuola, dai precari al personale tecnico amministrativo. In primo luogo un taglio indiscriminato del corpo docente comporta, a maggior ragione in una realtà come quella napoletana nella quale il problema delle classi sovraffollate è annoso, un loro ulteriore accorpamento che, a partire da quest’anno, vede aumentare notevolmente le classi con più di 30 studenti (fino ad arrivare a punte massime di 33-35 studenti). In una situazione simile sono poche le possibilità di apprendimento e soprattutto molti sono i casi nei quali i programmi didattici subiscono uno sfoltimento, e nelle quali ancora oggi, dopo due mesi dall’inizio dell’anno scolastico, ci sono numerose cattedre vacanti. Secondo un’indagine svolta dalla regione Campania per il Ministero delle infrastrutture, più della metà degli edifici scolastici di Napoli e provincia è fatiscente e presenta elementi di rischio dal punto di vista statico e/o igienico sanitario. Su un totale di 1673 edifici il 50% è considerato inagibile o con gravi problemi strutturali, ma anche quelli considerati agibili non sono del tutto in regola, e solo in pochissimi di questi sono presenti mense e laboratori. È necessario che il nostro partito si impegni in una lotta per un piano edilizio scolastico straordinario che coinvolga studenti, insegnanti e genitori. Dobbiamo inoltre sostenere la lotta degli insegnanti precari rivendicandone l’assunzione per completare le esigenze d’organico. Le numerose lotte che attraversano il mondo della formazione necessitano di un’organizzazione in grado di fare da collante e sintesi politica, un ruolo che Rifondazione deve ambire ad interpretare.
Certamente non è diversa la situazione che si ritrova nelle università napoletane. Anche in questo caso le varie controriforme , che da vent’anni distruggono l’università pubblica, promosse sia da governi di centro destra che di centro sinistra, hanno contribuito allo smantellamento di ogni servizio per gli studenti, di fatto operando una sempre più rigida selezione di classe. Se da un lato aumentano ogni anno gli studenti lavoratori, dall’altro, nonostante l’aumento annuale delle tasse universitarie, vengono di fatto aboliti quasi tutti i servizi per gli studenti. L’azienda che a Napoli nominalmente dovrebbe occuparsi del diritto allo studio, dalle borse di studio alla mensa e dagli studentati ai libri in comodato d’uso, (A.Di.S.U.) ad oggi si limita al primo compito assegnando solo le borse di studio il cui numero dal 2000 ad oggi, ha subito un tracollo vertiginoso. Nell’anno accademico 2000/2001 venivano conferite borse di studio per ventimila euro mentre solo sei anni dopo ne vengono assegnati appena settemila. In questo esiste un trend crescente disastroso che da un parte vede aumentare in maniera esponenziale le domande di borse di studio respinte, dall’altra diminuire i vincitori, nonostante il fatto che quasi tutti i richiedenti hanno i requisiti di reddito per poterla avere I passati governi locali di centrosinistra hanno un’enorme responsabilità nel graduale processo di eliminazione dei servizi per gli studenti, dato che solo pochi anni fa Nicolais allora assessore regionale all’università, ha contribuito alla chiusura definitiva della mensa della Federico II preferendo a questa il servizio esternalizzato e privato dei ristoranti convenzionati.
La situazione di estrema difficoltà che oggi stanno attraversando la Federico II e l’Orientale, quest’ultima nei fatti in bancarotta, è la logica conseguenza di una controriforma targata centro sinistra, ovvero l’autonomia universitaria che ha trasformato gli atenei italiani in aziende con un proprio bilancio. A causa di ciò quest’anno la Federico II ha iniziato a vendere alcuni immobili, con i ricavi dei quali ha momentaneamente chiuso il bilancio in pareggio. Questa soluzione sicuramente non può tranquillizzare gli studenti di quell’ateneo che quest’anno vedranno non solo le tasse aumentare ma anche diversi corsi scomparire per i tagli indiscriminati della riforma Gelmini che falcia in soli tre anni quasi otto miliardi di euro dalle casse dei fondi ordinari.
Mentre gli atenei pubblici sono con l’acqua alla gola dalle casse dello Stato continuano ad affiorare lauti finanziamenti alle università non statali, che quest’anno riceveranno dallo Stato circa novanta milioni di euro.
L’autunno che abbiamo di fronte si apre con diverse mobilitazioni in campo. Tra le più importanti sicuramente ci sono quelle dei precari della scuola e dei ricercatori dell’università, all’interno delle quali dovremmo essere presenti organicamente. Nei prossimi mesi dobbiamo impegnare la nostra organizzazione per intervenire nelle lotte costruendo collettivi o partecipando a quelli già esistenti sulla base di un programma in difesa del diritto allo studio. E’ necessario che il nostro partito sia parte attiva delle mobilitazioni superando i limiti che l’hanno caratterizzato durante il movimento studentesco di due anni fa, durante il quale nonostante molti furono i compagni impegnati in quella mobilitazione la mancanza di un profilo di classe ha fatto sì che il nostro intervento sia stato inefficace e non siamo divenuti punto di riferimento per le migliaia di giovani che vi hanno partecipato.
La questione ambientale e noi
Il fallimento del “piano rifiuti” campano, portato avanti da Berlusconi e Bertolaso, con il pieno sostegno del PD e del centrosinistra campano, è sotto gli occhi di tutti.
Nel maggio 2008 viene stabilita la costruzione in Campania di quattro inceneritori e vengono individuati dieci siti in cui realizzare altrettante nuove discariche dall’attuale Governo e appoggiato dal sindaco Iervolino e dall’ex governatore Bassolino. I suddetti siti sono dichiarati “zone di interesse strategico nazionale di competenza militare” - in cui smaltire anche rifiuti pericolosi. Questo non ha impedito un aumento della TARSU dal 35 all´80% per colmare parzialmente l’enorme debito lasciato dall’emergenza.
A svelare la beffa e il danno del “miracolo berlusconiano” le decine di tonnellate di rifiuti che hanno invaso le strade della città a partire dalla fine dell’estate, ma la soluzione non è stata diversa dal passato:discariche e inceneritori!
Ma i cittadini di Terzigno e di Chiaiano si stanno nuovamente mobilitando assieme ai lavoratori, che stanno lottando per difendere centinaia di posti a rischio nell’azienda privata Enerambiente, cui la giunta Iervolino aveva appaltato parte della raccolta
Mentre la differenziata resta al palo (passata dal 2007 al 2009 dall’11% a quasi il 19% per un costo di 46 milioni di euro e un obiettivo del 50% da raggiungere entro un anno!), la mancanza di impianti di compostaggio costringe a portare l’umido fuori città spendendo quasi 200 euro a tonnellata. Ma l’unica proposta resta sempre e solo una: nuove discariche e nuovi inceneritori!
Sono quindici, ormai, gli anni del commissariamento rifiuti per la regione Campania, e sono stati spesi ben oltre 2 miliardi di euro per uno stato di emergenza che sembra essere stato creato ad hoc solo per intascarsi denaro pubblico senza risolvere la crisi o addirittura peggiorandola come dimostrano le indagini della Procura di Napoli di questi anni. È chiaro sempre di più che questo stato di emergenza è solo un modo per fare pressione sulle popolazioni e costringerle qualsiasi cosa!
A conti fatti lo smaltimento dei rifiuti costa alla popolazione una volta il proprio territorio per le discariche, una volta la tassa sullo smaltimento, una volta parte della bolletta Enel, una volta il parco macchine pubbliche per la raccolta non utilizzate al fine di favorire gli appalti alle imprese private, una volta la disoccupazione del personale pubblico addetto, una volta l’inquinamento atmosferico provocato dagli inceneritori, una volta il sistema parallelo delle discariche abusive gestite dalla camorra .
Il centrosinistra ha contribuito notevolmente alla presente situazione sostenendo la militarizzazione del territorio ed il finanziamento dell’attuale sistema dei rifiuti tramite gli incentivi Cip6 regalando ai privati 1,2 miliardi di euro in cambio di questo disastro.
La questione rifiuti, oltre ad aver rappresentato uno dei principali terreni della propaganda berlusconiana, ha messo in movimento molte delle forze migliori della società, che si sono opposte mettendosi in prima fila a difesa del territorio dalle devastazioni perpetrate dalla politica e dalla malavita nei passati decenni. In queste battaglie si sono spesso distinti i nostri compagni, collocandosi alla testa di esse al fianco dei comitati civici e dei cittadini delle realtà in lotta.
È necessario portare il livello di scontro e di dibattito ai gradini più alti delle scelte strategiche di medio e lungo termine con attenzione anche alle incompatibilità fra l’anarchia produttiva del sistema economico capitalista e le tecnicamente possibili soluzioni “pulite” del ciclo produzione-consumo-smaltimento rifiuti, che richiedono una complessiva capacità di pianificazione ed un parallelo controllo sociale della sua gestione, che può essere ottenuto solo tramite la ripubblicizzazione del settore. Se si ha la capacità di cogliere questo elemento di unificazione con il coinvolgimento del sindacato e la partecipazione della classe lavoratrice si potrà sviluppare un’unica lotta che ponga la questione della salute pubblica e della gestione del territorio su una base più avanzata, che sappia individuare nella ricchezza dei pochi la causa dei disastri ambientali che colpiscono intere popolazioni. Unire le lotte presenti sul territorio nazionale e coordinare i comitati di lotta diventa una necessità del prossimo periodo e questo deve essere la priorità per il Partito della Rifondazione Comunista a livello locale e nazionale.
La deriva reazionaria e il nostro antifascismo
A Napoli, come in tutto il paese, assistiamo ad una deriva reazionaria, in cui la retorica razzista, sessista e xenofoba della lega trova una sponda nelle organizzazioni fasciste sotto lo sguardo accondiscendente del Vaticano e dei poteri forti. Questo si è tradotto nelle numerose aggressioni a danno degli immigrati, delle donne, degli omosessuali ed in generale dei settori più deboli della società che abbiamo visto susseguirsi nella nostra città. È evidente che questo processo si sposa con un clima di repressione nella società, che tenta di criminalizzare qualsiasi forma di dissenso o di non omologazione, che utilizza le organizzazioni di estrema destra come braccio armato per ripristinare l’ordine nei quartieri e nei luoghi di lavoro. L’aggressione squadristica organizzata dal padrone contro i lavoratori di Eutelia fa il paio con gli assalti ai consultori e le cariche dei fascisti di Casa Pound contro i cortei dell’Onda. Il ricorso alle organizzazioni fasciste è un’arma tradizionale del padronato, che le utilizza come strumento per indebolire e dividere i settori subalterni, per accrescerne lo sfruttamento e sconfiggerne le lotte. Il retroterra culturale di ciò è la critica della Resistenza come momento del conflitto tra sfruttati e sfruttatori, che sotto il nome di revisionismo storico ha visto cimentarsi politici provenienti da tutti i partiti, a partire dal PD.
Anche in questo caso, però, la reazione razzista e fascista ha messo in moto forze positive di resistenza. Esemplari il caso di Materdei, dove il tentativo di insediare un centro sociale da parte di Casa Pound, favorito da una debole risposta da parte del PD cittadino, ha prodotto un rapido processo di mobilitazione da parte di giovani e abitanti del quartiere, ed il Gay-pride che si è tenuto in città e che ha avuto un’adesione di massa proprio in risposta alle aggressioni dei mesi precedenti. Di fronte a questo processo di presa di coscienza è necessario che il nostro partito metta in campo un intervento strutturato, che sia equidistante dal radicalismo minoritario di alcuni settori dell’antifascismo e dal moderatismo che tende ad istituzionalizzare la Resistenza privandola della sua carica rivoluzionaria. Dobbiamo operare su due fronti, di difesa della memoria storica e di contrasto politico del fascismo, del razzismo e della deriva clericale che vanno tenuti insieme. Dobbiamo intervenire nelle lotte antifasciste e antirazziste collegandole alla difesa dei diritti sindacali, politici e sociali per rafforzarle e farle divenire patrimonio comune dei giovani e dei lavoratori della città. Solo se queste tematiche diventano patrimonio comune e terreno di una lotta di massa è possibile respingere l’offensiva in campo. La retorica sociale di destra si batte proponendo un piano di riqualificazione dei quartieri popolari con un piano straordinario di edilizia popolare a Napoli e provincia; mettendo al servizio degli immigrati le scuole per corsi di lingua italiana che ne favoriscano l’integrazione e che diano lavoro alle migliaia di giovani laureati napoletani altrimenti costretti all’emigrazione; attivando una campagna per moltiplicare, in particolare nei territori più difficili, i consultori sanitari. Dobbiamo, insomma, proporre un antifascismo popolare e di classe che renda difenda la memoria della Resistenza facendone rivivere i valori nelle lotte di oggi.
Quale collocazione alle prossime comunali?
Abbiamo già detto dell’importanza che ha avuto la nostra stabile collocazione nel centrosinistra a tutti i livelli in Campania, in particolare per quel che riguarda le ricadute sulla nostra organizzazione, ma questo non esaurisce il problema. Dal nostro punto di vista sono due gli elementi di analisi da tenere conto per le prossime comunali, in particolare a Napoli: un bilancio della nostra azione nelle giunte; quanto è conseguente e utile alla nostra proposta politica una determinata collocazione elettorale. Altre considerazioni rischiano di farci cadere in logiche politiciste e dannose. In particolare riteniamo profondamente errato introdurre ragionamenti che collegano l’esistenza del nostro partito alla nostra presenza istituzionale, riferendosi alle disastrate finanze dell’organizzazione. Se si entra in una logica in cui la nostra linea politica dipende dai soldi si compie l’ennesimo errore di rovesciamento delle priorità. Un’organizzazione con una linea politica efficace deve essere in grado anche di autofinanziarsi per mantenere la propria indipendenza, se invece il finanziamento diviene più importante della linea non ci sono modi per rilanciarla e, prima o poi verrà annientata. I partiti scompaiono per le scelte politiche errate, ma se sono corrette e si ha la perseveranza di portarle avanti il problema del finanziamento diventa relativo. Inoltre la minaccia della scomparsa del partito è stata una delle armi fondamentali per far accettare scelte non condivise da molti militanti negli scorsi anni e che hanno condotto il partito allo stato attuale.
Siamo in giunta comunale a Napoli dal 1993, quindi dopo 17 anni il bilancio non può che essere complessivo e netto. Dal nostro punto vista esso è estremamente negativo. Innumerevoli sono stati gli ordini del giorno presentati dai nostri istituzionali, così come gli interventi e le correzioni di linea che caratterizzano l’azione di governo, ma un bilancio si basa sulla capacità di essere percepiti come una forza che è stata in grado di modificare significativamente le condizioni di vita e lavoro dei ceti popolari. Un elenco di singole cose positive fatte nelle istituzioni rischia di distogliere l’attenzione dal nostro obiettivo che è il cambiamento della società, non lenirne gli effetti più devastanti. Su tutti gli aspetti fondamentali noi siamo risultati uguali ai nostri alleati ed incapaci di qualificare l’azione dei governi di centrosinistra.
Nonostante alcune stabilizzazioni non siamo stati in grado di impedire che si sviluppasse un processo di precarizzazione della pubblica amministrazione. A questo non ha fatto da contraltare un rilancio industriale, al contrario la provincia ha visto un sistematico smantellamento di tutto l’apparato produttivo che non è ancora terminato, come dimostra la vicenda Fincantieri. Il tentativo di contrastare la perdita di lavoro trasformando le aree produttive in aree commerciali e per i servizi si è rivelata fallimentare, poiché ha creato nuove enormi sacche di precariato che non hanno sostituito numericamente i posti di lavoro persi, mentre le aree degli stabilimenti dismessi sono diventate terreno di enormi speculazioni. Le passate amministrazioni cittadine hanno prospettato uno sviluppo per la città legato al turismo, che si è visto essere del tutto insufficiente rispetto alla situazione della disoccupazione in città ed in tutta l’area metropolitana. Emblematica in tal senso è la vicenda di Bagnoli, che il centrosinistra cittadino aveva elevato a modello dello sviluppo della città e negli anni si è trasformata nell’icona del suo fallimento, con i notevoli ritardi che hanno caratterizzato i lavori, la speculazione e devastazione ambientale che seguirà. In tema di ambiente si sono susseguiti fallimenti su fallimenti, essendoci trovati a gestire come parte in causa la serie di emergenze degli ultimi anni. Pur avendo sostenuto le lotte dei territori abbiamo ingoiato ripetutamente l’amaro boccone del piano rifiuti con aperture di discariche e costruzione di inceneritori. In tema di diritto allo studio l’assunzione di alcune centinaia di precari non rappresenta un grande successo rispetto alla cronica carenza infrastrutturale. Ad aggravare la situazione è il modo in cui è avvenuto tutto ciò, con il nostro partito spesso spaccato orizzontalmente sulle singole decisioni, con i compagni di base impegnati in battaglie che avevano come controparte gli istituzionali del partito, depotenziando l’efficacia del lavoro generoso sui territori.
Bisogna aggiungere che la scelta di sostenere il centrosinistra come antidoto all’avanzata delle destre ha rivelato la sua inefficacia alle scorse elezioni provinciali e regionali, dove la destra ha stravinto proprio grazie al fallimento delle precedenti amministrazioni, che ha travolto innanzitutto il nostro partito.
Non basta l’esperienza delle passate amministrazioni segnalare le distanze che esistono tra Rifondazione e il resto del centrosinistra, in particolare dal PD. Se la lotta di Pomigliano ha tracciato un solco tra le forze dei lavoratori e quelle liberiste, il PD ha dimostrato ripetutamente di collocarsi tra queste ultime. Anche sulle questioni ambientali le distanze tra la nostra proposta e quella del PD sono abissali e non si sono ridotte negli ultimi tempi, anzi la volontà di costruire l’inceneritore a Napoli est le rende sempre più incolmabili. La differenza maggiore rimane inoltre su due temi, ossia quello dei beni comuni e della gestione pubblica dei servizi. Su questi temi basta dire che il partito di Bersani è il principale sostenitore della privatizzazione dell’acqua, come ha dimostrato durante la recente campagna referendaria, mentre il tavolo di confronto per le future comunali ha sancito la volontà di procedere speditamente verso una completa esternalizzazione dei servizi, con tutte le conseguenze relative alla qualità degli stessi e del lavoro.
Un serio tentativo di ricostruzione del partito non può prescindere da un intervento di classe, ma questo è in contraddizione con una collocazione nella coalizione di centrosinistra, peraltro estremamente screditata agli occhi dei cittadini napoletani. Le elezioni sono una parte, senz’altro importante, ma non unica del lavoro di un partito e deve armonizzarsi e favorire gli altri campi d’intervento, non contrastare con essi. Un partito che abbia nel conflitto operaio il suo fulcro non può tradire le sue ragioni sociali collocandosi con i partiti che le negano in tutti gli aspetti fondamentali.
Non crediamo che una corretta collocazione risolva i problemi di un partito, che sia sufficiente a qualificarne l’azione. I risultati negativi di Rifondazione alle ultima provinciali e regionali dimostrano che una scelta corretta senza il sostegno di un lavoro precedente è inefficace. Rifondazione ha conseguito in tutte le regioni risultati più o meno uguali, a prescindere dalla partecipazione o meno alla coalizione di centrosinistra, perché la sua politica complessivamente era debole e in Campania come in Lombardia la scelta di andare contro il centrosinistra è avvenuta in maniera titubante e dopo anni di collaborazione con esso, nella nostra regione sotto l’egida di Bassolino.
Presentarsi alle elezioni come alternativi al PD non vuol dire restare isolati. Le ridotte forze di Rifondazione non sono in grado di rappresentare il crescente dissenso alle politiche liberiste di Berlusconi e Bersani, per cui diventa necessario cercare di incrementare la nostra massa critica. Tuttavia dopo le recenti esperienze di cartelli elettorali quali la Sinistra Arcobaleno dobbiamo superare un’impostazione verticistica che si basa sulle sommatorie. Esiste, ed è sotto gli occhi di tutti, il problema della frammentazione a sinistra e della mancanza di un soggetto politico che abbia la massa critica per ridare fiducia ai lavoratori in questo paese.
Un processo riaggregativo di questo tipo potrebbe porsi l’ambizioso progetto di ricostruire un nuovo soggetto di classe, dentro il conflitto e attorno alla Fiom, provando a giocare quel ruolo di rappresentanza politica conflittuale e capace di incidere di cui tanti sentono la mancanza
Un processo molto diverso della Federazione della sinistra che proprio per il suo moderatismo e per gli accordi al vertice è incapace di esercitare qualsiasi attrattiva.
Il partito che vogliamo
Non possiamo infatti che concludere parlando del partito che abbiamo in mente. Se il luogo della nostra azione devono essere sempre più i luoghi di lavoro, le scuole, le università e le zone popolari delle nostre città il motore del nostro partito deve essere la sua base. Il primo compito della nostra organizzazione deve essere la rivitalizzazione dei circoli da attuare a partire dal programma sin qui delineato, che noi intendiamo come uno strumento utile per l’azione. I circoli devono essere protagonisti del rilancio del nostro intervento sviluppando campagne sui territori, intervenendo nelle lotte più importanti di tipo sindacale, studentesco, ambientale e politico generale. Gli organismi dirigenti dovranno mantenere una relazione costante con i territori e vincolare il proprio dibattito e la propria analisi all’intervento sui territori, essere un luogo di dibattito reale in cui i migliori attivisti possano discutere come condurre al meglio le vertenze e dispongano degli strumenti utili a farle avanzare.
Ci immaginiamo un partito ribaltato rispetto a quello degli ultimi anni, in cui i cpf erano luoghi impermeabili ai processi reali che si sviluppavano nella società, sede di confronto tra cordate piuttosto che tra opzioni politiche, luoghi di spartizioni interne e non di assegnazioni di responsabilità su cui riferire al partito.
In questo senso il processo di costruzione della Federazione della sinistra in cui è profondamente coinvolto il nostro partito ci vede contrari. Lungi da noi, come abbiamo detto, rifiutare aprioristicamente un processo aggregativo alla sinistra del PD, ma le modalità con cui questo sta avvenendo sollevano più di qualche dubbio. Quello che emerge fino ad ora è l’ennesimo cartello frutto degli accordi dei gruppi dirigenti, più interessati ad auto tutelare la propria esistenza che a promuovere un soggetto di classe. Lo ribadiamo con forza: per noi qualsiasi processo aggregativo deve avere le sue fondamenta nella classe e nel conflitto. Qualsiasi altra soluzione rischia di ripetere in forma ancora più farsesca le passate esperienze, come ci sembra stia avvenendo per la Federazione, che nascerà con un congresso in cui la linea politica e le divergenze, anche notevoli, esistenti al suo interno verranno messe alla porta per non turbare equilibri stabiliti a tavolino senza alcun coinvolgimento della base. Il tempo delle ammucchiate senza principi è finito, è giunto il momento di costruire una forza di classe a Napoli e in Italia in grado di affrontare le sfide che abbiamo davanti.
Vittorio Saldutti, segretario circolo università
Domenico Loffredo, segretario circolo fiat-avio Pomigliano
Pietro Capitano, segretario circolo Frattaminore
Anna Arena, esecutivo provinciale G.C.
Antonio Santorelli, federazione di Napoli – CPN
Massimiliana Piro, circolo università