Rendiamo disponibile sul nostro sito questo articolo di Sonia Previato, pubblicato sulla rivista "Su la testa - Materiali per la Rifondazione comunista", numero 5 del giugno 2010.
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In questi anni la destra stabilmente al potere ha operato una obiettiva svolta autoritaria nella società, drammaticamente evidente nell’asprezza con la quale sono trattate le donne e i loro diritti.
La legislazione che faticosamente ancora tutela i diritti delle donne (aborto, divorzio, parità giuridica dei coniugi, ecc.) viene dalla stagione delle grandi lotte degli anni ’70.
Solo con la riforma del diritto di famiglia nel ‘75 venne riconosciuta la parità giuridica dei coniugi, venne superata la patria potestà per essere affidata ad entrambi i genitori, abrogato l'istituto della dote, venne riconosciuta ai figli naturali la stessa tutela prevista per i figli legittimi, venne istituita la comunione dei beni, come regime patrimoniale legale della famiglia (in mancanza di diversa convenzione). A varare tale riforma era il quarto governo Moro, a sostegno Dc e Pri. Uno dei firmatari era tal Oronzo Reale, lo stesso che fu estensore della tristemente famosa legge “antiterrorismo”. Negli anni ’70 si alternano governi monocolore Dc a governi di coalizione, di carattere conservatore. Tuttavia quelli furono anni di grandi movimenti e di grande instabilità politica che partorirono grandi riforme.
Possiamo dire, sommariamente, che non esiste un legame diretto fra caratterizzazione conservatrice delle forze di governo e riforme legislative.
Come sosteneva Rosa Luxemburg in Riforma sociale o rivoluzione, “la costituzione giuridica è di volta in volta solo il prodotto della rivoluzione”.
Quanto è vera questa affermazione in relazione ai diritti delle donne! L’oppressione delle donne è millenaria; il capitalismo ha abilmente sfruttato l’ideologia patriarcale per garantirsi un bella metà della popolazione mondiale come manodopera di serie B. Ciò era vero all’inizio del XIX secolo nella rivoluzione industriale, ma non è meno vero oggi, dove permangono una differenza salariale importante fra uomini e donne e condizioni di lavoro largamente peggiori per le donne, rese possibili dal perpetuarsi di quella stessa ideologia patriarcale che, in nuove forme, promuove la donna soggetto sempre subalterno.
In questo secolo e mezzo tante rivoluzioni e controrivoluzioni hanno fissato norme e diritti frutto dei rapporti di forza nella società e hanno fissato anche idee e ideologie frutto degli stessi rapporti, peraltro sempre mutevoli.
Rispetto agli anni ’70, oggi il potere legislativo non deve contrastare o contenere la spinta radicale del movimento, tantomeno, purtroppo, di un movimento rivoluzionario, e le forze conservatrici che ci governano possono guidare l’affondo ai diritti codificati nel passato.
Possiamo trovare nella legge 40/2004 sulla fecondazione assistita il punto di svolta, nel quale una norma giuridica è palesemente contro il diritto di autodeterminazione delle donne: lo Stato decide sul corpo delle donne e definisce un pezzo di quel corpo, l’embrione, soggetto giuridico da tutelare.
Questa svolta si innerva nella debolezza del movimento delle donne e del movimento operaio, intendendo con esso la subordinazione dei gruppi dirigenti della sinistra, del centro-sinistra e sindacalialle compatibilità capitalistiche. Manca da decenni un punto di vista autonomo e riconosciuto degli oppressi. La nostra Rifondazione comunista e il suo gruppo dirigentedeve scalare le montagne, è nostro auspicio che la presente rivista possa fornire, almeno in parte, il carburante necessario all’impresa.
Il centro-destra al governo nazionale con Berlusconi e la conquista di importanti Regioni da parte della Lega ci presentano un conto molto salato.
L’aggressione al diritto di autodeterminazione delle donne viene portato avanti sia sul piano ideologico che su quello delle condizioni materiali, fa parte di una visione retriva del ruolo delle donne nella società, che la destra alimenta sfacciatamente.
Come si manifesta tale visione?
Il punto di partenza è lo stato sociale universalistico. Ecco quanto affermava il Ministro Sacconi nella presentazione del libro bianco: “la libertà di scelta e di iniziativa delle persone è spesso compressa dalla invadenza di un attore pubblico che non sempre è in grado di garantire adeguati standard qualitativi dei servizi essenziali. Non di rado lo Stato si sostituisce al cittadino nelle sue decisioni con strutture viziate da ricorrente autoreferenzialità. Ciò diffonde una cultura assistenzialista che comprime il senso di autonomia e responsabilità”. Lo Stato non è responsabile di garantire alcunchè, riduce la spesa sociale e consacra il lavoro privato non pagato delle donne a pilastro fondamentale della stabilità sociale. Questo è un principio cardine sul quale la destra e la classe dominante poggiano la loro risposta alla crisi capitalistica.
Esso si traduce nella politica del bonus, della dote con i quali vengono monetizzati i servizi e la sussidiarietà fra pubblico e privato. La regione Lombardia è all’avanguardia (ma Pietro Ichino, giurista Pd, è perfettamente allineato a questo modello). Ci sono bonus per tutto: per il diritto allo studio, per pagare le bollette, per l’accompagnamento agli anziani, per pagare l’affitto, recentemente sono stati proposti anche per non abortire. Attraverso il principio della sussidiarietà in campo sanitario Formigoni ha trasferito risorse enormi alla sanità privata. Giunti all’impossibile cifra di 4,5 miliardi di deficit nel 2002, la regione ha parzialmente risolto i problemi di bilancio introducendo i ticket, tagliando i posti letto nel pubblico a vantaggio del privato e soprattutto sfasciando la sanità territoriale.
Oggi solo il 3,1% degli anziani viene seguito dall’assistenza domiciliare integrata pubblica, degli altri se ne occupa la famiglia, cioè in primo luogo le figlie e, per chi se lo può permettere, le badanti. I Servizi alla tossicodipendenza in sette anni sono passati da 81 a 71, mentre l’utenza cresceva del 20%. Stessa sorte per i centri territoriali che offrono servizi di cura della malattia mentale, addirittura a Milano s’è iniziato a parlare di reintrodurre la pericolosità sociale e la schedatura dei sofferenti psichici. Mancano servizi inclusivi adatti ad intervenire nella complessità? La risposta è la reclusione. Il PdL ha presentato tre proposte di legge per modificare o abrogare la legge Basaglia. L’evoluzione gelminiana dell’autonomia scolastica propone la scuola di ogni ordine e grado on demand a seconda di cosa ogni istituto è in grado di fornire, sia in termini di orario che di offerta formativa. Sulle famiglie ricade la responsabilità di cercare autonomamente di coprire i buchi del sistema formativo pubblico, attraverso la formazione privata o promuovendo la raccolta fondi per il pubblico. In questo quadro il corpo docenti viene responsabilizzato delle lacune del sistema formativo e le famiglie colpevolizzate di non educare abbastanza i propri figli. Tutti hanno “gravi” responsabilità, tranne lo Stato.
Non è irrilevante ribadire che chi si occupa dei figli, degli anziani, della salute dei propri cari nelle famiglie sono, in larghissima parte, le donne.
Se le donne in Italia devono occuparsi di tutto questo in solitudine, per curare la riproduzione di chi si vende sul mercato del lavoro è inevitabile che la loro presenza su quello stesso mercato sia ferma al 46%, 12 punti sotto la media europea.
Poi si aggiungono le campagne volgari e oscurantiste per demolire quel poco che resta del diritto all’aborto. Formigoni che offre 1500 euro alle donne in difficoltà economica a patto che rinuncino ad abortire, la Società italiana dei ginecologi propone di internare le donne che si macchiano di infanticidio, le Regioni del centrodestra ostacolano l’utilizzo della Ru486, che consente l’aborto farmacologico, e costringono le donne all’ospedalizzazione di tre giorni per accedervi. Nessuno dice che i consultori familiari che, teoricamente dovrebbero aiutare le donne nel difficile percorso di appropriazione della propria sessualità, non hanno mai raggiunto il livello numerico stabilito per legge (uno ogni 20mila abitanti), la stragrande maggioranza di essi non ha personale medico qualificato a sufficienza, prevale la presenza di operatrici precarie e malpagate, i giorni e gli orari di apertura sono quanto mai ridicoli, non hanno legami con il territorio e nemmeno con le strutture ospedaliere di ginecologia.
Viene promosso il familismo più sfacciato, che ricaccia il rapporto fra i sessi indietro all’era precedente alle riforme degli anni ‘70. Viene avanti un’angosciante sistema opprimente che falsifica la schiavitù chiamandola libertà.
Queste campagne volgari e oscurantiste si calano tuttavia in un contesto di molteplicità dei modelli culturali che necessiterebbe una analisi approfondita che va oltre i confini di questo articolo.
Non siamo più un paese contadino come nel dopoguerra, l’Italia è addirittura annoverata fra le Grandi potenze del mondo. Ai cambiamenti di natura economica e sociale si aggiungono quelli culturali, anch’essi frutto del conflitto sociale. Miracoli del ’68 e della rivoluzione sessuale, le donne lottano per tenersi strette le proprie conquiste, si ribellano alla subalternità nel mondo del lavoro e nella relazione con l’altro sesso.
Eppure anche quelle libertà sono oggetto di profonda modifica. Così la libertà rivendicata nel ’68 di mostrare il corpo per appropriarsene diventa anche e sempre di più, nelle campagne pubblicitarie, nelle donne di potere o vicine ad esso, la libertà di metterlo in vendita.
Il modello femminile che usa il proprio corpo per la scalata sociale, le veline che diventano ministre o si sposano il calciatore non sono un modello di libertà dell’uso del corpo, sono il segno della sua mercificazione a cui le donne stesse decidono di sottostare. Corpi ad uso e consumo, corpi non per sè stesse, ma quale merce di scambio, facili vittime della violenza maschile.
Negli ultimi anni grandi sono state le mobilitazioni delle donne in difesa dei propri diritti. Un movimento come Usciamo dal Silenzio e il corposo panorama di collettivi e formazioni femministe contro la violenza alle donne hanno dato vita a iniziative di lotta e manifestazioni che hanno coinvolto centinaia di migliaia di donne. Donne consapevoli dei propri diritti, della propria storia di lotte e di conquiste e dell’arretramento in corso. Questi movimenti non hanno tuttavia invertito la tendenza.
Ci sono ragioni politiche generali, che non è mio compito investigare qui. Mi preme sottolineare un punto. Una grande maggioranza di donne e mi riferisco in particolare alle donne lavoratrici, considera ineluttabile e inevitabile la propria condizione. Come si può non occuparsi dei propri figli, dei genitori, mariti, fratelli, ecc. C’è una logica stringente in tutto questo.
Dobbiamo emanciparci dalla semplice difesa delle battaglie del passato, dalla riaffermazione quasi rituale del diritto all’autodeterminazione per definire un piano vertenziale e rivendicativo attraverso il quale quel diritto può effettivamente essere esercitato, quei valori possono acquisire senso reale.
Non si tratta di buttarsi in un vertenzialismo economicista per eludere la battaglia culturale sulla lettura della nostra condizione e sui ruoli. Si tratta di rendere comprensibile quella battaglia.
Guardiamo alla condizione delle donne impiegate nei lavori meno gratificanti, nei centri commerciali, alle quali è stato propinato pure l’obbligo del lavoro domenicale, in quelle nuove catene di montaggio che sono i call center, nell’impiego pubblico, nell’università, nella scuola, nella sanità, dove in tutti i settori dilaga la logica dell’appalto, del subappalto e della precarietà e dei progetti di lavoro senza orari, né tutele. Il 60% del lavoro precario è femminile. Sono giovani donne e meno giovani che vivono la condizione lavorativa come un passaggio obbligato e spesso umiliante; molte, le più giovani, pensano di poterlo mitigare costruendo una famiglia, dove trovare gratificazione. E quanto è amaro scoprire fra di noi quanto il doppio carico, casa e lavoro, sia spesso insostenibile. E quanto la famiglia sia un’altra catena di montaggio nella quale però sono pure richiesti amore e dedizione, dai quale nessuna sente di potersi sottrarre.
Entriamo allora nel merito su come scardinare questo meccanismo infernale, entriamo nel merito dei contratti di lavoro, che ancora esistono, facciamoci promotrici di far sentire la voce delle delegate sindacali e quando serve non temiamo di entrare in conflitto con sindacalisti troppo cedevoli. Iniziamo una campagna vera per il salario minimo intercategoriale e un sussidio di disoccupazione per uomini e donne, per non essere schiavi di condizioni materiali sempre più avvilenti. Apriamo vertenze contro la monetizzazione dello stato sociale (anche quando c’entra un assessore di centrosinistra), contro la chiusura dei consultori pubblici, e di tutte le strutture territoriali dello stato sociale. E diciamolo: lottiamo per la socializzazione del lavoro domestico e di cura. Forse può parere una follia in Italia, ma perchè non possono esistere assieme alle municipalizzate dell’acqua, della raccolta dei rifiuti e quant’altro, anche le municipalizzate per la pulizia delle case, o per i servizi di ristorazione, di lavanderia o la cura dei bambini, degli anziani?
Le donne e gli uomini senza reddito o con reddito da lavoro dipendente dovrebbero avere accesso gratuito a questi servizi nelle modalità che ognuno individualmente decide. So bene che questa è l’era della privatizzazioni, dell’acqua, dell’aria, tutto è merce da cui trarre profitto, ma se non vogliamo essere guardiani polverosi di ricordi di antichi fasti, dobbiamo ampliare gli orizzonti e puntare in alto, e provare a mirare all’essenza del problema. Qualcuno pensa che questo lo possiamo scrivere qui, ma che rappresenta un orizzonte politico impossibile. Milioni di donne conducono una vita impossibile, davvero impossibile. Perchè loro sì e noi no, perchè noi, le politiche e politici di sinistra, dobbiamo stare tranquilli nel nostro “possibile”? D’altra parte non si scardinano modelli culturali millenari, se non si sfida il potere economico dei dominanti.
Giugno 2010