I crescenti attacchi alla legge 194 sono occasione per mettere in luce la scarsa risolutezza delle forze “democratiche” nel contrastare l’offensiva portata avanti dalla destra. È solo ignavia? No: il centro-sinistra partecipa attivamente alla medesima opera di devastazione.
Gli stessi personaggi che proclamano «senza strumentalizzazioni politiche» quanto hanno cara la dignità delle donne, si guardano bene dallo spiegare come hanno intenzione di difenderla. E ne hanno ben donde: con quale faccia le “forze laiche e progressiste” potrebbero giustificare una politica sociale basata sull’affidamento delle donne a organizzazioni integraliste incaricate di vigilare sulle loro scelte riproduttive nell’interesse della famiglia e della “vita nascente”?
Ecco il racconto di una folgorante storia d’amore e di interessi tra classi dirigenti riformiste e terzo settore cattolico, propiziata dalla affermazione della sussidiarietà dello Stato e determinata ad assicurare alle organizzazioni integraliste il controllo delle fasce più deboli della popolazione femminile.
Modena, Policlinico, 6,30 del mattino: da dieci anni, i militanti dell’associazione Papa Giovanni XXIII - quella di don Benzi, il fustigatore dei gay e delle provocatrici che inducono gli uomini alla violenza sessuale - si riuniscono all’ingresso del Policlinico nella giornata delle interruzioni di gravidanza. Crocifissi grandezza naturale, rosari, austeri vegliardi oranti: un delizioso quadretto di sapore ottocentesco. Sono innocui momenti di «preghiera per la vita nascente», dicono loro: ma attenzione, ecco che dietro al crocifisso spuntano volantini antiabortisti, cartelli intimidatori, riferimenti alle mani assassine dei ginecologi. Altro che preghiere, sono presidi politici contro la legge 194 e violenti attacchi contro le donne, caratterizzati dalla misoginia oscurantista dei pasdaran della cristianità.
Alcune donne molestate degli integralisti, nel diplomatico silenzio delle istituzioni, denunciano il fatto e l’Udi convoca un’assemblea, moderata con ipocrisia bipartisan dalla giornalista di un foglio locale destrorso legato a Dell’Utri: invitati d’onore l’assessore Pd alle Politiche Sociali e, guarda un po’, i rappresentanti della Papa Giovanni e del Movimento per la Vita. Certo, bisogna dialogare con tutti, insegna il galateo riformista. Con quale risultato? Garantire agli antiabortisti una copertura istituzionale, in cambio della rinuncia – momentanea! - a esplicitare coi cartelli il carattere politico dei presidi. Costretta ad ammettere a denti stretti l’esistenza di fondi pubblici destinati alla Giovanni XXIII e irritata dall’indisponibilità delle presenti a “dialogare” con gli antiabortisti, l’assessore si affretta a proporre un più accomodante tavolo di consultazione fra il Comune («casa mia», come l’assessore ama definirlo), l’Udi e la Giovanni XXIII. E a chi non si spalancherebbero le porte di “casa”, pur di accumulare crediti presso le gerarchie ecclesiastiche? Così è stato: la Giunta ha istituito un fondo di 30.000 euro per maternità difficili da gestire con gli antiabortisti. «Un modo per garantire il diritto a non abortire, che ogni società civile deve assicurare», commenta Avvenire, indicando nell’esempio modenese un modello da imitare.
Davanti alla volontà delle istituzioni di sottrarre risorse al servizio pubblico e cancellare ogni traccia di autodeterminazione femminile, il Collettivo Femminista Prc, assieme al Collettivo autonomo Assedonne ha iniziato un percorso di opposizione che coinvolgesse dal basso la cittadinanza e altre organizzazioni di sinistra. Ma, anche in relazione alle tematiche di genere, facciamo i conti con pesanti arretramenti delle coscienze: nessuna organizzazione ha risposto all’appello e le dirigenti dell’Udi si sono dissociate dalle nostre iniziative, confidando nei canali istituzionali, a dispetto delle collusioni di questi ultimi con gli antiabortisti.
Dopo due contropresidî, nel sacro sdegno della stampa locale e del PD, si è tenuta un’assemblea partecipata soprattutto da donne in cui, a partire dalla critica agli antiabortisti, si sono affrontate questioni più ampie legate al problema di genere. Quello che succede a Modena, infatti, è solo uno dei tanti episodi che dimostrano il nesso tra il disimpegno delle istituzioni in materia di diritti sociali e il trasferimento di quote sempre maggiori di risorse e poteri ad associazioni che agiscono fuori da qualsiasi monitoraggio. Simili episodi evidenziano il legame tra una crisi economica che espelle un numero crescente di lavoratrici o le costringe ad accettare contratti sempre più precari e dequalificanti e il revival ideologico che esalta i valori della cura e del sacrificio come supreme virtù femminili.
Esiste un rapporto preciso tra l’intensificazione dello sfruttamento capitalistico e il doppio carico di lavoro che grava sulle donne e che esonera lo Stato da spese che dovrebbero ricadere sul pubblico. Non sempre le donne ne sono consapevoli: per prenderne coscienza occorre riscoprire il valore della lotta; a nulla vale invece la miseria ideologica e culturale del femminismo interclassista che abbiamo visto sfilare (e poi rifluire nel nulla) lo scorso 13 febbraio.