“Produttività o morte”, strepitano i padroni. La produttività è persino patriottica e Napolitano, nel suo ennesimo monito (in questo è produttivo), invita i politici a votare una riforma del mercato del lavoro che “accresca la produttività”. I vertici sindacali, Cgil compresa, si affannano a promettere a Confindustria una collaborazione per aumentare la produttività del “sistema Italia”, nella speranza di ottenere tavoli di confronto. Ma cosa c’è dietro questa ossessione?
Non sono una novità né le chiacchiere reazionarie di Brunetta sui “fannulloni” né quelle di Marchionne, altrettanto reazionarie, sugli operai che si assentano dal lavoro per guardare le partite di calcio. È una ideologia comoda per chi vive del lavoro altrui.
Già nel Settecento, agli albori della prima rivoluzione industriale, la pubblicistica borghese britannica era piena di invettive contro la “scioperatezza” degli operai. Guidati dalla sete di profitto, i capitalisti hanno assunto tutte le maschere ideologiche utili ad asservire meglio i lavoratori. Sono stati laici per cancellare le festività religiose ereditate in gran quantità dal Medio Evo (nel ’600 i minatori della Baviera avevano più di 150 giorni festivi all’anno!); sono da sempre religiosi se ciò serve per infliggere ai lavoratori una dose di rassegnazione sulla possibilità di una vita felice. Thiers, politico liberale francese, nel 1849 affermava di voler “rendere onnipotente l’influenza del clero, poiché conto su di esso per propagandare la buona filosofia che l’uomo si trova quaggiù per soffrire e non quell’altra che, al contrario, dice all’uomo di gioire.”
Dove nasce il profitto?
Il sogno di ogni capitalista è di trasformare ogni secondo della giornata lavorativa di un proprio lavoratore in azioni produttive di nuovo valore. Le pause, uno scambio di battute col proprio vicino di postazione, andare in bagno oppure anche camminare per andare a prendere un martello da lavoro sono tempi “morti”. Pazienza se per il lavoratore servono per recuperare forze fisiche o rendere meno intollerabile una giornata di lavoro ripetitivo. In Fiat, con l’introduzione della metrica di lavoro Ergo-Uas, l’azienda conta di accelerare del 6% circa i ritmi. Per avvitare quattro dadi su un pezzo, ad esempio, si dovranno impiegare 14,64 secondi invece di 15,5. Su una giornata intera e a parità di salario fanno 27 minuti in più di lavoro per arricchire il capitalista. I padroni la chiamano “saturazione” della postazione al 99% (dall’84-87%), in pratica è un inasprimento dell’intensità dello sfruttamento che farebbe carta straccia delle conquiste sui ritmi dell’Autunno caldo del ’69, tradotte negli accordi, ora disdetti, del ’71. L’organizzazione del lavoro, da Taylor in poi, ha poco di scientifico: sono tentativi di succhiare prestazioni lavorative più intense. Più profitto. L’ispiratore del modello Toyota lo ha “autorevolmente” confermato scrivendo che “la riduzione della manodopera viene operata per qualificare al massimo il lavoro in senso produttivo, per raggiungere il rapporto più proficuo tra il numero di addetti e le merci da produrre. L’ideale è ottenere un 100% di lavoro che aggiunge valore.” (Ohno, Lo spirito Toyota).
Alla Mazda di Flat Rock, prima fabbrica negli Usa ad adottare la “produzione snella” fatta di eliminazione delle pause e just in time, l’intensificazione del lavoro toccò i 57 secondi al minuto.
Soprattutto così i padroni tentano di rispondere alla caduta del loro tasso di profitto. Scriveva Marx ne Il Capitale che “entro i limiti della produzione capitalista, lo sviluppo della forza produttiva del lavoro ha lo scopo di abbreviare la parte della giornata nella quale l’operaio deve lavorare per se stesso, per prolungare, proprio con quel mezzo, l’altra parte della giornata lavorativa nella quale l’operaio può lavorare gratuitamente per il capitalista.” è più “realista” Marx o l’aspirazione dei riformisti di insegnare ai padroni come fare il loro mestiere senza sfruttare “troppo” gli operai?
Ma sbaglieremmo a pensare che i padroni spremano di più i loro dipendenti solo con elaborati metodi di organizzazione del lavoro. Il livello di organizzazione sindacale e politica della classe lavoratrice è un fattore decisivo. Dopo la sconfitta dell’80 in Fiat, ad esempio, vennero buttati fuori più di 500 delegati del “Consiglione” di fabbrica di Mirafiori. Due anni dopo, gli operai producevano in 7 ore e mezza ciò che prima si produceva in 10 ore. I salari non avevano seguito il medesimo andamento… Dati pubblicati negli Usa confermano tale legame: dal 1980 ad oggi, in una fase di declino della forza organizzata dei lavoratori, l’aumento di produttività pari all’80% si è tradotto in un 8% di crescita dei salari orari lordi. In pratica, al proletariato industriale Usa è andato un decimo della ricchezza aggiuntiva da esso prodotta, con un aumento verticale della disuguaglianza sociale. In Italia, secondo uno studio della Cgil per il periodo 1995-2006, la produttività “finita” nei salari non andrebbe oltre il 27%, senza conservare nemmeno il potere d’acquisto.
Produttività e capitalismo
L’aumento della produttività, in assenza di una combattività operaia, gonfia le tasche del padrone. Sotto il sistema capitalista, in ogni caso, l’aumento della produttività non genera mai quello che ingenuamente uno si aspetterebbe: più tempo libero da dedicare ad uno sviluppo fisico e sociale più armonico. C’è invece iperlavoro e turni massacranti per gli uni, sotto-occupazione o disoccupazione per chi viene espulso dal processo produttivo.
Anche qualora una crescita della produttività consenta più margini per lottare per aumenti, comunque temporanei, del salario reale, l’orientamento da assumere non è solo da ciò regolato. Da comunisti, infatti, la variazione del salario non può essere l’unico elemento da considerare nel proprio ragionamento. A tal proposito, Marx rimproverava all’economia politica classica di non considerare il lavoratore come un essere sociale dotato di bisogni e aspirazioni ma solo come una macchina da lavoro da usare nel processo produttivo e poi alimentare più o meno generosamente. Come rispondere, allora, all’aumento dei ritmi produttivi ha portato con sé una tempesta sulle condizioni di vita della classe lavoratrice? Negli stabilimenti simbolo della Fiat di Melfi e Pratola Serra, dove si è sperimentato il sistema TMC-2 sin dal ’93, tunnel carpali, tendiniti e problemi agli arti superiori sono esplosi e l’integrità fisica di migliaia di operai è spremuta in pochi anni in nome del profitto. A Melfi, nei 10 anni prima dello sciopero dei 21 giorni del 2004, centrato proprio sui ritmi, mille operai su 5mila svilupparono limitate capacità lavorative mentre 200 all’anno se ne andavano via. In una inchiesta sul consumo di stupefacenti tra i lavoratori dell’industria svolta nel 2008, il giornalista del Manifesto Campetti notava che la cocaina, oltre alle anfetamine, era una sostanza sempre più utilizzata per “reggere la catena”, il lavoro notturno ed una vita sempre più svuotata di relazioni sociali anche a causa dei turni.
Siamo così lontani dalla situazione delle operaie tessili di Manchester, descritte da Engels nel 1845, che per reggere la fatica bevevano “porto, sherry e caffé”? Sarebbe utile, oggi, riflettere sulle esperienze di tanti Consigli di fabbrica che negli anni ’70 smisero di accettare lo scambio tra ritmi e nocività del lavoro, da una parte, e salario, dall’altra, lottando al contempo perché il salario, indipendentemente dai conti del padrone, consentisse di vivere degnamente.
Nelle mani del capitale, l’accrescimento della forza produttiva del lavoro non ha lo scopo di abbreviare o rendere più leggera la giornata lavorativa ma diviene “depredazione sistematica delle condizioni di vita dell’operaio durante il lavoro, dello spazio, dell’aria, della luce e dei mezzi personali di difesa contro le circostanze implicanti il pericolo di morte o anti-igieniche del processo di produzione, per non parlare dei provvedimenti miranti alla comodità dell’operaio. Ha torto il Fourier a chiamare le fabbriche “ergastoli mitigati”?” (Marx, Il Capitale, Libro I). Antipatro, poeta greco del I° secolo a.C., salutava nell’invenzione del mulino ad acqua per la macinazione del grano la liberazione dalla schiavitù e l’inizio di un’età aurea. Quel sogno potrà essere realizzato su una base tecnologica esponenzialmente più matura ma a condizione di abolire il furto di classe di una minoranza di parassiti. Col comunismo l’aumento della produttività libererà l’uomo dai lavori faticosi, ripugnanti e meno creativi, e darà ad ognuno tempo per sviluppare la propria umanità.