Cosa comporta per la sinistra l’attacco allo stato sociale
Stato sociale: per i padroni riformare fa rima con tagliare
A due anni dalla controriforma del sistema pensionistico del governo Dini, è cominciata una nuova martellante campagna di propaganda sui costi dello stato sociale italiano.
Confindustria, Governo e sindacati sono pronti a sedersi al tavolo delle trattative per rivedere il complesso di regole che governa lo stato sociale italiano. Per rispondere adeguatamente a questa campagna di disinformazione è necessario per ogni attivista capire qual è la realtà delle cifre.di Giacomo Taranto
Le proposte della Commissione Onofri
Incaricata dalla Presidenza del Consiglio ad elaborare un testo di "riordino" dello stato sociale italiano, la Commissione Onofri ha proposto ricette che rappresentano una vera bomba che sta per esplodere al tavolo delle trattative. Le principali soluzioni elaborate riguardano i seguenti settori del bilancio statale:
1) Pensioni: accelerazione del processo di riduzione delle pensioni di anzianità che secondo la riforma Dini dovrebbero scomparire non prima del 2008, estendendo il sistema contributivo (calcolo della pensione solo sulla base dei contributi versati) a tutte le pensioni, anche per i lavoratori che hanno maturato più di 18 anni di contributi, oppure attraverso una drastica riduzione dei rendimenti o un innalzamento dell’età pensionabile per le pensioni calcolate con il sistema retributivo. Armonizzazione di tutti i regimi previdenziali.
2) Sanità: privatizzazione di fatto di alcuni grandi ospedali, introduzione di ticket sui ricoveri ospedalieri, day hospital, pronto soccorso e medico di base, incentivazione di forme contrattuali di lavoro a termine anche per i primi venti anni di carriera, introduzione di tetti di spesa programmati per i medici di base con premi per i risparmi e penalità per gli sfondamenti di spesa. Introduzione di servizi di cura privati che integrino i servizi forniti dal Sistema Sanitario Nazionale.
3) Assistenza: separazione dell’assistenza dalla previdenza, introduzione di un "minimo vitale" per i disoccupati di lungo periodo di famiglie che vivono sotto la soglia di povertà, eliminazione della Cassa integrazione ordinaria, dell’indennità di disoccupazione e di mobilità e dei prepensionamenti in favore di un trattamento di disoccupazione.
Come si può intuire le conclusioni della Commissione non fanno sperare nulla di buono, sotto il neutrale concetto di "riordino" si presentano come inevitabili nuovi tagli e nuovi sacrifici per i lavoratori anche perché si parte dal presupposto che il sistema non produce più risorse come una volta, che tra venti anni non ci saranno più soldi per pagare le pensioni.
Si conclude che è necessario un nuovo "patto tra generazioni" per poter evitare ai nostri figli il collasso finanziario! Ma guardando un pò più da vicino le cifre ci si accorge che la realtà dei fatti è un pò diversa.
Non si può accettare la logica che lega il finanziamento del sistema pensionistico al numero di lavoratori attivi, allora dovremmo accettare la propaganda martellante sull’imminente collasso della previdenza. Ad esempio nel 1960 c’erano circa 5 persone nel pieno dell’età attiva per ogni anziano, questa proporzione è scesa oggi a poco più di 3. Secondo alcune proiezioni (basate sul fatto che negli anni ‘90 il tasso di fertilità italiano è il più basso del mondo, anche se nel 1996 c’è stato un aumento delle nascite del 12%) questo rapporto calerà ancora. Da qui si deduce che in futuro il numero di anziani sarà talmente alto che non si potrà seguire altra strada che la riduzione delle pensioni e l’aumento dell’età pensionabile così come proposto dalla Commissione Onofri.
Come stanno realmente le cose
Questo è un modo parziale di guardare le cose che ignora la crescita effettiva della produzione di ricchezza del paese. Tra il 1948 e il 1973 il Pil (Prodotto interno lordo) italiano è cresciuto del 500% ed è continuato a crescere fino al punto che nei 50 anni che ci separano dalla Seconda guerra mondiale la produzione di ricchezza è cresciuta di ben 13 volte, mentre allo stesso tempo la popolazione è cresciuta di solo un terzo. Ciò è stato possibile grazie all’enorme crescita della produttività del lavoro. Lo sviluppo della tecnologia ha fatto sì che un singolo lavoratore, producendo molta più ricchezza di prima, mette a disposizione della società molte più risorse. Lo stesso Prodi in un articolo scritto per il Mondo Economico nel Giugno 1991 ha ammesso che "...gli anni Ottanta sono stati per le nostre imprese industriali un decennio di fantastico sviluppo della produttività dell’ordine del 4-7% all’anno. Cioè primi nettamente in Europa, più del doppio della Germania, secondi solo al Giappone nei paesi dell’Ocse". Questo dimostra che in realtà la società italiana è più ricca, non più povera e dunque è un inganno affermare che bisogna tagliare lo stato sociale per mancanza di risorse. Il problema non
sta nella quantità di risorse ma nella sua ripartizione tra le diverse classi sociali.
A fronte di un aumento della produttività non c’è stato un corrispondente aumento dei salari, e qui nasce una contraddizione: i livelli di contributi (sia versati dal datore di lavoro che dal dipendente) si basano sull’effettivo salario percepito del lavoratore, mentre i maggiori profitti non rientrano in questo calcolo così una parte (enorme come dimostra la ripartizione del reddito nazionale) della maggior ricchezza creata dai lavoratori non rientra nei contributi che i datori versano al sistema previdenziale.
Il debito statale
Un altro dei ragionamenti che si usano per giustificare l’attacco allo stato sociale è l’enorme indebitamento dello Stato italiano. In effetti il debito pubblico è tra i più alti in Europa. Nel 1996 superava il 120% del Pil, circa il doppio della media europea, mentre nel 1970 era solo al 34%.
Secondo la propaganda questo debito si è accumulato grazie ad una eccessiva spesa sociale. Così facendo si tenta di nascondere il reale processo in atto. Tra il 1975 e il 1990 la spesa pubblica (come insegna Tangentopoli) è stata una manna per il capitalismo italiano portando il debito pubblico ad una crescita del 7% annuo in media. Superata una certa soglia gli interessi sono diventati enormi. Nel 1996 il debito pubblico era arrivato ad oltre 2 milioni di miliardi di lire. La sola spesa per gli interessi sul debito supera oggi i 200mila miliardi all’anno. Come si legge in una lettera a il Sole-24 Ore (31/10/96) "...gli attuali detentori dei titoli pubblici si sono arricchiti mediante un trasferimento di ricchezza operato a danno della massa dei cittadini e in loro favore".
Un altro concetto da capire è quello del "saldo primario" della Pubblica Amministrazione. A questo ci si arriva calcolando la differenza tra entrate ed uscite delle casse dello Stato prima del pagamento degli interessi. Grazie alla finanziaria del governo Amato (200mila miliardi) è già dal 1992 che c’è un saldo attivo (nel 1992 dell’1,4% del Pil, nel 1995 del 4,1%). Ormai sono 6 anni che lo Stato italiano spende meno di quello che incassa. Ma il debito pubblico continua a crescere perché questo attivo non è sufficiente per coprire gli interessi dovuti.
Dunque tutti i "sacrifici" degli ultimi anni non sono serviti a niente, tranne ad arricchire chi già è ricco, una specie di operazione "Robin Hood" al rovescio: togliere ai pensionati, agli invalidi, ai malati per dare agli speculatori. Tutto ciò aiuta a capire che le risorse per mantenere lo stato sociale ci sono, si tratta solo di spezzare l’assurdo meccanismo spiegato sopra.
Nel 1993 lo Stato ha speso 218mila miliardi per la voce pensioni, e 187mila miliardi per gli interessi sul debito. Se non ci fosse questo parassitismo dei detentori di titoli pubblici non sarebbe necessario tagliare le pensioni.
C’è da ricordare anche che negli anni ’80 l’Italia era il paese che spendeva più di qualsiasi paese europeo in sussidi statali all’industria, e non ci risulta che gli industriali italiani si siano mai lamentati di questa spesa dello Stato.
La cassaintegrazione, un aiuto alle aziende che permette loro di pagare i lavoratori solo quando il mercato tira, è pagata dall’Inps, il che contribuisce in modo decisivo sul deficit dell’istituto che altrimenti sarebbe in attivo. Infine bisogna ricordare che i debiti contributivi delle aziende con l’Inps superano i 25mila miliardi all’anno, sono uno scandalo nazionale del quale pochi parlano.
Spremere sempre più il lavoro dipendente
In realtà dietro all’attacco allo stato sociale c’è il tentativo di ridurre il costo del lavoro. L’alto livello dell’indebitamento pubblico ha spinto i successivi governi italiani ad aumentare sempre di più la "pressione fiscale", cioè la percentuale del reddito nazionale prelevato dallo Stato sotto varie forme di imposte, tra cui anche i contributi previdenziali. I padroni italiani stanno cercando ogni mezzo possibile (lavoro interinale, salario d’ingresso, contratti d’area ecc.) per ridurre il salario diretto e il "salario sociale". L’idea di fondo è che, riducendo all’osso la spesa sociale, è possibile ridurre la pressione fiscale. In questo la borghesia italiana è incalzata dal contesto internazionale dove ogni borghesia nazionale per "stare nel mercato" è costretta a ridurre le proprie spese.
Ormai la fase della grande espansione del dopoguerra è finita, non si intravedono nuovi mercati all’orizzonte e dunque i singoli capitalisti possono aumentare la propria quota di mercato solo a spese degli altri: sopravvive il più competitivo. È facile capire che questa è una spirale che si avvita su se stessa. In un mercato che cresce lentamente o addirittura ristagna la concorrenza non farà che crescere in continuazione. Nella lotta all’ultimo sangue per accaparrarsi fette di mercato, lor signori troveranno sempre spese "improduttive" da tagliare a tutto vantaggio delle loro tasche. In tutto questo c’è una contraddizione: la riduzione delle garanzie dello stato sociale e la contrazione dei livelli dei salari portano ad una riduzione della domanda e quindi dei mercati. In questo contesto l’attacco allo stato sociale è, e sarà, un dato costante per tutte le borghesie a livello internazionale. Chi come Nerio Nesi della direzione del Prc, pensa che lo stato sociale potrebbe difendersi con l’aumento dei salari e dunque dei contributi, dovrebbe spiegare le cause della politica di tagli allo stato sociale e ai salari che vediamo in tutto il mondo da circa vent’anni. È chiaro che i padroni cercano sempre di avere il massimo profitto. Ma non é un caso che in tutti i paesi industrializzati si sia attuata per circa 40 anni (sotto la pressione del movimento operaio) una politica di relativamente alti salari e welfare state e che oggi ci sia la tendenza contraria.
Il programma della Confin-dustria italiana punta allo smantellamento dello stato sociale, cioè a rimangiarsi tutte le conquiste del movimento operaio degli ultimi 50 anni. Il problema è politico, cioè come attuare questa politica senza forti reazioni sociali. Il governo Berlusconi, da questo punto di vista, si è dimostrato incapace. Imparata la lezione, la borghesia cerca una forza politica in grado di ottenere il consenso di chi dovrà subire questo attacco allo stato sociale, cioè i lavoratori; il governo Prodi incarna questa ricerca del consenso sociale. Ciò comporta un problema: proprio perché ha bisogno del consenso sociale, il governo non può attuare tutta e subito la politica della borghesia. Questo spiega perché il governo Prodi presenta il suo attacco allo stato sociale come il "male minore", cioè meglio tagliare un pò oggi che far saltare tutto domani. Al centro di questo ragionamento c’è la politica che sta portando avanti il gruppo dirigente del Pds. La sua accettazione delle logiche dell’economia di mercato lo porta a cercare di quadrare i conti all’interno della spirale di questo sistema economico, anche se è proprio la sua base sociale che soffrirebbe maggiormente dall’applicazione di questa politica. Di fronte all’alternativa tra tagliare poco oggi evitando "di far saltare tutto domani", questi lavoratori accettano questo compromesso. Il problema è che per i rappresentati della borghesia presenti in questo governo (Prodi, Ciampi, Dini) questa politica non è che l’inizio di un attacco più generale alle condizioni di vita dei lavoratori.
Questa contraddizione provocherà sempre più tensioni nell’Ulivo, fino alla sua spaccatura. Il punto è quale ruolo gioca Rifondazione in questo processo. Un comportamento di appoggio al governo con critiche puntuali ad alcuni provvedimenti è perdente sul lungo periodo. La esperienza del partito comunista francese negli anni ’80 dovrebbe insegnare che un partito che si dice comunista dovrebbe elaborare una posizione alternativa alla politica di questa maggioranza con lo scopo di influenzare sempre di più i lavoratori delusi e frustrati dall’Ulivo. Questo vuol dire appoggiare (nel caso ci siano) singoli provvedimenti a favore dei lavoratori, ma essere liberi di elaborare e propagandare una politica alternativa a quella del governo. Non è la stessa cosa realizzare dichiarazioni isolate (tassare i Bot, no al taglio delle pensioni) che poi non trovano seguito in una azione politica continua nel tempo. Il nuovo tentativo di attaccare lo stato sociale ci da una grande opportunità per propagandare tra i lavoratori, a cominciare da quelli che appoggiano il Pds, un’alternativa all’odierna crisi economica e sociale.
Distribuzione del reddito nazionale
La distribuzione del reddito nazionale tra reddito dei lavoratori dipendenti e rendita del capitale è un indicatore importante per capire il livello di sfruttamento dei lavoratori. Non è preciso perché tra i lavoratori dipendenti troviamo dal fattorino al direttore generale di un’azienda che tra di loro hanno differenze salariali da dieci a venti volte!
Comunque permette di capire, al di là della propaganda, chi intasca la ricchezza prodotta nel paese.
Il grafico che presentiamo dimostra come tra il 1950 e il 1970 c’è stato un aumento costante del reddito da lavoro dipendente che però corrisponde in grande misura alla crescita assoluta di lavoratori dipendenti nel paese. Negli anni ’70 a causa delle lotte operaie c’è un vero balzo dal 52 al 60%! E ciò è ancora più significativo perché il numero dei lavoratori dipendenti aumenta molto più lentamente in questo periodo che negli anni precedenti.
Ma subito dopo la situazione cambia. A causa della "politica dei sacrifici" difesa dai vertici sindacali la percentuale del Pil che finisce in tasca ai lavoratori si riduce continuamente da 18 anni a questa parte. Ormai è tornata al di sotto dei livelli degli anni ’60.