La crisi industriale che affligge il paese è oggetto di dibattiti infuocati sul fronte politico come su quello sindacale. Le chiacchere si sprecano e nel frattempo le fabbriche chiudono con centinaia di migliaia di posti di lavoro messi in discussione in tutta Italia.
Vediamo le cifre. Secondo uno studio della Cgil tra il gennaio e l’agosto di quest’anno ben 2.778 aziende hanno denunciato lo stato di crisi (l’anno scorso erano 1.400 circa) e sul totale delle aziende italiane il 28,53% ha fatto ricorso alla Cassa Integrazione nei primi sei mesi dell’anno. L’anno scorso nello stesso periodo erano il 10,59%. Oltre 154mila lavoratori sono stati in cassa integrazione nel 2004 e 250mila posti di lavoro sono in pericolo nei prossimi mesi.
Ovviamente i padroni utilizzano la crisi (come sempre è stato) per ricattare i lavoratori su salari e condizioni di lavoro e questo in un momento in cui già oltre sei milioni di lavoratori italiani guadagnano meno di 1.000 euro al mese (oltre 10 milioni sono al di sotto della soglia dei 1.350 euro).
Se la crisi è particolarmente acuta in Italia non si può dire che una situazione simile non si stia verificando anche negli altri paesi capitalisti avanzati. Basta vedere l’articolo che pubblichiamo in questo numero sulla Germania per rendersene conto.
Come uscirne? Per poter dare una risposta a questa domanda è necessario in primo luogo comprendere quali sono le vere cause della crisi e del declino industriale.
Ciò che caratterizza il capitalismo moderno è l’esistenza di un mercato mondiale integrato dove i grandi monopoli, che detengono capitali superiori a quelli di molti stati nazionali, competono tra loro per guadagnarne il controllo. La stagnazione del mercato mondiale provoca rapidi movimenti alla ricerca del massimo rendimento in varie direzioni: nuovi rami della produzione che assicurano alti profitti, nuovi mercati dove collocare le merci, maggior sfruttamento dei mercati esistenti e, come filo conduttore di tutte le strategie, la riduzione del costo del lavoro.
È qui che si inserisce la cosiddetta delocalizzazione, un fenomeno che è vecchio come il capitalismo e che rappresenta in definitiva l’affanno del capitale, che non ha patria, per ottenere il massimo dei profitti riducendo i salari e i costi lavorativi. Tutto questo provoca un aumento massiccio della disoccupazione e come conseguenza la riduzione del mercato interno con la distruzione delle forze produttive, con le fabbriche che chiudono una dietro l’altra nei paesi capitalisti avanzati. Si tratta di un sintomo evidente della decadenza senile in cui è entrato il sistema capitalista a livello mondiale. Questo spiega - così come segnalato nell’ultimo rapporto dell’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro) - che “nonostante la ripresa, il tasso di disoccupazione nel mondo aumenta e nel mondo ci sono oltre un miliardo di disoccupati”.
Secondo i dati dell’Onu, più della metà del commercio mondiale proviene da imprese multinazionali e più di un terzo deriva dal trasferimento di beni tra i diversi rami della stessa multinazionale. Due terzi delle transazioni mondiali in beni e servizi dipendono dalle operazioni di imprese multinazionali.
Le contraddizioni che tutto questo genera sono evidenti. Mentre gli economisti si lamentano per la caduta degli investimenti, ad esempio negli Usa, i capitalisti statunitensi si affrettano a prendere patria in … Cina. Il gigante asiatico ha assorbito 53 miliardi di dollari di investimenti stranieri diretti negli ultimi due anni, oltre il 50% proveniente dagli Usa. In questo modo hanno alimentato la domanda di materie prime provocando un aumento straordinario del prezzo del petrolio e dell’acciaio.
In Cina si sta sviluppando una forte industria manufatturiera che sta sbaragliando i mercati occidentali.
La Cina ormai non è più un paese che produce merci con una bassa composizione organica del capitale (prodotti a bassa tecnologia). Si pensi che nel 2004 potrebbe diventare il terzo produttore mondiale di auto (collocandosi davanti non solo all’Italia ma anche alla Germania) anche se per ora la produzione è orientata solo al mercato interno.
L’ironia della situazione è che la ricerca di un maggior rendimento dei capitali provenienti dall’Occidente in terra cinese sta provocando la crescita di un formidabile competitore che complica la vita alle stesse imprese americane e europee ponendosi in concorrenza con esse.
Ma cosa importa ai capitalisti occidentali se si perdono posti di lavoro negli Usa (tre milioni nella sola industria in due anni) o in Europa se alla fine i profitti aumentano?
Non ha funzionato sempre così il capitalismo, particolarmente nelle fasi di crisi economica?
Di fronte a questa situazione, i dirigenti sindacali americani dell’Afl-Cio sono diventati i campioni del patriottismo e della bandiera a stelle e striscie, si scagliano contro la Cina e la sua industria (che si basa in molti casi su capitali americani) e chiedono di imporre sanzioni e forti limitazioni ai prodotti cinesi aumentandone le tariffe doganali.
Invece di esigere più diritti e salari dignitosi per i lavoratori cinesi che sono sfruttati senza pietà dai capitalisti nordamericani con la complicità dei burocrati del Partito comunista cinese, invece di denunciare il ruolo parassitario e sfruttatore dei capitalisti americani che stanno chiudendo industrie come fossero noccioline, invece di preparare un piano di lotta contro i licenziamenti, la distruzione dello stato sociale e per la nazionalizzazione delle aziende in crisi, la burocrazia sindacale americana reclama misure protezioniste per salvare il capitalismo e i guadagni dei capitalisti di casa propria. Ma in fondo l’atteggiamento dei dirigenti sindacali in Europa e qui in Italia non è poi così diverso.
Le direzioni di Cgil-Cisl-Uil qui in Italia (ma un discorso simile potrebbe farsi per l’Ig Metall, la Cgt francese o le Cc.oo. spagnole) di fronte al declino industriale non sanno dire niente di meglio che sono necessari “più investimenti e più produttività per rendere competitive le industrie nazionali sul mercato mondiale”. Anche quei settori più a sinistra del sindacato qui in Italia non si discostano in maniera significativa da questa linea.
Il gruppo dirigente della Fiom nel programma dei sei punti, presentato quest’estate, denuncia le responsabilità del Governo nell’aver peggiorato con le sue politiche sbagliate la già grave situazione economica e insiste su un programma di maggiori investimenti in ricerca e tecnologia rivendicando un forte intervento pubblico nella gestione delle imprese strategiche, mantenendo o riportando le grandi reti di comunicazione e servizi sotto la proprietà pubblica.
In realtà insistere sugli “investimenti produttivi” e sull’aumento della produttività, attraverso l’introduzione di tecnologia per rendere competitive le aziende è assolutamente fuorviante rispetto alle reali cause e proporzioni del problema.
Questo non arresterebbe affatto la chiusura di stabilimenti, al contrario. Le imprese europee e americane che “delocalizzano” produzione verso paesi con bassi salari spesso sono multinazionali che sono all’avanguardia dal punto di vista tecnologico.
Questo non avviene per caso. In un mercato, che per definizione si basa sulla concorrenza, i grandi investimenti in capitale fisso (tecnologia) determinano un notevole incremento della composizione organica del capitale e come spiegava Marx questo genera inevitabilmente una tendenza alla riduzione del saggio di profitto.
Questa tendenza che si è generalizzata a partire dal 2000 (si osservi quanto è accaduto nel settore della tecnologia dell’informazione e telecomunicazioni) può essere contrastata riducendo il capitale variabile e cioè riducendo i salari, aumentando i ritmi e la quantità delle ore lavorate.
La Baviera, una delle zone che più è stata colpita dalla distruzione di posti di lavoro (che sono stati trasferiti in gran misura nell’est europeo) è la regione tedesca dove ci sono stati più investimenti tecnologici nell’ultimo periodo in settori come biotecnologia e tecnologia dell’informazione. La seconda zona più colpita dalla delocalizzazione è Stoccarda, che si è distinta particolarmente per gli investimenti in ingegneria meccanica e automazione. Tutte le industrie che stanno facendo ristrutturazioni in Germania (Siemens, Wolkswagen, ecc.) sono industrie a elevatissima tecnologia.
Quei posti vengono spostati perchè il guadagno in Europa dell’est o in Asia è molto maggiore per i padroni grazie ai minor costi salariali e all’assenza di diritti sindacali in questi paesi. Uno studio pubblicato dal Sole 24 Ore il 13 ottobre sostiene che la maggioranza degli imprenditori tedeschi possiede già stabilimenti in paesi esteri e che da qui al 2010 la quota è destinata a salire oltre il 70%. Lo stesso vediamo in Francia con le recenti chiusure di Metaleurop e del gruppo coreano Daewoo-Orion che ha chiuso tutti e tre gli stabilimenti francesi nella zona di Metz.
La delocalizzazione rappresenta globalmente il 10% degli investimenti diretti esteri, che corrispondono a 305 milioni di euro tra il ’98 e il 2002. Negli ultimi due anni la tendenza si è aggravata. I settori più colpiti sono il tessile, l’industria metalmeccanica(auto, elettrodomestici), l’informatica, l’elettronica e la telefonia.
La realtà è che per questa via non c’è alcuna soluzione al problema occupazionale e alla fine i dirigenti sindacali non hanno niente di meglio da offrire che qualche ammortizzatore sociale che non impedisce la chiusura, oppure contrattano un rinvio temporaneo in cambio di ulteriori peggioramenti delle condizioni di lavoro e di salario.
Come si diceva all’inizio la lista delle imprese che chiudono stabilimenti o avviano ristrutturazioni è sempre più lunga. Molte di queste in passato hanno fatto enormi profitti e ricevuto finanziamenti statali a pioggia in varie forme.
È importante sottolineare questo perché quando la Fiom parla di intervento pubblico bisogna ricordare che in Italia di intervento pubblico ce ne è stato eccome e continua ad essercene tuttora seppure in forme limitate rispetto al passato per i continui tagli alla spesa pubblica (che in ogni caso colpiscono molto di più lo stato sociale che i finanziamenti alle imprese).
Il problema non è l’intervento pubblico in sé, ma chi lo controlla e per quali fini.
Come e dove vengono orientati questi fondi e a favore di quale classe sociale? Questa è la domanda che deve porsi un sindacato di classe e alla quale bisogna rispondere se si vuole essere all’altezza delle necessità.
L’intervento pubblico degli scorsi decenni in Italia, quando a governare c’era la Dc e il pentapartito, è andato sempre a beneficiare le grandi famiglie. Si trattava della classica politica di “socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti”.
La Fiat, che in questo momento sta mettendo in mobilità altri 700 operai e che si prepara a chiudere definitivamente lo stabilimento di Arese ha ricevuto in passato e sotto varie forme dallo stato la cifra astronomica di 238mila miliardi di vecchie lire, oltre al regalo dell’Alfa Romeo che è stata consegnata alla famiglia Agnelli in cambio di un piatto di lenticchie.
Per dare una risposta al declino industriale è necessario porre la questione del potere e degli interessi di quale classe è diretta la società. In una parola bisogna chiedere la nazionalizzazione delle aziende in crisi sotto il controllo operaio.
I dirigenti sindacali come detto sanno offrire solo delle proposte su come rendere meno “traumatica” la chiusura dell’azienda e i licenziamenti.
Ma dal punto di vista di classe esiste un’alternativa alla politica riformista. In primo luogo bisogna capire che i profitti imprenditoriali sono parte del salario non pagato ai lavoratori, che sono i soli che creano realmente ricchezza con il loro lavoro. In secondo luogo è necessario comprendere che il posto di lavoro è un patrimonio comune della classe operaia e che non si può accettare di distruggere un solo posto di lavoro, tanto più quando le ristrutturazioni vengono fatte per ingrassare i profitti.
La lotta per difendere l’occupazione è possibile a condizione che si organizzi seriamente, basandosi sulla forza e l’unità dei lavoratori, praticando la vera democrazia sindacale, quella che nasce dalle assemblee operaie, che devono discutere e approvare i piani di lotta, eleggere dei comitati di sciopero (eleggibili e revocabili in qualsiasi momento dalle istanze che li hanno eletti) che si propongano di unificare la lotta con le altre fabbriche in crisi dando vita a dei coordinamenti a livello provinciale e nazionale che funzionino con lo stesso criterio.
La formazione di coordinamenti delle aziende in lotta è un passo decisivo per determinare un avanzamento qualitativo nelle mobilitazioni, riprendendo le migliori tradizioni del movimento operaio italiano degli anni ’60 e ’70, la stagione del “sindacato dei consigli”.
La mobilitazione non può andare in ordine sparso, deve unificarsi e fare appello alla popolazione. Difendere una fabbrica in un territorio significa spesso difendere un’intera città, il futuro dei giovani e dell’insieme della popolazione.
Come dimostra l’esperienza di Termini Imerese di due anni fa o quella dell’Ast di Terni o di altre recenti mobilitazioni, oggi le lotte operaie non si sviluppano più nell’isolamento ma godono di un appoggio largo ed entusiastico di decine di migliaia di persone, che possono trasformare una vertenza operaia in una situazione dal carattere semi-insurrezionale che coinvolge un’intera popolazione.
In un contesto del genere è possibile organizzare delle casse di resistenza, chiedendo la solidarietà non solo politica ma anche finanziaria a tutti i lavoratori e alla cittadinanza, in modo da poter sostenere anche delle lotte prolungate evitando che i lavoratori vengano battuti perché restano senza salario per un lungo periodo di tempo.
Questa è una differenza fondamentale con le lotte che si sono sviluppate in Italia nel corso degli anni ’90. Si sta diffondendo tra i lavoratori la consapevolezza che sconfiggere il padronato è possibile. La magnifica lotta di Melfi ha consolidato questa convinzione che “si può vincere”.
Tale consapevolezza oggi riguarda solo certi strati del movimento ma potrebbe diffondersi rapidamente nel prossimo periodo.
Esperienze come quella della Zanon in Argentina o della Venepal in Venezuela dimostrano che i lavoratori possono impedire la chiusura di una fabbrica occupandola e continuando a produrre sotto il controllo operaio.
Ovviamente non ci si può fermare a singole esperienze. Un’azienda che produce sotto il controllo operaio all’interno di un regime capitalista è sottoposta a mille pressioni e alla lunga è destinata a soccombere se non lavora ad un estensione della mobilitazione e delle occupazioni ad altre fabbriche in crisi.
Nel frattempo che si continua a produrre per soddisfare le necessità immediate dei lavoratori è necessario partecipare attivamente al movimento più generale per l’abolizione del sistema di mercato e del capitalismo.
È possibile lottare per un mondo dove la produzione non sia finalizzata ai profitti di una minoranza di parassiti (si veda l’esperienza Parmalat al riguardo) ma alla soddisfazione dei bisogni primari della popolazione.
Il fenomeno della delocalizzazione e la chiusura delle fabbriche si concluderà solo quando le leve fondamentali dell’economia saranno espropriate alle banche, alle multinazionali e tutte le risorse verranno messe a disposizione di un piano socialista di produzione, che permetterebbe di ottenere rapidamente l’obiettivo della piena occupazione, riducendo drasticamente la giornata di lavoro e risolvendo le necessità fondamentali (abitative, sanitarie, scolastiche, ecc.) di tutti. Le condizioni materiali per ottenere questo esistono già, ma non saranno mai realizzate fino a quando non verranno sottratte le ricchezze di chi ha accumulato ricchezze stratosferiche sulla pelle dell’umanità. Si pensi solo che tre magnati nel mondo detengono ricchezze superiori al Prodotto interno lordo del 50% dei paesi più poveri. Tanto basta per giustificare la lotta per una società socialista.