Domenica 8 giugno il generale Abd el Fattah el Sisi è ufficialmente diventato il nuovo presidente egiziano, con la cerimonia di insediamento e il passaggio di consegna tra lui e il presidente a tempore Adly Mansour (in carica dalla cacciata di Mohamed Morsi). Grande festa per le strade egiziane, con piazza Tahrir di nuovo gremita per celebrare quello che alcuni giornali occidentali hanno definito il “golpe democraticamente eletto”.
Il generale egiziano incarna le aspettative della buona parte della popolazione che ha visto in lui una sorta di salvatore e colui che potrà finalmente arrivare a realizzare le aspirazioni della rivoluzione. (sigh). L’Egitto è un paese stanco, in cui per due anni giovani studenti e lavoratori sono scesi in piazza senza vedere cambiamenti concreti nelle loro vite. E el Sisi è riuscito a intercettare questo malessere, causa l’inconsistenza delle opposizioni e della “dirigenza” rivoluzionaria; il generale egiziano è da molti accostato alla figura di Abdel Nasser, molto amato qui. I lavoratori hanno in gran parte sospeso le azioni di protesta e gli scioperi per dare tempo al nuovo presidente di fare il proprio lavoro. Il Cairo viene ripulito dai venditori di strada, vengono approvate nuove leggi contro le molestie e un nuovo codice della strada. Il tutto dovrebbe dimostrare come l’ordine viene finalmente garantito.
La repressione si fa sempre più dura. Di questi giorni la notizia della condanna a morte di 183 esponenti dei Fratelli musulmani, compreso Mohamed Badie, la guida suprema del movimento attualmente detenuto. Le condanne a morte dal 30 giugno sono più di 1.200. Tutti i beni dei Fratelli musulmani sono controllati dallo Stato ma, attenzione, non nazionalizzati. Più significativa per i marxisti, e taciuta in Egitto, la repressione che si abbatte sul movimento rivoluzionario: il Movimento 6 aprile, uno dei promotori della rivoluzione del 25 gennaio e uno dei più attivi oppositori a el Sisi, è stato dichiarato fuori legge. Sono numerose le incursioni della polizia nelle sedi di gruppi indipendenti legati al movimento operaio.
La vittoria di el Sisi era ampiamente annunciata, conquistata con più del 90 per cento dei voti. L’affluenza alle urne è stata inferiore alle aspettative, meno del 50 per cento degli aventi diritto, per la percezione diffusa che l’esito delle elezioni fosse deciso a prescindere. La scarsa partecipazione al voto riflette tutto il disincantoo delle masse egiziane verso il governo, nonché il fallimento della direzione rivoluzionaria. Per primo Sabbahi. Il dirigento nasseriano, punto di riferimento di diversi settori di sinistra, ha avuto l’occasione per cambiare le sorti della rivoluzione e l’ha totalmente sprecata. Le piazze piene di giovani aspettavano un piano d’azione e una prospettiva e guardavano a lui. Invece di fare appello allo sciopero generale (ricordiamo che in Egitto l’anno scorso città intere sono state bloccate dalla lotta dei lavoratori, senza però avere un minimo di coordinazione) invocava l’intervento di militari per deporre Morsi e i Fratelli musulmani. Alla fine, eccolo servito. Poi c’è tutta l’“intelligentzia” rivoluzionaria, che ha peccato di superbia. Che non ha capito che non si vince nessuna rivoluzione se non ci “abbassa” a discutere e a convincere i lavoratori e i giovani non politicizzati, che non si vive in un mondo di rivoluzionari da salotto. Invece di accusare stizziti quei giovani scesi in piazza e che ora hanno sostenuto el Sisi, dovrebbero chiedersi perché questo è successo e discutere con loro.
Perché è certo, questi giovani saranno delusi nelle loro aspettative e basterebbe ascoltarli per capire che sono disposti a lottare ancora. Quando questo avverrà, sarà necessario essere pronti ad offrire un’alternativa a questo sistema. Ma l’occasione sarà persa ancora una volta se fin da ora non ci si rimbocca le maniche e senza puzza sotto al naso non si intraprende la costruzione di un’organizzazione capace di connettersi alla masse di lavoratori e giovani.