Costruiamo l’alternativa comunista
La crisi del governo tedesco con le dimissioni del ministro delle finanze Lafontaine rappresenta un importante punto di svolta nella situazione europea. Le ragioni profonde di questa crisi devono essere analizzate in tutti i loro aspetti dal congresso nazionale del Prc.
Nei sei mesi trascorsi dalla vittoria elettorale dei socialdemocratici, Lafontaine e Schroeder si erano più volte scontrati su punti importanti: tassazione dei profitti, appoggio ai sindacati nelle loro rivendicazioni salariali, opposizione alle politiche restrittive della banca centrale europea, alleanza o meno con la Pds tedesca, cioè con gli eredi del partito comunista della Germania orientale. Su tutti questi punti vi erano chiare divisioni nel governo, e le posizioni di Lafontaine avevano fatto sì che egli venisse considerato come l’esponente "di sinistra" nello schieramento del governo tedesco, come il portavoce delle aspettative dei lavoratori che dopo 18 anni di governo democristiano aspettavano l’occasione per far valere i propri interessi.
Si può fare un paragone fra il ruolo giocato da Lafontaine e quello giocato dal Prc durante il governo Prodi: un "garante" dei lavoratori all’interno della maggioranza di governo.
Tuttavia questa "garanzia" si è rivelata alla fine del tutto illusoria. La pressione del capitalismo ha avuto la meglio sulle speranze e sulle illusioni di poter condizionare i governi di sinistra in Europa e di poterli indirizzare verso una politica di difesa degli interessi dei lavoratori. Questo bilancio è ormai evidente in tutto il continente. In Francia (della quale trattiamo in un articolo a parte), il governo di sinistra vive una chiara crisi di consenso, crisi che sarà accentuata dagli avvenimenti tedeschi. In Italia la frantumazione del centrosinistra e dei Ds è ormai sotto gli occhi di tutti. In Gran Bretagna gli eventi seguono una strada leggermente differente, ma gli approdi sono identici: divisioni al vertice del partito laburista, divisioni nel gruppo parlamentare, e una disillusione che non tarderà a farsi sentire anche a livello elettorale.
Ma quali sono le cause di questi avvenimenti? Per capirlo è necessario fare un passo indietro e guardare alla natura di questi governi. Se per un momento lasciamo da parte le particolarità nazionali (che pure hanno ovviamente un peso), dobbiamo riconoscere che il fallimento dei governi di sinistra è innanzitutto il fallimento dei tentativi di fare una politica interclassista, di conciliazione di classe, in un’epoca nella quale non ve ne sono le basi economiche. In Francia e in Italia i partiti socialdemocratici sono andati al governo sull’onda delle mobilitazioni sindacali contro i precedenti governi di destra e le loro politiche di massacro sociale. In Germania non vi furono movimenti della stessa ampiezza, ma era chiaramente visibile un processo nella stessa direzione a partire dal 1996, che si è poi espresso nelle urne.
In queste condizioni i partiti riformisti si erano assunti il compito di portare avanti gli obiettivi del capitale (in primo luogo la moneta unica), ma in modo "indolore", graduale, pacifico, mantenendo in primo luogo la pace sociale che i padroni chiedevano per approfittare al meglio della ripresa economica.
È chiaro tuttavia, che la pace sociale alla lunga può mantenersi solo se tutte le classi sociali, e in primo luogo i lavoratori, vedono dei benefici materiali. E qui sta il punto decisivo: la crescita economica è stata asfittica e ha portato ben poco nelle tasche dei lavoratori: soprattutto non ha nemmeno scalfito la gigantesca disoccupazione che colpisce l’Europa. Oggi questa crescita è giunta al termine. L’Italia, la Germania e la Francia saranno precisamente fra i paesi più colpiti dalla prossima crisi economica. La Germania è scivolata al 24º posto nella classifica mondiale della competitività e probabilmente è già in recessione. I tentativi di mantenere bilanci statali in pareggio durante una fase di recessione renderanno ancora più drammatica la crisi.
In assenza di seri margini di manovra, cioè di una crescita economica significativa da redistribuire, i partiti socialisti e di sinistra si sono trovati a gestire una politica di controriforme, condita solo da promesse e belle parole.
In questo quadro, anche le timide riforme introdotte qua e là non hanno fatto altro che irritare la classe dominante, senza per questo dare niente di significativo ai lavoratori. Particolarmente in Francia e in Italia, la borghesia ha dovuto temporeggiare per lasciar evaporare gli effetti delle grandi lotte del 1994-95; ma dopo aver guadagnato tempo, e nella confusione e frustrazione crescenti, oggi possono passare alla controffensiva applicando la classica arma di ricatto della fuga di capitali e dello sciopero degli investimenti.
Così in Italia la Confidustria dichiara per bocca di Fossa che i padroni non possono essere costretti a investire "per patriottismo" e infatti lasciano circa 30mila miliardi di profitti all’estero. Analogamente in Germania, il colosso delle assicurazioni Allianz minaccia di lasciare il paese se dovesse venire approvata la riforma fiscale proposta da Lafontaine, che colpisce in parte i profitti aziendali.
Oggi c’è chi tenta di attribuire i fallimenti dei socialdemocratici alla cosiddetta globalizzazione. Nell’epoca dell’Euro e della massima interpenetrazione dei mercati mondiali, si dice, non c’è più spazio per politiche keynesiane su base nazionale. Questa spiegazione, apparentemente convincente, in realtà non spiega nulla. La realtà è che l’esperienza odierna non fa che riconfermare per l’ennesima volta i risultati di esperienze simili condotte nel corso di tutto questo secolo. Dal fronte popolare francese del 1936-38, ai governi di coalizione in Francia e Italia subito dopo la guerra, al governo di Unidad popular in Cile nel 1970-73, ai governi di sinistra in Gran Bretagna del 1974-79, a quelli in Francia dal 1981 in avanti, la parabola è stata sempre la stessa. I tentativi di gestire in modo "indolore" gli effetti della crisi del capitalismo sono sempre destinati a fallire. I partiti socialisti (e a volte anche quelli comunisti) si sono logorati nel tentativo di trovare il "giusto mezzo", con il solo risultato di deludere e scontentare i lavoratori da un lato, e dall’altro di favorire la ripresa dell’offensiva borghese, che in alcuni casi (vedi il Cile degli anni ’70) giunse alla reazione più estrema. Quelle riforme che fossero state concesse nella fase precedente venivano rapidamente cancellate e tutto rientrava nella normalità.
Questa è la lezione fondamentale che il nostro congresso deve assumere: la crisi del capitalismo significa innanzitutto crisi del riformismo, della conciliazione fra le classi, e quindi crisi dei partiti riformisti.
Le differenze tra destra e sinistra socialdemocratica, tra Lafontaine e Schroeder, tra Jospin e D’Alema, non sono affatto di natura fondamentale. Il settore di sinistra di quei partiti non pone minimamente in discussione il sistema capitalista da nessun punto di vista, limitandosi a proporre le classiche ricette economiche keynesiane: più spesa pubblica, maggior potere d’acquisto per i lavoratori, ecc.
La divisione è importante non tanto per i suoi contenuti, quindi, ma per il suo valore di sintomo. I partiti socialisti si ergono come una barriera contro i lavoratori e le loro aspirazioni, e pagano questa loro politica con divisioni e scissioni.
In questi anni abbiamo visto in Europa un gigantesco esperimento politico e sociale. In tutti i paesi fondamentali la sinistra è salita al governo; in tutti questi paesi ha suscitato delusione, malcontento e opposizione; in tutti i casi, infine, quei partiti sono entrati o stanno entrando in crisi.
Questa esperienza avrà un effetto profondo sulla coscienza di milioni di lavoratori, che in tutta Europa hanno sperato che bastasse il loro voto per fermare la destra e cambiare rotta. Il bilancio fallimentare dei governo di sinistra richiederà del tempo per essere assorbito dalla coscienza delle masse, ma inevitabilmente si dovrà far strada la consapevolezza che solo con la mobilitazione diretta dei lavoratori sarà possibile fermare la controffensiva del capitale.
Oggi questa presa di coscienza avanza lentamente, mentre la crisi del riformismo procede a passo spedito. Per questo può aprirsi un vuoto nel quale la destra potrebbe tornare al governo in alcuni paesi, oppure potremmo vedere governi tecnici o di coalizione ancora più moderati di quelli attuali. La partecipazione al governo del nostro partito, così come quella del Partito comunista francese, rende più lento e complicato il percorso che i lavoratori devono fare per liberarsi delle illusioni nella socialdemocrazia, e questo ritardo apre alle destre nuove possibilità.
Ma un conto è che la destra riesca a conquistare temporaneamente una maggioranza parlamentare, un altro è riuscire a portare avanti il proprio programma nella società, come Berlusconi imparò a proprie spese nel 1994.
Per governare stabilmente, la destra dovrebbe prima sconfiggere e demoralizzare il movimento operaio scontrandosi in campo aperto come fece la Thatcher nel 1984 coi minatori britannici, o come fece in Italia la Fiat nel 1980. Oggi tuttavia le condizioni sono diverse.
Il movimento operaio in Europa vede le sue forze in gran parte ancora intatte. Le mobilitazioni della metà degli anni ’90 non sono state affatto la fine di un ciclo, ma l’esatto contrario: i primi segni dei movimenti del futuro. Quali che ne siano gli esiti temporanei, la crisi del socialismo europeo preannuncia una nuova epoca di lotte di classe su tutti i terreni.
In questo scenario dobbiamo collocare l’elaborazione dei comunisti e la nostra lotta per l’egemonia a sinistra.