Contributo alla discussione
Introduzione
Traiamo fondamentalmente un bilancio negativo della direzione data ai Giovani Comunisti dall'ultima Conferenza Nazionale ad oggi. Questa idea non ci viene suggerita soltanto dai dati di tesseramento, per altro in calo o stagnante dal '98. La nostra valutazione parte da questioni ben più politiche.
I due cortei dei metalmeccanici del 6 luglio e del 16 novembre, le giornate di Genova, l'inizio della recessione economica, gli attacchi portati dal Governo allo Statuto dei Lavoratori, la guerra in Afghanistan sono tutti sintomi da punti differenti di un cambiamento oggettivo della situazione politica internazionale e nazionale. Il periodo che ci si presenta davanti non sarà un periodo di pace sociale ma un periodo in cui i rapporti di forza tra le classi saranno scossi da capo a piedi. Migliaia di giovani, così come visto prima di Genova, iniziano ad interessarsi delle vie per cambiare questa società. In questo clima le posizioni finora minoritarie dei comunisti potranno trovare un ascolto fino a qualche tempo fa insperato. Rifondazione Comunista ed in particolare i Giovani Comunisti possono svolgere un ruolo fondamentale nell'organizzare in senso rivoluzionario questo nuovo strato di giovani che entra sull'arena politica. La domanda è con quali idee, con quali metodi, con quali prospettive si potrà trasformare un'organizzazione di 10.000 iscritti quale i Giovani Comunisti in una struttura rivoluzionaria in grado di avere un peso ed un'influenza di massa sugli avvenimenti?
La direzione attuale dei Gc ha già dato la propria risposta nella pratica: sperano di costruire i Giovani Comunisti correndo una un corteo all'altro, rinunciando a portare propri contenuti nei movimenti, facendo l'anima organizzata dei centri sociali più moderati, preferendo i gesti eclatanti della Disobbedienza al lungo lavoro di radicamento nelle scuole, aziende ed università, negando la centralità della classe operaia per abbracciare le delizie della "società civile".
Dal nostro punto di vista si tratta di un doppio errore. Non solo hanno abdicato, in pratica, al tentativo di costruire un'organizzazione comunista di massa, ma lo fanno precisamente nel momento in cui più questo compito è possibile e necessario.
Nel trarre un bilancio negativo dell'attività svolta dall'Esecutivo Nazionale dei Giovani Comunisti, non possiamo che includervi anche i numerosi rinvii che la nostra stessa Conferenza Nazionale ha subìto. L'ultima Conferenza Nazionale si è tenuta nel '97. Inizialmente doveva essere svolta ogni anno. In seguito il Congresso del Partito ha stabilito che dovesse tenersi ogni due anni, quindi nel dicembre del '99. Da allora la Conferenza è stata promessa e rinviata a più riprese, giocando letteralmente a rimpiattino con il dibattito democratico della nostra organizzazione. Solo alcuni esempi: nell'ottobre del '99 il Coordinatore Nazionale scriveva: "Ancora un momento utile, anche in vista della Conferenza Nazionale (che abbiamo previsto in primavera". Nel gennaio del 2001, ancora, un ordine del giorno approvato all'unanimità dal Coordinamento Nazionale dei Gc prometteva: "Il coordinamento nazionale ritiene infine importante che l'insieme di queste questioni vengano affrontate in un dibattito ampio che coinvolga tutta l'organizzazione giovanile e per queste ragioni ritiene necessario che la 2^Conferenza Nazionale delle giovani comuniste e dei giovani comunisti si svolga prima dell'estate". Sul fatto che il dibattito democratico interno fosse fondamentale ci sono pochi dubbi. Sul fatto che in entrambi questi esempi la Conferenza sia stata rinviata ce ne sono ancora meno.
Non possiamo non chiederci quali siano stati i motivi politici di questi rinvii. Le cause ufficiali sono sempre state di natura organizzativa: "mancavano i tempi" per fare la Conferenza. Al di là del fatto che per i comunisti anche i motivi organizzativi hanno una base politica, non possiamo accettare con serietà che per quattro anni siano mancati i tempi per fare la Conferenza Nazionale. Le cause dei diversi rinvii sono ben più politici. C'è un legame inscindibile tra la "teoria della contaminazione" e il rinvio della Conferenza. Dall'inizio del movimento antiglobalizzazione i vertici dei Giovani Comunisti hanno teorizzato che non fosse necessario intervenire nel movimento portandovi le posizioni dei comunisti, ma che fosse necessario "farsi contaminare" dalle posizioni già presenti nel movimento. A cosa serve, allora, la Conferenza Nazionale se le nostre posizioni devono essere semplicemente prese dal movimento? Negare l'intervento dei comunisti nel movimento finisce per negare la stessa necessità di organizzarsi e discutere la linea politica.
I continui rinvii subìti dalla Conferenza sono la prima prova di dove porti la linea dell'attuale direzione dei Giovani Comunisti. E' la più evidente, davanti agli occhi di tutti i nostri iscritti. Speriamo di fornirne altre nel corso di questo documento.
Crisi e instabilità del capitalismo
Anche in una Conferenza giovanile, da marxisti, non possiamo che iniziare la nostra analisi dalla situazione economica internazionale e dalla situazione stessa del capitalismo. Dopo la caduta dell'Unione Sovietica gli strateghi del capitale non hanno perso occasione per lodare le sorti progressive del capitalismo come l'unico dei sistemi possibili. Nel '91 George Bush senior aveva promesso un Nuovo Ordine Mondiale in cui il capitalismo si sarebbe sviluppato armoniosamente, risolvendo gradualmente e pacificamente ogni contraddizione all'interno della nobile alternanza parlamentare borghese. In seguito gli economisti borghesi hanno cercato di dare una base economica a questa teoria: i fautori del paradigma della "new economy" hanno seriamente sostenuto che l'introduzione delle nuove tecnologie e di internet avessero eliminato le crisi cicliche del capitalismo preparando una ripresa economica continua ed ininterrotta. Lo scenario che abbiamo di fronte agli occhi è decisamente diverso.
A livello internazionale è incominciata una delle recessioni più profonde dal dopoguerra. Dopo il Giappone, il sud-est asiatico, la Russia, il Sud America, ora è arrivato il turno dell'economia Usa. In tutti i settori produttivi assistiamo allo svilupparsi di fenomeni di sovrapproduzione. Questo non avviene soltanto nei settori classici dell'economia (acciaio, alimentari ecc.) ma anche nei cosiddetti settori della "nuova economia": internet, telecomunicazioni ecc. Soltanto nel settore automobilistico si calcola che il 25% dell'offerta mondiale di automobili rimarrà invenduta. La profondità della crisi non ha tardato e non tarderà a farsi sentire direttamente sulle condizioni di vita dei lavoratori. 13 mesi di calo della produzione in Usa si sono già riflessi in un milione di licenziamenti ed altro mezzo milione di lavoratori si preparano a perdere il lavoro nel prossimo periodo. Inevitabilmente l'acuirsi della crisi economica avrà profondi effetti sui rapporti tra le classi e sui rapporti a livello internazionale.
Con il mercato letteralmente saturo di merci si acuisce la lotta per la conquista di ogni minima briciola di mercato. La guerra in Kosovo, il riaffiorare di odi etnici e nazionali anche negli stessi paesi capitalisticamente avanzati, gli scontri in Palestina erano già un sintomo a diversi livelli di questa situazione. La guerra in Afghanistan è solo l'ultimo episodio di questo processo. Un'altra prova evidente è il processo di riarmo in corso a livello mondiale. Il bilancio militare Usa era di 254 miliardi di dollari nel '97, mentre nel 1999 è salito a 305 miliardi. Per dare un'idea la spesa militare media del Usa durante la guerra fredda era (espressa in dollari del 1996) di 295,5 miliardi. Al riarmo degli Usa segue quello di tutti gli altri paesi: la Germania ha aumentato del 3,2% il proprio bilancio militare nel 2001 e il Giappone, con una svolta storica, ha iniziato a ricostruire un esercito degno di tal nome. Il mercato internazionale delle armi dopo qualche anno di crisi ha avuto una nuova impennata tra il '98 e il 2001. Tutto questo avveniva prima degli attentati dell'11 settembre e basterebbe in sè a smentire la propaganda della borghesia attorno alla necessità di "riarmarsi per la lotta al terrorismo".
Nello scenario internazionale sicuramente gli Usa rappresentano una potenza enorme, senza precedenti in tutta la storia dell'umanità. Il loro bilancio militare è superiore quello combinato di tutte le successive 12 potenze. Tuttavia osservare solo questo aspetto del processo vorrebbe dire avere una visione eccessivamente univoca della realtà. Guerre, controrivoluzione e rivoluzioni sono indissolubilmente legate. E' un'esigenza economica fondamentale per il gendarme a stelle e strisce cercare di organizzare il mercato mondiale sotto la propria egemonia. E questo compito incontra oggi sempre più difficoltà.
Questi ultimi anni non sono stati solo anni di rafforzamento dell'imperialismo e di pace sociale. Al contrario abbiamo assistito ad una ripresa delle lotte in paesi significativi. Negli ultimi anni abbiamo assistito a situazioni rivoluzionarie o pre-rivoluzionarie in Indonesia, Albania, Ecuador, Argentina, Algeria o a situazioni sociali estremamente tese in Iran, Sud Corea, Filippine, Venezuela, Perù, Sud Africa, Zimbabwe ecc. L'Europa è oggi alla coda di questi processi politici ed economici, ma non lo rimarrà a lungo. In Grecia nel 2001 ci sono già stati due scioperi generali, mentre in Spagna è ancora in svolgimento il movimento studentesco più grande degli ultimi 15 anni.
Imperialismo o impero?
Oggi più che mai la questione fondamentale che si presenta davanti ai comunisti è chi metterà in discussione l'egemonia dell'imperialismo Usa: un altro blocco di potenze capitaliste ugualmente reazionarie o il movimento operaio internazionale? E' evidente che il prevalere di queste due alternative non è indifferente. Esattamente la vicenda della guerra in Afghanistan dimostra che per i comunisti non è sufficiente mettere in discussione l'egemonia Usa ma lavorare perchè essa sia messa in discussione da un'evidente alternativa di classe.
Da questo punto di vista riteniamo assolutamente sbagliate, se non nocive, le due principali posizioni che si sono sviluppate nel nostro partito, e di riflesso tra i Giovani Comunisti, sulla questione internazionale.
Da una parte (ed è tesi maggioritaria) c'è chi teorizza lo svilupparsi internazionale di un "superimperialismo" o meglio dell'impero, una sorta di dominio internazionale delle multinazionali avulso dallo stato nazionale. Secondo questa teoria i conflitti tra diversi imperialismi non esisterebbero più ma un unico grande interesse imperiale a cui i poveri stati-nazione devono ogni tanto versare un obolo. Difficilmente questa tesi ci potrebbe spiegare gli avvenimenti in Africa dove l'imperialismo Usa e quello francese si stanno scontrando per il dominio della produzione delle materie prime, non ultimi i diamanti. Difficilmente potrebbe spiegare gli stessi avvenimenti in Macedonia dove dietro alla guerriglia kossovara e al presidente macedone si vanno a situare interessi imperialistici differenti. Difficilmente potrebbe spiegare il motivo per cui in Afghanistan dietro i tagiki all'Alleanza del Nord si è posizionata la Russia, mentre il fronte reale ha l'appoggio degli Usa. Ma quel che è peggio è che questa tesi ci porta inevitabilmente ad appoggiare lo stato-nazione in contrapposizione alle multinazionali, dimenticando che tutt'oggi lo stato-nazione è il principale strumento coercitivo e di repressione in mano alla borghesia. Non è un caso che i fautori della teoria dell'impero parlino spesso di necessità di recuperare la sovranità nazionale. Come internazionalisti la sovranità nazionale la lasciamo volentieri ai nazionalisti di ogni sorta ed alla borghesia che dietro questo termine ha costruito le maggiori guerre di rapina della storia.
Dall'altra parte, invece, c'è chi teorizza una sorta di blocco antagonista agli Usa formato da Russia, Cina e altri paesi asiatici da opporsi al blocco statunitense. La via secondo cui la sinistra italiana dovrebbe unirsi a questo blocco è l'appoggio acritico ai partiti comunisti di questi paesi o alle loro borghesie nazionali. Questa teoria finisce per far accodare il movimento operaio internazionale a quei partiti comunisti dell'est che da decenni hanno abbandonato la prospettiva internazionalista o a quelle borghesie nazionali che per propria natura possono oscillare tra un atteggiamento servile verso l'imperialismo o un'opposizione allo stesso da basi ugualmente reazionarie
Entrambi queste teorie guardano al proletariato internazionale come una pedina da far accodare ora a questa ora a quella frazione della borghesia. Non è casuale che entrambe si trovino poi d'accordo sull'appoggio all'Onu o sulla concezione d'Europa (pur chiedendo illusorie modifiche di entrambe) come poli possibili da contrapporre agli Usa.
Dell'idea di promuovere concretamente un'azione internazionale dei lavoratori indipendente da ogni settore della borghesia non se ne vede la minima traccia.
Il movimento antiglobalizzazione e l'azione dei comunisti
Un sintomo significativo delle contraddizioni che si accumulano a livello internazionale è stata proprio la nascita e lo sviluppo del cosiddetto "movimento antiglobalizzazione". Dalla manifestazione di Seattle circa due milioni di persone hanno preso parte ai diversi cortei antiglobalizzazione. Dopo anni assistiamo ad un movimento che contesta le basi stesse del capitalismo. Continua ad esserci un enorme contraddizione, però, tra i mali del capitalismo giustamente denunciati dal movimento e le soluzioni riformiste che la direzione del movimento continua a proporre. Va da sè che un movimento che non contesta il singolo aspetto del sistema ma l'intero sistema è un'enorme potenzialità per i comunisti per spiegare la propria alternativa al capitalismo e rimettere all'ordine del giorno la necessità di un suo abbattimento rivoluzionario. Invece che provare a giocare questo ruolo, i vertici dei Giovani Comunisti sono entrati nel movimento assorbendo e orientandosi proprio alle idee riformiste della direzione del movimento.
Ciò che guida il movimento antiglobalizzazione è una convinzione di fondo: il profitto di un migliaio di multinazionali a livello mondiale deve cessare di essere il motore dello sviluppo dell'umanità. La domanda che sorge è: come fare a scalfire il potere di questa cricca di imprenditori e speculatori? La domanda è unica, le risposte date sono le più disparate. Soprattutto gli unici che non sono intervenuti fino ad oggi per dare una propria risposta sono i Giovani Comunisti e il nostro Partito.
All'interno del movimento c'è chi teorizza che il colpo al capitalismo debba essere portato dal terreno del consumo, boicottando i prodotti delle multinazionali. La linea del "boicottaggio del consumo" teorizza che il colpo principale al capitalismo non possa essere più dato nei rapporti di produzione ma attraverso il consumo boicottandone marchi e prodotti. Questa concezione ipotizza che si possa costruire una catena produttiva e commerciale in qualche modo alternativa a quella delle multinazionali basata su questi nessi: consumo-critico-commercio equosolidale-produzioni naturali controllate da piccoli produttori. Si tratta di una concezione, a nostro parere, utopistica o inutile. E' impossibile risalire dall'ultimo anello della catena (il consumo) per mettere in discussione l'intero sistema. I prodotti delle grandi aziende conquistano il mercato per i propri prezzi stracciati e il loro strapotere nella distribuzione. Non c'è nessuna forma di consumo critico che tenga quando il lavoratore deve fare i conti col proprio salario e con la necessità di arrivarci a fine mese. Ammettiamo pure per ipotesi irreale che il consumo critico riesca a "vincere". Le multinazionali sarebbero semplicemente costrette a vendere prodotti con il marchio "biologico". Innanzitutto non ci sarebbe nessuna garanzia che si tratti di prodotti realmente naturali, visto che la produzione e la stessa ricerca scientifica rimarrebbero sotto il controllo della borghesia. In secondo luogo questo non cambierebbe di una virgola le contraddizioni del capitalismo che non risiedono nel consumo ma nei rapporti di produzione. Anche trovando strane alchimie (e non ce ne sono!) per imporre una buona qualità dei prodotti, i costi verrebbero tagliati da altre parti: magari dal capitolo sicurezza sul lavoro!
Continuando nella nostra ipotesi irreale di vittoria del consumo alternativo, inoltre, il settore del commercio alternativo crescerebbe. All'interno di questo settore si aprirebbero contraddizioni dettate dalla concorrenza e il settore "alternativo" del mercato finirebbe per assumere le logiche di quello "dominante". La piccola produzione naturale non farebbe altro che ripercorrere la strada che la piccola produzione capitalista ha già percorso trasformandosi in grossa produzione. Non è questa la storia di oltre un secolo del movimento cooperativo? Nato da esigenze simili oggi è sempre più difficile distinguerlo dal resto delle aziende. Per quanto riguarda poi l'esaltazione della piccola produzione basta ricordare che anche McDonald's nel '47 era un piccolo produttore. Se la piccola borghesia si appella alle "cose naturali", è solo perchè non ha la forza economica per tagliare i costi di produzione con la ricerca transgenica. Si limita a chiedere lo smantellamento totale dei diritti dei lavoratori come modo "economico" per tagliare i costi e produrre dei buoni e genuini prodotti naturali e italianissimi.
Un altro filone di pensiero nel movimento antiglobalizzazione è quello che esalta il protezionismo come via di sviluppo che difenda i paesi del Terzo Mondo. Come comunisti consideriamo protezionismo e liberismo due facce della stessa medaglia. E non sapremmo proprio dire quale delle due è più reazionaria. Il protezionismo non risolverebbe nulla. Innanzitutto aumenterebbe i prezzi dei prodotti comprimendo ancora di più i consumi operai. La favola poi che "protezionismo" voglia dire meno colonialismo è una delle più ridicole. Anzi: protezionismo vuole dire ancora più aggressività delle grandi potenze verso i mercati del terzo mondo. Infatti i paesi capitalistici avanzati sostituirebbero con il colonialismo diretto ciò che non possono prendere attraverso il commercio mondiale. Crediamo non sia casuale che il crollo del commercio mondiale dal 10 al 2% coincida con il periodo di riarmo internazionale. Questo non vuol dire che siamo con il neoliberismo. Vuol dire che non combattiamo il neoliberismo contrapponendogli il protezionismo. Combattiamo il capitalismo, sia esso si trovi in una fase di espansione o contrazione del commercio mondiale.
Egemonia o contaminazione?
In tutte le ipotesi che abbiamo provato ad illustrare il potere straripante delle principali aziende capitaliste andrebbe arginato con delle leggi, con il boicottaggio di qualche prodotto, valorizzando le piccole botteghe. Non c'è niente di strano che un movimento spontaneo nasca con posizioni confuse, primitive. Quello che è strano ed inaccettabile è che queste idee vengano elette a linea della nostra organizzazione.
Noi crediamo che tutte le contraddizioni giustamente denunciate dal movimento antiglobalizzazione non risiedano nel singolo prodotto o nella singola azienda. Sono contraddizioni che derivano dal funzionamento complessivo del mercato. A poco può servire boicottare la singola azienda, prodotto o marchio. Anche ammettendo di eliminare dal mercato i prodotti Motta, è forse una delizia gustarsi un gelato Sammontana sapendo che ha rifilato di recente la cassa integrazione a 160 dipendenti, che prende il latte dalla Parmalat, leader del colonialismo in Brasile e Sud Africa? Chi propone il boicottaggio dei prodotti perchè nati dallo sfruttamento capitalista dovrebbe trarre le conseguenti conclusioni: boicottare tutto e tornare a coltivare i campi da sè. Noi proponiamo invece che sia eliminato non il singolo prodotto dal mercato, ma il mercato stesso.
Noi comunisti siamo parte integrante del movimento antiglobalizzazione. Siamo determinati a portarlo avanti fino al successo. Proprio per questo rigettiamo ogni ipotesi parziale come quelle che abbiamo appena elencato. Chi ci accusa di voler dividere o "criticare" il movimento, non comprende che è l'esatto contrario. Il prevalere delle idee riformiste fin qua esposte segnerebbe e segnerà la fine del movimento, per una ragione semplice: per portare avanti queste rivendicazioni non c'è bisogno della lotta di classe e di azioni collettive di massa ma dell'azione individuale quotidiana.
Il nodo centrale posto dal movimento antiglobalizzazione è a nostro avviso un altro e deve essere tagliato alla radice. E' il nodo della proprietà e del controllo sociale dei mezzi di produzione. Non potrà mai esistere nessuna seria forma di controllo sociale sulla produzione e sul consumo fino a quando la gran parte delle risorse economiche produttive del mondo saranno concentrate nelle mani di un pugno di capitalisti. 10 grandi banche hanno un bilancio complessivo del 30% del Prodotto Mondiale Lordo. Un gruppo di 37mila imprese, con le loro 200mila affiliate, controlla il mercato mondiale. Lì sono concentrate le leve decisive dell'economia, della finanzia e anche della politica. Solo il proletariato mondiale- unendo attorno a sè tutte quelle forze sociali (disoccupati, studenti, contadini nei paesi arretrati) spinte alla rovina da questo sistema- può andare ad incidere su questo nodo attraverso l'esproprio delle principali multinazionali a livello mondiale per sottoporle al controllo dei lavoratori in un regime complessivo di democrazia operaia consiliare. Questo è quello che chiamiamo comunismo ed è in ultima analisi l'unica alternativa credibile che tutt'oggi conosciamo a questo sistema. Proprio per questo continuiamo a ritenere fondamentale la costruzione di un'organizzazione comunista quale il Prc e i Giovani Comunisti.
Il compito dei Gc dovrebbe essere proprio quello di far sì che le idee comuniste siano egemoni in questo movimento. Non ci basta un riconoscimento perchè "le nostre bandiere erano presenti". Ci serve un'attività propagandistica perchè il marxismo sia politicamente egemone nel movimento antiglobalizzazione. Per noi egemonia non vuol dire mettere il cappello ai movimenti nè imporgli qualche linea dall'alto ma vuol dire, come voleva dire per Marx, Engels, Lenin e Gramsci: far sposare il programma scientifico e completo del proletariato con le rivendicazioni necessariamente ed ovviamente parziali e incomplete che sorgono da un movimento.
Non solo i Giovani Comunisti non si sono attrezzati per praticare questo tipo di egemonia, ma hanno teorizzato che fosse necessario farsi contaminare dalle idee presenti nel movimento. Posizione sbagliata quanto ipocrita. Sbagliata perchè un movimento di massa non è qualcosa di chimicamente puro. Quando migliaia di persone iniziano a porsi il problema di cambiare la realtà abbracciano idee nuove portandosi dietro ancora vecchi pregiudizi. Il compito di un'organizzazione comunista dovrebbe essere quello di promuovere le idee più avanzate all'interno di un movimento, contribuendo politicamente a superare le idee più arretrate. Ipocrita perchè i Giovani Comunisti non si sono fatti "contaminare" dalle posizioni genericamente presenti nel movimento. Hanno fatto una scelta di campo ben precisa: si sono gettati a rimorchio di Ya Basta e delle Tute Bianche, scordando un piccolo particolare: Ya Basta e le Tute Bianche non sono il movimento. Sono organizzazioni che lottano per diffondere le proprie concezioni quali l'autoimprenditorialità dal basso, il tessuto sociale basato su centri sociali e cooperative.
Come viene giustificata la teoria della "contaminazione"? L'argomentazione da cui si parte è semplice: questo movimento è nuovo, non è nato da noi, dobbiamo gettare a mare le nostre tradizioni e inventarci qualcosa di "nuovo". In realtà nessun movimento è mai nato dai Partiti. Dalla rivoluzione russa al '68 non sono i partiti comunisti che creano i movimenti. Di nuovo, quindi, non c'è nulla.
In secondo luogo i vertici dei Giovani Comunisti sostengono la necessità di non portare le posizioni dei comunisti nei cortei antiglobalizzazione in nome dell' "autonomia dei movimenti". La conclusione che se ne trae è che considerano le proprie posizioni un peso per lo sviluppo della lotta e non un arricchimento. Ci dovrebbero spiegare perchè se le loro posizioni sono un peso per il movimento, non sono anche un peso per la nostra stessa organizzazione. Ma al di là di questo: cosa vuol dire "autonomia dei movimenti"? Se si intende che assemblee elette con delegati dai posti di lavoro o di studio siano libere di determinare i futuri sviluppi del movimento, noi siamo i primi sostenitori di questa autonomia. Anzi tale autonomia attualmente non esiste e sosteniamo che vada creata. Le assemblee rappresentative del movimento devono cessare di essere la "somma di generali senza esercito" che si esercitano in un gioco diplomatico nel quale la massa dei militanti non ha reale voce in capitolo. Se invece con autonomia del movimento si intende che il movimento elabori le proprie idee senza che i comunisti portino un proprio contributo, le cose cambiano. Questo tipo di autonomia non esiste e non esisterà mai. Ogni movimento nasce spontaneamente ma si sviluppa all'interno di una società dove le "idee dominanti sono quelle della classe dominante". La borghesia evidentemente non è tanto rispettosa quanto noi dell' "autonomia dei movimenti": quando non riesce a vincerli con la repressione, interviene e cerca di egemonizzarli con le proprie concezioni. Se noi abdichiamo al tentativo di propagandare le nostre idee, altri propaganderanno le proprie.
Disobbedienza civile: un bilancio necessario
Il vanto continuo -come un ritornello ripetuto in ogni luogo e in ogni momento- dei vertici dei Giovani Comunisti è di "aver orientato la nostra organizzazione al movimento". Cercano di ridurre il nostro dibattito interno ad un dibattito tra chi voleva intervenire nel movimento e chi non lo voleva fare. Una volta presentata così la questione, ci pare ovvio che ogni nostro militante sceglierebbe chi vuole intervenire nel movimento. I termini del dibattito però non sono questi. Chi scrive non ha mai sostenuto che fosse necessario ignorare il movimento antiglobalizzazione. La questione non è se orientarsi o no al movimento, ma con che posizioni politiche farlo.
Orientarsi ad un movimento in sé vuol dire poco se non lo si fa con dei metodi ed un programma corretti. Con "corretti" intendiamo metodi e programma che si pongano l'obiettivo di risolvere i limiti di un movimento e non di perpetrarli. La realtà è che la nostra direzione nazionale non si è "orientata al movimento" ma alle idee più arretrate presenti nel movimento. Non si sono orientati alle necessità di questo movimento. Al contrario: hanno voltato le spalle al tentativo di far fare a questo movimento un salto qualitativo.
Attorno al vertice del G8 si è catalizzato lo scontento sociale accumulato per anni. Come comunisti non potevamo che salutare positivamente questo avvenimento. Un punto però doveva guidare la nostra azione. Il potere del capitalismo non risiede nei vertici dei grandi o nelle organizzazioni internazionali. Anche eliminando questi organismi non verrebbe eliminata una sola delle contraddizioni di questo sistema. Non è sufficiente la contestazione a questi organismi nè per ridurre a ben più miti consigli la borghesia, figuriamoci per rovesciare alle fondamenta questo sistema. Tuttavia il movimento che si era espresso a Genova poteva e può tutt'ora diventare il volano di un movimento di massa nei posti di lavoro, nelle scuole e nelle università. Questo era il punto su cui a Genova dovevamo insistere: tentare di trasformare un movimento che (limitandosi alla contestazione agli organismi internazionali) rischia di diventare movimento d'opinione, nella punta avanzata di un processo di ripresa della lotta di classe. I nostri vertici hanno fatto esattamente l'opposto: si sono concentrati sulle suggestioni simboliche della Disobbedienza Civile che concentrava tutta l'attenzione dei manifestanti sul tentare di varcare la linea rossa. Tutti i problemi di tattica, strategia, programma legati allo sviluppo di un movimento di massa sono stati tralasciati per dedicarsi alla pratica di questa miracolosa forma di lotta.
Diverse delle organizzazioni che hanno promosso le giornate di Genova hanno eletto la linea rossa a simbolo delle ingiustizie di questo sistema. Il simbolo però ha preso completamente il sopravvento sui contenuti. Il potere della borghesia non risiede nelle zone interdette ai manifestanti. L'esistenza di tali zone è sicuramente vergognosa, ma è il riflesso e non la causa delle ingiustizie del capitalismo. Il potere del capitalismo non risiede in una zona proibita, ma nella proprietà privata dei mezzi di produzione e nell'apparato statale che difende questa proprietà. Buona parte delle discussioni prima di Genova sono state totalmente incentrate su "come violare la linea rossa". Il movimento è stato diviso in quelle giornate non in base ai contenuti politici ma in base a quale atteggiamento veniva tenuto verso la linea rossa. I fautori della lotta simbolica hanno portato migliaia di giovani a passare intere giornate a fare "training" per superare la linea rossa, piuttosto che discutere con quali contenuti e con quali metodo continuare il movimento antiglobalizzazione.
La linea della Disobbedienza Civile è stata poi sbagliata per altri motivi. Mentre pubblicamente a parole i Disobbedienti provocano la polizia, dando un pretesto inutile all'avversario di classe per la repressione, tra i manifestanti predicano il pacifismo e la non violenza. Così si riesce nell'impresa ardua di ottenere il peggio delle due cose: il pretesto per la repressione e l'impreparazione dei manifestanti a rispondere a questa repressione.
Le posizioni prese da Casarini, ma anche da Bertinotti, subito dopo Genova contro il servizio d'ordine ai cortei crediamo che spieghino a pieno questa logica.
Pochi possono sostenere che le dimensioni di massa del 21 luglio siano state dovute alle trovate spettacolari dei Disobbedienti. Genova è stato quel che è stata nonostante i limiti e gli errori dei Disobbedienti (e nostri, visto che eravamo a loro rimorchio).
Disobbedienza Sociale: dal male al peggio
"....non vogliono altro che sembrare pericolosi e mettere in movimento tutta la macchina del giornalismo. Così queste canaglie impediscono e compromettono il movimento reale e mettono la polizia sul chi vive. E' mai esistito un partito simile il cui scopo confessato sia soltanto nel fare il gradasso?" Marx
Lo scontento sociale che si è espresso a Genova era evidente che si sarebbe trasmesso a terreni più tradizionali di lotta: scioperi, autogestioni, cortei studenteschi. Questo processo, come già detto, era ipotizzabile ed anzi auspicabile. Ed è avvenuto nonostante i nostri errori. Solo se la critica al capitalismo viene portata sul terreno della lotta di classe può dar vita a cambiamenti incisivi e reali. Invece che dirigersi in questa direzione, i nostri vertici sono rimasti, insieme ai Disobbedienti, a quello che era l'elemento peggiore di Genova: la sopravvalutazione del gesto eclatante e simbolico. A Genova, però, questo elemento era diluito in mezzo a centinaia di migliaia di manifestanti. Oggi i Disobbedienti si dirigono nella direzione esattamente opposta alle necessità della lotta. Lo ribadiamo: i nostri vertici non sono "orientati al movimento" come amano dire, ma gli stanno al contrario voltando le spalle.
Il 17 novembre è stata giornata di Disobbedienza Sociale. Ne traiamo le somme dall'inserto stesso pubblicato su Liberazione. In che cosa è consistita questa fantomatica forma di lotta? "Occupazione dell'agenzia di lavoro interinale Adecco (...) occupazione di uno stabile (...) campagna di boicottaggio di McDonald's (...) disobbedienza anti-proibizionista (...) Reclaim the Street, disobbedienza sonora itinerante (...) Nelle scuole (...) gli appelli saranno simbolicamente disertati. (...) aerei di carta diffusi in tutte le scuole (...) espropriando le fotocopiatrici e distribuendo saperi sociali." C'è un limite che le nostre discussioni non dovrebbero superare: quello del goliardico. Oltre al fatto che in queste forme di lotte GianBurrasca sembra aver superato Marx, c'è un lato tragico di questa questione. Tutto questo non avviene in un periodo di riflusso ma contemporaneamente a lotte di massa tra i metalmeccanici, i docenti, i lavoratori in genere per la difesa dell'articolo 18, in cui i Giovani Comunisti non stanno giocando nessun ruolo se non a livello di singoli. Mentre sono in campo movimenti reali che mettono in discussione attraverso l'arma dello sciopero gli interessi imprenditoriali, andando a toccare direttamente i profitti delle aziende, noi concentriamo l'attenzione dei giovani più radicali e dei nostri attivisti su tutto ciò che è simbolico e slegato da questi movimenti. Anche il comunicato di solidarietà mandato dai Disobbedienti (e dai Giovani Comunisti, quindi) ai metalmeccanici in occasione dello sciopero del 16 novembre lascia il tempo che trova. Il nostro ruolo di comunisti non è quello di mandare messaggi di solidarietà ai metalmeccanici come se ci rapportassimo da soggetto a soggetto; il nostro ruolo è radicarci tra i metalmeccanici per contendere l'egemonia ai burocrati sindacali sulla Fiom e sulla classe operaia.
C'è poi il lato peggiore della cosiddetta Disobbedienza: la teoria secondo cui, invece che porci l'obiettivo di rovesciare questa società, dovremmo promuovere un settore di mercato alternativo che risolva direttamente alcuni dei problemi della società. E' la teoria del Terzo Settore mutualistico e cooperativo che dovrebbe funzionare da stampella alle disfunzioni dello stato sociale. I Disobbedienti propongono per esempio di formare "un'agenzia immobiliare autorganizzata" per il problema della casa. Le basi riformiste della teoria del Terzo Settore sono evidenti. Magari meno evidenti sono i suoi effetti addirittura reazionari. La stessa destra e la stessa borghesia sponsorizzano il Terzo Settore di cooperative come metodo per smantellare lo stato sociale e infiltrare i privati nelle vecchie funzioni pubbliche. La Compagnia delle Opere immanicata con il Presidente della Lombardia Formigoni, con la sua potenza economica, è letteralmente la schiena del Terzo Settore in Lombardia. I Disobbedienti dovrebbero rifletterci quando lanciano le giornate di Disobbedienza Sociale contro l'odiato Formigoni.
Gli approcci da Terzo Settore dei Disobbedienti sono stati letteralmente il cavallo di troia per l'entrata delle idee più moderate in una serie di centri sociali. Queste idee hanno costituito il punto di contatto tra i vertici dei Disobbedienti e diverse realtà del centro-sinistra. L'ex-Ministra Livia Turco era ed è una grande fan di questa teoria. Casarini, non a caso, era suo consulente. Queste idee sono state la base su cui, ad esempio, a Trieste alcuni dei Disobbedienti attuali hanno stretto un accordo elettorale con il presidente uscente della Confindustria Triestina Pacorini.
A questo proposito ignoriamo a cosa si riferiscano i nostri vertici quando definiscono la Disobbedienza come "forma di conflitto sociale, autentico e non disposto a facili compromessi". Effettivamente stringere rapporti con certi personaggi, come hanno fatto in passato i Disobbedienti, non è facile. E' un'impresa per cui ci vuole una faccia tosta notevole.
Dalla riunione nazionale dei Social Forum, i Giovani Comunisti si sono stretti in un blocco organico con i Disobbedienti. Crediamo di aver reso l'idea di dove possa portare questo blocco. Vorremmo aggiungere un punto: il blocco con i Disobbedienti mette in discussione l'esistenza stessa dei Gc: perchè un giovane dovrebbe iscriversi ai Gc se sono una fotocopia dei "disobbedienti"? Tra l'altro per fare gesti eclatanti e simbolici non serve un'organizzazione comunista. Basta una qualsiasi associazione.
Centralità della classe operaia o società civile?
I vertici dei Giovani Comunisti non sembrano considerare più i lavoratori la classe fondamentale per cambiare la società. Il nuovo soggetto rivoluzionario diventa la società civile. Dove inizi e dove finisca questa società civile è difficile dirlo. Se accettassimo la definizione che la società civile sono tutte quelle associazioni tra Stato ed individuo dobbiamo includervi anche la Confindustria o le associazioni dei padroncini. Se invece intendiamo "tutta quella massa informe che non risponde a nessuna organizzazione politica", dovremmo chiederci come conquistarla alle idee della nostra organizzazione e non rallegrarci della sua esistenza.
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un bombardamento di teorie elaborate da svariati intellettuali di sinistra sulla "fine della conflittualità della classe operaia", o addirittura sulla fine della classe operaia, sulla fine del lavoro e altro ancora. Il tutto sarebbe causato dalla precarizzazione, dalle nuove forme di organizzazione del lavoro e dal rimpicciolimento delle aziende. Spesso queste teorie hanno trovato più ascolto nel nostro Partito che le stesse idee classiche del marxismo. La realtà è che -come spiega Marx nel Manifesto del Partito Comunista- il capitalismo è costretto in continuazione a rivoluzionare i metodi di produzione senza che questo -ci permettiamo di aggiungere umilmente- abbia mai pregiudicato le possibilità di mobilitazione e di organizzazione della classe operaia. Negli ultimi 200 anni il capitalismo è passato da ogni tipo di organizzazione produttiva: dal lavoro a domicilio, fino ai giorni nostri, il proletariato è sempre riuscito a trovare la via della mobilitazione e della sindacalizzazione. Storicamente ogni passaggio da un metodo di produzione ad un altro ha comportato momenti di disorientamento e teorie che preconizzavano la fine della conflittualità operaia. All'inizio del '900 si teorizzava che i lavoratori dequalificati non fossero sindacalizzabili. Prima del '68 si teorizzava che le grosse concentrazioni operaie fossero un deterrente alla lotta a causa del maggior controllo delle gerarchie aziendali sui lavoratori. Tutte questo teorie sono impressioniste: in ogni momento di riflusso sociale salta fuori chi sostiene che cambiamenti di vario genere abbiano comportato un addormentamento definitivo del proletariato e che bisogna mettersi alla ricerca di altri "soggetti rivoluzionari". Tutte queste teorie, manco a dirlo, si sciolgono come neve al sole allo scoppio delle prime lotte operaie.
La realtà è che le cause della punta minima di scioperi toccata n Italia durante il Governo del centro-sinistra sono da ricercare principalmente in fattori soggettivi e non oggettivi. In quegli anni i lavoratori italiani si sono trovati con le proprie organizzazioni apertamente complici di una politica di svendita sociale. La morsa della concertazione ha messo i lavoratori di fronte al difficile compito di lottare contro il padrone e contro i propri stessi dirigenti. Questa è stata la vera causa del calo degli scioperi.
Oggi nessuno osa più dire con serietà che il proletariato non esista più o che si tratti di una classe residuale. Dopo il corteo dei metalmeccanici, la ripresa degli scioperi in settori significativi, la minaccia di sciopero generale, questa posizione farebbe ridere. Allora si ripiega su una posizione più sobria: il proletariato esiste ma non è più la classe fondamentale per il cambiamento della società ma solo uno dei tanti soggetti che compongono la società civile o le moltitudini. Questa tesi non è vera nè da un punto di vista statistico nè da un punto di vista politico.
Da un punto di vista meramente numerico il proletariato è oggi all'apice della sua forza. Addirittura nei paesi Ocse, dove pure sono in atto processi di ristrutturazione su larga scala, il numero dei lavoratori dell'industria è cresciuto sia pure di poco passando dai 112 milioni del 1973 ai 113 del 1995. Nel resto dei paesi, cosiddetti in via di sviluppo, la forza lavoro industriale è aumentata dai 285 milioni del 1980 ai 407 del 1995 (fonte www.labornotes.org). Tra l'altro questi dati si riferiscono solo alla cosiddetta classe operaia industriale, la quale non é ovviamente l'unica a comporre quello che definiamo proletariato. La realtà è che anche dove abbiamo assistito ad un calo della presenza del settore industriale classico, c'è stato un processo parallelo di industrializzazione del settore terziario. Funzioni che negli anni '70 venivano svolte da lavoratori isolati o addirittura dalla piccola borghesia, oggi vengono svolte da gruppi di lavoratori riuniti sotto un unico padrone. Pensiamo, ad esempio, ai call-center dove abbiamo assistito ad un processo di rapida sindacalizzazione. Pensiamo agli stessi Autogrill o McDonald's dove in Italia e soprattutto in Francia abbiamo assistito anche ad un primo processo di sindacalizzazione e alla prima giornata di sciopero. Questi settori, oggi completamente ignorati dai teorizzatori della fine della classe, svolgeranno un ruolo fondamentale nelle future lotte a fianco della classe operaia classica. Un assaggio di questo si è visto proprio durante il corteo dei metalmeccanici di luglio a Milano dove all'interno del corteo metalmeccanico i più combattivi e organizzativi erano i lavoratori dei call-center, in particolare Omnitel.
Detto questo, però, il ruolo delle classi non può essere definito in maniera semplicemente algebrica. Al di là della sua forza numerica, il proletariato rimane l'unica classe in grado di cambiare la società, visto che è l'unica a poter incidere sul nodo della proprietà privata e a poter in futuro sostituire alla proprietà privata dei mezzi di produzione la pianificazione collettiva e democratica dei lavoratori. Ovviamente un movimento di massa scuote dalle fondamenta tutta la società coinvolgendo nella lotta anche settori non proletari: disoccupati, studenti, piccoli borghesi in rovina ecc. Questo è assolutamente positivo. La questione fondamentale però è che il proletariato in questa equazione di forze sociali deve porsi il problema di essere alla direzione del movimento, candidandosi a risolvere non solo i suoi problemi sindacali ma l'interezza dei problemi della società.
Quando ci si dice che comunque la classe lavoratrice è presente nel movimento antiglobalizzazione perchè "la Fiom ha aderito", non si comprende il problema. Certo che la classe lavoratrice è presente nel movimento antiglobalizzazione! Non è una novità: i veri protagonisti a Seattle sono stati i sindacati americani. Il problema è che, oltre ad essere presente nel movimento, il proletariato deve essere la classe fondamentale su cui si basa il programma che i comunisti portano nel movimento. Non "scioperi di cittadinanza", ma movimento di scioperi nei posti di lavoro, non "boicottaggio del consumo" ma "arresto della produzione", non campagne per vendere Lambrusco davanti ai McDondald's, ma sindacalizzazione dei lavoratori di ogni settore, non "mercato alternativo", ma espropriazione dei principali monopoli capitalistici.
Radicarsi nei posti di lavoro
A fronte di chi ci prometteva una classe operaia aconflittuale o residuale, tanto da andare alla ricerca del nuovo soggetto rivoluzionario, oggi ci troviamo di fronte ad uno scenario diverso. Basta avere la volontà di vederlo e di intervenirvi. La concertazione non si sta rompendo solo da destra con Confindustria che spinge per portare gli attacchi definitivi allo Statuto dei Lavoratori, alle pensioni e al Contratto collettivo. Si sta rompendo anche da sinistra con una ripresa delle mobilitazioni dei lavoratori e una sempre minore disponibilità da parte degli stessi ad ingoiare nuovi rospi. Prima dell'estate, ad esempio, abbiamo assistito agli scioperi alla Fiat, con un'adesione massiccia proprio negli stabilimenti meridionali. Per la prima volta si sono rivisti cortei interni agli stabilimenti a cui si sono uniti anche precari. Abbiamo assistito all'esemplare lotta dei lavoratori della Zanussi contro il lavoro a chiamata, allo sciopero ad oltranza alla Arneg di Padova, alle prime mobilitazioni dei call-center Omnitel e alla vertenza degli interinali alla Tim di Bologna. Invece più recentemente è stata la volta dei docenti e del personale non docente della scuola, del settore trasporti, del personale degli aereoporti, del comparto ricerca dell'università ecc. ecc. Su tutte queste vertenze spicca naturalmente la lotta dei metalmeccanici con i cortei di luglio e di novembre.
Sicuramente rimane una differenza enorme tra il processo di rottura della concertazione da destra e da sinistra. Mentre a destra la borghesia rompe la concertazione con un piano cosciente, con una direzione soggettiva e con il favore delle proprie organizzazioni, il proletariato è costretto a cercare da solo, per successive approssimazioni, senza una direzione e spesso contro i vertici delle proprie stesse organizzazioni, la via per rompere la cappa concertativa. Si tratta di una differenza non da poco.
La burocrazia sindacale teme come fumo negli occhi la possibilità di unificare tutte le vertenze dei singoli comparti in unica lotta contro il Governo e contro gli attacchi di Confindustria. Cofferati si riempie la bocca della parola "unità", ma l'unità che intende è un'unità sindacale dall'alto sul cui altare sacrificare lo sviluppo del movimento reale. Il caso più eclatante è stato sicuramente quello dello sciopero generale mancato, o meglio dello "sciopericchio" di sole due ore contro gli attacchi all'articolo 18. Il problema è quale direzione soggettiva può e deve porsi l'obiettivo di raccogliere lo scontento che cova nelle aziende offrendo un piano complessivo in risposta agli attacchi di Confindustria. I sindacati extra-confederali hanno dimostrato di poter giocare questo ruolo limitatamente ad alcune categorie di lavoratori. Quando si tratta di mobilitare la maggioranza della classe ne rimangono tagliati fuori. Un ruolo fondamentale, quindi, nell'offrire una direzione alternativa alla burocrazia Cgil dovrebbe essere giocato proprio dalla sinistra sindacale interna alla Cgil. La storia della sinistra Cgil, però, è tutt'altro che esaltante. La battaglia di poltrone, istituzionale, giocata ai Congressi e alle assemblee, invece che direttamente nelle aziende, l'ha portata spesso a prendere posizioni accomodanti su tutta una serie di scelte sindacali. Basta leggere il documento congressuale di Lavoro e Società per rendersene conto. Eppure nella Sinistra Sindacale non è secondaria la presenza dei compagni del nostro Partito. Le ipotesi sono due, allora: o i nostri compagni nel sindacato ignorano come opporsi alla linea maggioritaria, oppure ne sono complici. In entrambi i casi si tratta di un problema politico.
Qualcuno potrebbe obiettare che come Giovani Comunisti non dovremmo scendere sul terreno della "questione sindacale". Eppure non possiamo limitarci solo a cercare di organizzare i precari, altrimenti riprodurremmo nella nostra attività quella divisione tra "fissi" e "precari" che cerchiamo di combattere. La realtà è che i giovani lavoratori costituiranno nel prossimo periodo i principali attivisti nelle aziende, ragione per cui è necessario dare loro una visione chiara della tattica e del programma sindacale del nostro Partito. Limitarsi ad incensare qualche dirigente sindacale che si sposta una virgola a sinistra -come spesso viene fatto con Sabattini- non può essere definita nè una tattica nè un programma sindacale.
Dal nostro punto di vista la costruzione di una sinistra interna alla Cgil rimane l'unica via percorribile per mettere in discussione l'egemonia della burocrazia sindacale su milioni di lavoratori. Non abbiamo illusioni sulla riformabilità della burocrazia Cgil. Semplicemente crediamo che -per dirla con le parole di Lenin- i comunisti devono "lavorare assolutamente là dove sono le masse". La Cgil rimane la principale organizzazione operaia, non a causa della linea di Cofferati, ma per il legame che mantiene con l'interezza della classe.
Allo stesso tempo i comunisti non possono relegare la battaglia per la costruzione dell'opposizione interna alla Cgil alle assisi sindacali nazionali o regionali. Devono proporsi direttamente come una direzione alternativa nelle vertenze sindacali, facendosi riconoscere come coloro che propongono il programma e i metodi più coerenti per lo sviluppo della lotta. E' chiaro che di fronte allo "sciopericchio" lanciato dalle burocrazie sindacali, il nostro ruolo non doveva e non deve essere quello di commentatori scettici degli errori di Cofferati, ma di lanciare una campagna davanti e dentro ogni posto di lavoro in cui siamo presenti per far approvare mozioni a favore dello sciopero generale. Ed è chiaro che il nostro obiettivo all'interno di un simile sciopero dovrebbe essere proprio quello di portarlo sul terreno politico rivendicando la caduta del Governo. Non escludiamo che in futuro Cofferati stesso sia costretto a far sue queste indicazioni sotto la pressione dal basso dei lavoratori. Prima porremo noi la questione, prima sventeremo uno scenario simile al '94 in cui le direzioni sindacali si spostarono a sinistra per poi tradire la lotta firmando la riforma delle pensioni Dini nel '95.
In tutto questo processo i Giovani Comunisti dovrebbero giocare un ruolo fondamentale nell'avvicinare i lavoratori e gli attivisti sindacali più giovani. Si tratta del settore della classe con meno esperienza di lotta ma anche meno bruciato dalle sconfitte passato. Tale settore potrà essere avvicinato solo se sapremo fornire un programma complessivo rivolto a giovani lavoratori, precari e non, ed ai giovani disoccupati.
Senza avere la pretesa di indicarlo nei minimi particolari, un programma del genere non potrebbe partire che dalle seguenti rivendicazioni:
-riduzione a parità di salario, a 32 ore per i turnisti
-no al ciclo continuo; no al lavoro notturno per le donne
-salario minimo garantito per tutti i disoccupati, corrispondente al 70% del salario di un metalmeccanico di terzo livello
-trasformazione di tutti i contratti flessibili, a tempo determinato, in contratti a tempo indeterminato
-no al lavoro interinale. Ritiro del Pacchetto Treu e nazionalizzazione di tutte le agenzie private di collocamento interinale per trasformarle in uffici di collocamento pubblici gestiti democraticamente dalle rappresentanze sindacali
-nazionalizzazione di tutte le aziende in crisi, che minacciano chiusura o licenziamenti, sotto il controllo dei lavoratori. Rinazionalizzazione e rimunicipalizzazione di tutte le aziende private.
-ripristino della scala mobile, legando gli aumenti salariali all'inflazione reale
I nostri compiti nelle lotte studentesche
Tra il 1993 ed il 1998 il movimento studentesco è sceso più volte in piazza per mobilitarsi contro la privatizzazione dell'istruzione pubblica. Il conto con cui si è chiuso quel periodo è estremamente salato: l'Autonomia Scolastica e la parità sono passate con la complicità dei partiti di sinistra e le Regioni in mano al Polo (e non solo) hanno trovato la forza di peggiorare i provvedimenti scolastici dei diversi Governi. Tutto ciò non è una colpa da attribuire alla generosità con cui si sono battuti gli studenti. Anzi, se non fosse stato per il movimento studentesco, l'Autonomia Scolastica sarebbe già passata in blocco nel 1993. La realtà è che in quegli anni le strutture egemoni tra gli studenti hanno spesso sottoposto il movimento studentesco soprattutto nelle grandi città ad una ginnastica movimentista: autogestioni e cortei si sono succeduti senza preparazione e prospettiva, con la logica più di impressionare i mass-media che di costruire una presenza duratura nelle scuole. Questa esperienza dimostra precisamente come per noi non sia solo necessario evocare o rallegrarci della presenza di un movimento ma trovare le vie perchè questo movimento sia vittorioso.
Dopo il '98 il movimento studentesco ha ripiegato su sè stesso, con due autunni che hanno segnato la punta minima di lotte studentesche. Ora però assistiamo ad una nuova inversione di tendenza. A macchie di leopardo, in diverse zone d'Italia, torniamo a vedere cortei significativi e occupazioni di scuole. Si tratta di una situazione ancora non generalizzata a livello nazionale ma sicuramente ben presente in città come Roma, Napoli, Firenze ecc. In questo clima il corteo del 20 dicembre potrebbe diventare un punto di riferimento per l'unificazione delle lotte.
Proprio per questo ricordare gli errori commessi negli anni passati diventa fondamentale per non ripeterli.
Uno dei limiti fondamentali del movimento studentesco italiano è l'assenza di una struttura studentesca nazionale non burocratica che sia in grado di unificare le singole lotte concentrando gli sforzi del movimento nel punto decisivo al momento decisivo. Più volte ci richiamiamo alle esperienze internazionali, poche volte lo facciamo anche sul terreno delle lotte studentesche. In Spagna, ad esempio, mentre scriviamo è in svolgimento uno dei movimenti degli studenti più forti degli ultimi quindici anni. Basta dare un'occhiata alle dinamiche del movimento studentesco spagnolo per rendersi conto dell'importanza della presenza di un'organizzazione nazionale studentesca con un programma di classe e combattivo. Le mobilitazioni, infatti, sono partite con una prima mobilitazione convocata ad ottobre dal Sindicato de Estudiantes spagnolo, struttura studentesca nata dal movimento del 1986 e con un programma fortemente spostato a sinistra. Nonostante le mobilitazioni a livello locale nelle cittadine più piccole non abbiano superato i 1.000 partecipanti, la loro contemporaneità ha fatto sì che questa prima data di lotta fosse vissuta dagli studenti come un enorme successo con più di 100mila studenti in piazza in tutta la Spagna. Il Sindicato ha contattato, in seguito, le organizzazioni dei lavoratori, per convocare una seconda data per il 7 novembre, il cui successo ha superato la prima manifestazione di ottobre. Dialogando dialetticamente con il movimento, ponendo il programma e le scadenze di mobilitazione in votazione nelle assemblee nelle scuole e nelle università, garantendo ad ogni corteo la diffusione di decine di migliaia di volantini che facevano il punto della situazione e proponevano alle diverse scuole le mosse successive, il Sindicato ha saputo garantire quasi 3 mesi di mobilitazione ininterrotta in cui tutto il movimento studentesco si è concentrato all'unisono su alcune date fondamentali: 25 di ottobre (2 milioni di studenti in sciopero, 120mila nei cortei delle diverse città), 7 novembre (3 milioni di studenti in sciopero, 200mila nei diversi cortei delle città), 14 di novembre (oltre 300mila partecipanti), 28 di novembre (oltre 200mila partecipanti), 1 di dicembre (corteo nazionale a Madrid).
In Italia in realtà esiste una struttura studentesca nazionale, l'Unione degli Studenti (Uds), le cui caratteristiche sono ben note: programma estremamente moderato, scarso radicamento nelle scuole, estrema dipendenza dall'apparato Cgil. Nonostante, però, più volte ne sia stata annunciata la morte, in più d'una occasione l'Uds ha saputo riprendersi tornando a mobilitare diverse decine di migliaia di studenti a livello nazionale. E' stato il caso del 30 novembre in cui circa 200mila studenti, secondo gli organizzatori, la metà secondo le forze dell'ordine, sono scesi in piazza sulla data di mobilitazione convocata dall'Uds. Questo ci deve suggerire qualcosa: quando montano le proteste studentesche, il movimento sente la necessità di una struttura che sia in grado di proporre scadenze unitarie a livello nazionale. Ovviamente non ci può andare bene che queste mobilitazioni vengano convocate sul programma dell'Unione degli Studenti.
Al programma dell'Uds, come Giovani Comunisti dovremmo contrapporre un programma di coerente difesa dell'istruzione pubblica che parta dai seguenti cardini:
-totale gratuità dello studio (dall'iscrizione a scuola, fino ai libri di testo e ai mezzi di trasporto)
-potenziamento della scuola pubblica (raddoppio dei finanziamenti all'istruzione pubblica, ristrutturazione delle vecchie strutture, costruzione di nuove scuole)
-assunzione di tutti i docenti precari e di nuovi docenti per arrivare ad una media che non superi i 20 alunni per aula
-rifiuto di qualsiasi forma di privatizzazione dell'istruzione pubblica; interrompere immediatamente qualsiasi forma di collaborazione tra scuole e privati
-per una scuola democratica: abolizione della figura del preside-manager, per sostituirlo con un coordinatore amministrativo eletto tra il corpo docente dagli studenti e dal personale docente e non docente
-ritiro di tutte le misure legislative approvate dal '95 in poi: cessazione immediata di qualsiasi finanziamento alle scuole private
-per una scuola laica: abolizione dell'ora di religione
-se mancano i soldi o le strutture per garantire tutto questo, si taglino le spese militari o si nazionalizzino senza indennizzo tutti gli istituti privati
Crediamo insomma che i Giovani Comunisti debbano dedicarsi alla costruzione di una struttura studentesca nazionale che cresca e trovi adesioni su basi programmatiche. In alcune città i Giovani Comunisti hanno tentato di ottenere questo obiettivo attraverso la costruzione dei Comitati in difesa della Scuola Pubblica. Tale modello deve essere riproposto a livello nazionale, dove è ora di finirla di convocare "forum delle strutture di movimento", destinati a trovare accordi su pochi punti e naufragare non appena si scende nel concreto della lotta con tutti i problemi complessi che essa pone. Attraverso il Comitato in difesa della Scuola Pubblica ci siamo posti appunto questo obiettivo: sviluppare realtà nelle scuole che difendano programmi e metodi omogenei di lotta. Solo una struttura nazionale di questo tipo potrà svolgere un ruolo di direzione politica del movimento studentesco a livello nazionale, togliendo definitivamente questo ruolo all'Uds e permettendo al movimento di colpire nel punto decisivo al momento decisivo.
Prepariamo la futura Pantera
Dopo la sconfitta del movimento universitario della Pantera del 1990, nelle università italiane abbiamo assistito a 10 anni di riflusso interrotti da mobilitazioni isolate o di corto respiro. Anche su questo terreno, però, si registra una decisa inversione di tendenza. Le lotte alla Sapienza della primavera del 2001 hanno attirato improvvisamente l’attenzione di tutti gli atenei italiani. Nonostante quella lotta non si sia generalizzata a livello nazionale, è stato il primo segnale di una decisa ripresa della mobilitazione universitaria. Oltre alla vicenda della Sapienza, registriamo in più d’un ateneo la nascita di nuovi collettivi o il sorgere di singole vertenze nei singoli corsi o nelle singole facoltà, un aumento ulteriore del sovraffollamento delle aule, riduzioni di appelli, aumenti dei ritmi di studio ecc. A questo si aggiunge la questione economica: più di un ateneo si trova sull’orlo del tracollo finanziario. Dopo le lotte alla Sapienza, più d’un rettore guarda con cautela alla possibilità di aumentare le rette. Vorrebbero poterle aumentare gradualmente ed in maniera indolore, ma non tutti gli atenei potranno permetterselo. Altri dovranno procedere ad aumenti di una certa portata già dai prossimi mesi. Si tratta di una miscela esplosiva che potrebbe infiammarsi in maniera estremamente rapida in futuro. Per il secondo semestre non è impossibile vedere replicato uno scenario simile a quello della Sapienza ma questa volta generalizzato a livello nazionale. Non per forza il motivo scatenante saranno gli aumenti delle tasse, ma al di là di quale sarà il pretesto, è importante capire l’esistenza di tutte le cause oggettive.
Non ci può bastare, tuttavia, attendere semplicemente lo sviluppo di un futuro movimento. E’ necessario prepararlo in modo tale che riesca là dove la Pantera del ’90 non è riuscita. Anche nel caso del movimento universitario, il limite fondamentale rimane l’assenza di una struttura nazionale con un programma di classe in grado di unificare le mobilitazioni. L’unica struttura universitaria nazionale è l’Udu, la quale replica però all’università i limiti dell’Unione degli Studenti nelle scuole superiori. Se le mobilitazioni avessero in futuro una portata nazionale, non è da escludersi che la stessa Udu possa recuperare rapidamente terreno, beneficiando di un grosso afflusso di studenti e candidandosi a dirottare il movimento universitario su un binario di trattativa e concertativo. Noi lavoriamo, ovviamente, perché lo scenario futuro sia ben altro. E’ necessario capire, tuttavia, che nonostante il suo peso specifico, l’Udu continua a mantenere una caratteristica che nessun collettivo ha in questo momento: è presente nella maggioranza degli atenei italiani e sarebbe in grado (se la burocrazia Cgil lo desiderasse) di garantire una mobilitazione in diversi atenei d’Italia contemporaneamente.
Il pericolo che l’Udu diventi rapidamente egemone riuscendo a prendere la direzione di un futuro movimento studentesco rimarrà una possibilità finchè sullo scenario nazionale non emergerà una struttura universitaria nazionale alternativa con un programma di classe. Come Giovani Comunisti dovremmo porci il problema di promuoverla. Altrimenti le future lotte non riusciranno ad uscire dalla dimensione locale e saranno destinate alla sconfitta.
Proprio la lotta della Sapienza ha dimostrato che quando scoppia il movimento è in un certo senso già troppo tardi per dotarsi di una struttura nazionale. Gli ultimi anni sono stati anni di tentativi di costruzione di coordinamenti di movimento o di forum di movimento finiti in un nulla di fatto. Questo per il semplice motivo che non sono mai state strutture che si sono costruite su basi programmatiche ma sulla logica del "caso per caso": si discute e poi i collettivi singoli possono decidere caso per caso il da farsi. Il tutto senza mai minare l’unità di questi coordinamenti che continuano magari ad esistere sulla carta ma che nei momenti decisivi si rivelano un’accozaglia di attivisti che marciano in direzione opposta.
Le necessità di sviluppo di un movimento di massa universitario implicherebbero che tutti i nostri attivisti siano impegnati nel prossimo periodo in un forte lavoro di propaganda nelle università dove chiariscano ad ogni studente quanto sia nocivo il nuovo ordinamento e soprattutto quale sia la nostra alternativa. Solo questo lavoro potrà farci mettere radice in ogni facoltà prima che scoppi un futuro movimento. Eppure ancora una volta la direzione che stiamo dando ad una delle punte più avanzate del lavoro universitario dei Giovani Comunisti è esattamente l’opposta. Ci riferiamo alla situazione di Roma. Tutt’oggi il Coordinamento dei collettivi universitari romano rappresenta un punto di riferimento non solo per la città ma per tutta Italia. Potrebbe utilizzare la propria autorità tra gli atenei italiani per proporre una piattaforma programmatica al resto dei collettivi ed iniziare un lavoro di costruzione di un’organizzazione universitaria nazionale con quei collettivi che accettassero tale piattaforma. Al contrario: il coordinamento dei collettivi romano ha deciso di aderire all’area dei Disobbedienti, di cambiare nome e di rinunciare di fatto alla lotta contro l’aumento delle tasse per proporre la logica del bilancio partecipativo. Sarebbe meglio dire che la direzione dei Giovani Comunisti ha spinto il coordinamento dei collettivi a questo passo, visto che i Gc costituiscono una componente egemonica fondamentale all’interno del coordinamento. Non tutti i collettivi accetteranno questo passo e la scissione sarà lo sbocco più probabile di questa situazione. Ancora una volta abbiamo un esempio delle delizie della nostra tattica disobbediente. Invece che "lavorare assolutamente là dove sono le masse", abbiamo spinto le masse "assolutamente là dove sta Casarini". In questo modo rischiamo di perdere o di far arretrare il punto più avanzato delle attuali lotte universitarie per farlo rifluire sulla logica delle Tute Bianche. Più d’un collettivo universitario scandalizzato dal moderatismo dei Disobbedienti si allontanerà dai compagni dei Giovani Comunisti. Questo è il famoso "orientamento al movimento" e il famoso "lavoro di massa" promesso dalla direzione nazionale dei Giovani Comunisti.
Quale critica allo stalinismo?
Nel discorso fatto a Livorno il 21 gennaio del 2001 Bertinotti ha attaccato lo stalinismo. Si tratta di un tabù importante che viene a cadere all'interno del nostro Partito. Dopo anni in cui si è mantenuto un silenzio imbarazzato su questi temi, il dibattito si è aperto improvvisamente. Lo stalinismo, tuttavia, può essere criticato da destra o da sinistra. La critica avanzata da Bertinotti rientra, purtroppo, nel primo caso. Lo stalinismo è stata la peste del movimento operaio per oltre 70 anni. Non smetterà di far danni, però, finchè non sarà sottoposto ad una critica scientifica e marxista. Qualsiasi altra critica invece non farà che portarci su posizioni socialdemocratiche.
Per decenni i partiti comunisti a livello internazionale si sono appoggiati sull'autorità e sull'opera di Lenin per glorificare Stalin. Oggi il processo si è invertito: ci si appoggia sulla degenerazione stalinista per infangare la rivoluzione d'ottobre. Entrambi questi atteggiamenti sono dal nostro punto di vista sbagliati. Del resto si tratta di due posizioni speculari: in entrambi i casi non viene tracciata una netta linea di divisione tra quella che è stata l'esperienza bolscevica e la sua successiva degenerazione staliniana. Chi scrive ha sempre criticato frontalmente lo stalinismo, anche quando questo tasto era considerato intoccabile all'interno del nostro dibattito. La nostra critica allo stalinismo, però, ha sempre avuto una funzione fondamentale: difendere l'esperienza della rivoluzione d'ottobre, distanziandola dalla sua degenerazione. Quello che sostiene oggi Bertinotti, e con lui la maggioranza del partito, è invece più una tesi da "peccato originale": si sostiene sostanzialmente che la degenerazione stalinista fosse già contenuta in nuce nelle posizioni di Lenin e dei bolscevichi. Quello che si critica, in fondo, non è Stalin, ma lo stesso marxismo. Non una parola, infatti, viene spesa contro Togliatti (a cui il segretario si è richiamato nello stesso discorso di Livorno) nè alle teorie staliniste delle due fasi e dei fronti popolari. Mentre su questi temi rimane il silenzio, si sostiene in tutti i modi che lo stalinismo sia stato il prodotto più coerente della storia e delle teorie del comunismo novecentesco.
Tutto ciò ha un'evidente legame con il dibattito interno ai Giovani Comunisti. Il concetto leninista che infatti più viene attaccato è quello di partito e di avanguardia. La tesi secondo cui le concezioni leniniste del partito avrebbero partorito Stalin, porta direttamente alla negazione della necessità di costruire il partito o addirittura della necessità di prendere il potere. Questa è la base teorica su cui vengono giustificate ogni sorta di innovazioni riformiste: partito a rete, scioglimento come corrente all'interno del movimento ecc. ecc.
La critica di Bertinotti allo stalinismo è quindi del tutto strumentale. Chi reagisce, però, a questa critica tornando a difendere Stalin fa un profondo errore. Solo tracciando una divisione netta e scientifica tra lo stalinismo e il bolscevismo sarà possibile salvare il secondo dal discredito in cui giustamente è caduto il primo.
Uno dei principali errori commessi dai bolscevichi, secondo Bertinotti, sarebbe stato quello di concepire la rivoluzione come "conquista del potere statale". Nel dire questo si spinge oltre: i Bolscevichi hanno sbagliato nel concepire due passaggi in il primo era quello della conquista del potere politico, il secondo quello dell'estinzione dello Stato. In questi due elementi risiederebbe già il germe dello stalinismo. Innanzitutto non c'è una virgola di queste concezioni che non fossero già state elaborate da Marx. C'è una certa strumentalità nel presentare queste concezioni come concezioni introdotte da Lenin che avrebbe corrotto "il verbo originale". In questo senso la cosa peggiora: invece che criticare Stalin si va dritti a criticare Marx. La conseguenza delle argomentazioni di Bertinotti è la rinuncia stessa alla rivoluzione e non di certo allo stalinismo. Se infatti è necessario rinunciare alla conquista del potere politico perchè questo porterebbe allo stalinismo, ci chiediamo come sia possibile cambiare gli stessi rapporti di produzione. Lo Stato è infatti l'apparato coercitivo che nella società difende i rapporti di produzione esistenti. Si possono cambiare quest'ultimi, senza entrare in conflitto ed abbattere il primo?
In secondo luogo si sostiene che lo stalinismo fosse già nel Dna del centralismo democratico del partito bolscevico. Il problema è che si distorce completamente la concezione di centralismo democratico, associandolo al regime burocratico e centralizzato che Stalin contribuì ad instaurare. Il Partito Bolscevico è stato uno dei partiti più democratici nella storia del movimento operaio. Non soltanto fu in grado di tenere Congressi quasi annualmente in situazioni di clandestinità, guerra civile o persecuzione, ma vide al proprio interno la lotta teorica, politica e di frazioni più ricca che la storia del marxismo abbia conosciuto. Niente a che vedere naturalmente con il regime di purghe instaurato e di fatto teorizzato dallo stalinismo. E' necessario capire quale fosse per i Bolscevichi il rapporto tra partito e movimento. Per quanto un movimento possa essere di lunga durata non può nascere contenendo già la consapevolezza degli errori e dei successi raggiunti dai movimenti precedenti. Da questo punto di vista il semplice movimento spontaneo sarebbe condannato a ripetere ogni volta gli errori già commessi dai movimenti che l'hanno preceduto. Qua subentra la funzione fondamentale del Partito: riunendo tutte le avanguardie e continuando la sua esistenza anche nei periodi di riflusso, il Partito ha il compito di portare all'interno del movimento un programma che sia l'elaborazione scientifica di tutte le esperienze che il movimento operaio ha già fatto, in modo che il movimento non sia condannato a ripeterle ricominciando ogni volta da capo. In un certo senso il Partito sta al movimento, come la memoria sta al corpo umano. Che misera esistenza sarebbe la nostra senza memoria; se dovessimo ogni volta rimettere la mano sul fuoco per ricordarci che scotta!
La degenerazione stalinista ha ben altri motivi che quelli indicati dalla critica "movimentista". Come spiegava Lenin, in Russia il capitalismo si era rotto nell'anello più debole. Il socialismo non può essere un mero atto di volontà ma una società che può soppiantare il capitalismo soltanto sulla base di determinate condizioni economiche e produttive. Queste condizioni in Russia non erano presenti. I bolscevichi si ritrovarono a prendere il potere in un paese capitalisticamente arretrato ed economicamente isolato. L'impossibilità di instaurare il socialismo in un paese solo e tanto meno nella Russia arretrata erano ben presenti nella testa dei bolscevichi. La rivoluzione russa era concepita il primo passo della rivoluzione mondiale senza cui era destinata alla degenerazione o alla sconfitta. La sconfitta delle rivoluzioni in Europa determinò l'isolamento della rivoluzione all'interno dei confini russi. In quelle condizioni economiche era impossibile disfarsi della burocrazia statale. Al contrario: la burocrazia iniziò a crescere come un parassita sul corpo della società finendo per espropriare letteralmente il proletariato dal potere politico. Come già aveva avuto modo di spiegare Marx: "se si socializzasse la miseria, tutto il vecchio ciarpame tornerebbe a galla". Il vecchio ciarpame era l'esercito permanente, la casta di generali, la forza repressiva dello Stato che invece che estinguersi crebbe a dismisura.
Conclusioni
"Qualsiasi partito rivoluzionario trova anzitutto un appoggio nella giovane generazione della classe in ascesa. La senilità politica si esprime nella perdita della capacità di trascinare la gioventù. I partiti borghesi, eliminati dalla scena, sono costretti ad abbandonare i giovani alla rivoluzione o al fascismo. Il bolscevismo, nell'illegalità, fu sempre il partito dei giovani operai. I menscevichi si apppoggiavano sugli strati superiori e più rispettabili della classe operaia non senza trarne motivo di fierezza per guardare dall'alto in basso i bolscevichi. Gli eventi mostrarono spietatamente il loro errore; al momento decisivo i giovani trascinarono gli uomini maturi e persino i vecchi". Lev Trotsky. La Rivoluzione Tradita
A 94 anni dalla rivoluzione d'ottobre e 153 dal Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, il comunismo è più attuale che mai. Non soltanto si moltiplicano le contraddizioni del capitalismo, ma anche le condizioni oggettive per la creazione di una società socialista basata sulla pianificazione sono molto più mature di quanto lo fossero nella Russia del '17. I due becchini del capitalismo indicati da Marx "il proletariato e la sovrapproduzione" sono entrambi all'apice del proprio sviluppo storico. Ogni progresso tecnologico introdotto dal capitalismo stesso non fa che aumentare le forze produttive. Ogni aumento delle forze produttive non fa che cozzare ancora di più con i limiti imposti dalla proprietà privata alle stesse forze produttive.
In passato i riformisti si sono potuti servire delle riforme concesse dal capitalismo per sviare il movimento operaio da fini rivoluzionari. Oggi la situazione è differente: le assenze di margini economici per politiche riformiste porta gli stessi partiti riformisti a fare una politica di controriforme. La conseguenza è il continuo logoramento dell'egemonia dei partiti riformisti sul movimento operaio. Ed è questo elemento che deve farci guardare con fiducia al futuro.
Detto questo, è sempre stato chiaro che il capitalismo non cadrà da solo. Il socialismo è inevitabile in quanto tappa storica, ma è inevitabile solo nella misura in cui esisterà un partito comunista in grado di dirigere alla vittoria una rivoluzione. Questo è il compito storico che abbiamo di fronte. Ma per tale compito è necessario formare un'organizzazione giovanile di attivisti marxisti politicamente preparati. E questo non potrà essere ottenuto se non recuperando sistematicamente l'enorme patrimonio storico del marxismo.
Non consideriamo il socialismo come un compito da rinviare ad un futuro remoto. Oggi il nostro numero esiguo e le nostre difficoltà possono farlo sembrare tale. Ma l'epoca del riformismo è storicamente sorpassata. L'epoca dello stalinismo anche. Ci sono tutte le condizioni per un recupero delle reali tradizioni marxiste e dell'ottobre. La necessità di abbattere il capitalismo sembra oggi una consapevolezza di pochi. Ma il capitalismo stesso è e sarà sempre di più una scuola di vita per tutti i giovani e per tutti i lavoratori. Come diceva Lenin: "il capitalismo è orrore senza fine". Un conflitto bellico ne prepara un altro, alla ripresa economica segue una crisi sempre più profonda. Su questa base la necessità di un suo abbattimento rivoluzionario tornerà ad essere una consapevolezza di massa.
Dobbiamo lavorare perchè questo avvenga il prima possibile. Lo potremo fare soltanto virando completamente rispetto alla linea che i nostri vertici hanno portato avanti fino ad oggi. Noi non siamo Disobbedienti, noi siamo rivoluzionari. Lottiamo per l'abbattimento della società divisa in classi. A chi ci dice che questa strada è troppo lunga, rispondiamo che è l'unica. E se poi è davvero così lunga, conviene iniziare a percorrerla subito senza cercare inesistenti scorciatoie o senza rimandare ulteriormente il nostro cammino.