Il documento Giovani E Comunisti è sicuramente un contributo serio (anche documentato in molte parti) ma dal contenuto profondamente riformista e non rivoluzionario. Al suo interno viene riproposta la linea delle “quattro tesi alternative” di Grassi-Sorini e altri, su argomenti fondamentali quali l’imperialismo, il ruolo dello stato, la questione nazionale, l’analisi della globalizzazione, la funzione della classe lavoratrice.
La prima parte del documento ha come titolo “il conflitto e la natura distruttiva del liberismo”, secondo una classica impostazione riformista l’oggetto della critica non è il capitalismo in quanto tale ma il liberismo, da cui se ne deduce che l’applicazione di politiche keynesiane potrebbero avere un ruolo progressivo. Quelle stesse politiche keynesiane che oggi vengono proposte da Bush nel tentativo di contrastare la recessione economica senza che questo determini alcun miglioramento nelle condizioni di vita delle classi subalterne.
I compagni si lamentano perché c’è stata la “riduzione progressiva dei sistemi di controllo statale sui movimenti di capitale e la stipulazione di una serie di accordi bi o multilaterali (come il Nafta o Maastricht)” diffondendo l’illusione che in passato gli stati nazionali abbiano avuto un ruolo di tutela sociale. Sorvolano sul fatto che il Prc (con il loro consenso) ha sostenuto l’entrata dell’Italia nell’Unione Monetaria Europea.
Le contraddizioni emergono anche in altri punti, mentre nel documento si dice che il Fmi, la BM e il WTO fanno da paravento per “l’asservimento di regioni, stati e interi continenti agli interessi delle grandi potenze” più volte compagni come Sorini hanno rivendicato l’entrata della Cina nel Wto, “un organismo da cui sarebbe velleitario prescindere...”.
Secondo i compagni la ristrutturazione capitalista avrebbe “ridefinito il ruolo dello stato che -attraverso l’abbattimento dello stato sociale - finisce per riprendere la sua fisionomia ottocentesca di <<Stato gendarme>>: uno stato che non interviene più nell’economia, che abdica a qualsiasi funzione di riequilibrio sociale, che delega gran parte dele sue funzioni al privato, limitandosi ad essere il braccio armato e giuridico del capitalismo o - per usare una vecchia definizione marxista assai attuale - il comitato d’affari della borghesia”
Salta agli occhi l’impostazione riformista-keynesiana (ci si lamenta perché lo stato non interviene più nell’economia in funzione del riequilibrio sociale), questa idea rompe completamente con la concezione marxista, che considera lo stato uno strumento dell’oppressione sociale, sempre e comunque. Questo non solo era vero nell’800 o nei tempi recenti ma lo è sempre stato come dimostra l’esperienza internazionale del movimento operaio.
Solo in Italia durante la cosiddetta Prima repubblica ci sono stati almeno cinque tentativi di golpe. Gladio e le altre cospirazioni militari convivevano con le concessioni sociali che la classe dominante era costretta a fare, ma non perché fosse diversa la funzione o come si dice nel documento la fisionomia dello stato. La borghesia negli anni ‘70 con una mano faceva concessioni con l’altra tramava con i fascisti e i generali golpisti alle spalle dei lavoratori.
Questa concezione non è nuova ma discende direttamente dal vecchio Pci che si riconosceva nello stato repubblicano uscito dalla resistenza anti-fascista. Una repubblica “basata sul lavoro” (come dice il primo capitolo della Costituzione) ma che in realtà si è sempre “basata sullo sfruttamento del lavoro” e che non ha mai concesso nulla ai lavoratori in termini di “riequilibrio sociale” se non a costo di durissime lotte che sono costate la vita a centinaia di compagni assassinati per mano di quello Stato che si prende a riferimento.
Del Pci i compagni ripropongono anche il modello organizzativo, e tra parentesi fanno un attacco un pò insolito ad Amadeo Bordiga e la sua concezione “bonapartistica” nel rapporto con la società.
Mentre riteniamo forse un pò esagerata ma del tutto opportuna la critica di gestione bonapartistica nei confronti dell’Esecutivo nazionale ci pare sinceramente inaccettabile se rivolta al primo segretario del Pci, che aveva tutti i limiti di estremismo denunciati a suo tempo da Lenin ma che poco o nulla aveva a che spartire con il “bonapartismo” o comunque con le attuali concezioni dei GC.
Se il modello che ci viene proposto dai compagni è quello del “partito nuovo” di Togliatti la risposta è no grazie. Non solo perché preferiamo la concezione del partito di Lenin che si basa sugli attivisti e non sulle tessere, ma perché riproporre oggi il modello del “partito di massa” in una organizzazione come il Prc che ha meno di centomila iscritti (e presumibilmente non più di ventimila attivisti) è semplicemente irrealistico e controproducente.
Le questioni internazionali
In questa parte del documento si critica (dicendo cose anche condivisibili) la posizione di Bertinotti sull’imperialismo rivendicando l’attualità dell’elaborazione leniniana. Fin qui ci siamo. Ma subito dopo arrivano i mal di pancia: si inizia col dire che la crescita economica di Russia, Cina, India, Brasile, Indonesia determina delle spinte “a un mondo multipolare, non sottomesso alla superpotenza Usa... fino ad assumere l’aspetto e la consistenza di una nuova ondata di resistenza internazionale”.
Si parla inoltre “degli sforzi della Libia e del Sudafrica di consolidare uno spazio economico e geopolitico africano, autonomo e coeso”
Niente è più lontano dal vero: mentre la Libia si è progressivamente adattata alle richieste dell’imperialismo (come dimostra il suo appoggio all’intervento in Afghanistan), il Sudafrica dell’Anc ha introdotto le politiche liberiste volute dal Fmi provocando fortissime reazioni sociali, con la convocazione di scioperi generali da parte del Cosatu (sindacato sudafricano).
Seppure in modo soft la linea è quella che ha sempre caratterizzato quest’area: costruire un nuovo internazionalismo aggregando stati, governi e movimenti presuntamente “non allineati”.
“Un movimento mondiale per la pace” come viene definito nel documento nel quale entrerebbero a far parte quegli stati che reprimono brutalmente la classe lavoratrice e le proprie minoranza etniche (come la Russia o l’India) o quei partiti comunisti (in realtà stalinisti e totalitari) che governano in Cina guidando la restaurazione capitalista a spese del proletariato e dei contadini sottomessi a una vera e propria dittatura. Una linea di abbandono totale della politica di indipendenza di classe già difesa da Fausto Sorini in direzione nazionale e sull’Ernesto (vedi l’articolo: Contenuti e forze motrici per un nuovo schieramento antiimperialista) da noi ampiamente criticata in un articolo al quale rimandiamo il lettore per ragioni di brevità(La teoria dei “due campi”: ieri come tragedia, oggi come farsa. In difesa del marxismo n°3 - rintracciabile su www.marxismo.net.)
Bilancio dei governi di centro-sinistra
I compagni, del tutto correttamente, denunciano le responsabilità del centrosinistra che in questi anni ha spianato la strada alle destre provocando un travaso di ricchezza dalle tasche dei lavoratori a quelle del grande capitale.
Vengono citati dati interessanti che riportiamo:”Tra il 1996 e il 1997, a fronte di un raddoppio del fatturato delle imprese rispetto all’aumento del costo del lavoro (6,1% del primo contro il 2,3% del secondo) e a fronte di un aumento del valore aggiunto per addetto (del 3,4%), si ha una riduzione in Italia degli investimenti dello 0,1% e degli occupati dello 0,3%.”
Guarda caso il governo che ha permesso alla borghesia di ottenere questi meravigliosi risultati era quello guidato da Prodi che vedeva il Prc nella sua maggioranza parlamentare. Chi oggi sostiene il terzo documento (o il primo) per la Conferenza dei GC ha condiviso quelle scelte e non le ha mai messe in discussione. Su questo i compagni non hanno niente da dire.
Viene rivendicata la rottura del ‘98 ma prima di allora Rifondazione ha sostenuto tagli per centomila miliardi allo stato sociale, il pacchetto Treu, l’autonomia scolastica e universitaria, la legge Turco-Napolitano...
E’ curioso che i compagni sostengano che: “Il nostro partito e i GC non hanno mai cessato di proporre una prospettiva alternativa rispetto alla piatta omologazione liberale del bipolarismo, hanno lottato per garantire la propria autonomia organizzativa e politica, hanno avuto il coraggio di mettere in gioco la loro stessa esistenza, ponendo fine all’esperienza del governo Prodi, pur di mantenere aperta e viva questa prospettiva”.
La realtà viene rovesciata, l’uscita dalla maggioranza di governo ha salvato l’esistenza del partito e non viceversa, senza quella decisione avremmo fatto la fine del Pdci di Cossutta, che equivale a dire la morte politica della rifondazione comunista.
Ci risuonano ancora nelle orecchie le argomentazioni che venivano usate dai compagni per sostenere la desistenza e il sostegno al governo Prodi: “Bisogna fermare le destre!”. Eccole lì le destre a cinque anni di distanza: al governo, più forti ed aggressive di prima.
Serve a poco che nel documento si dica che bisogna ricostruire quella “cultura antifascista che per decenni è stata il vero cemento popolare del nostro paese”. Le destre come si vede in tutta Europa trovano alimento da una sinistra che abbandona gli interessi di classe e si mette al servizio del grande capitale. Solo con un programma rivoluzionario e con la mobilitazione della classe operaia si batte il fascismo e non andando alle celebrazioni del 25 aprile a braccetto di repubblicani, liberali, socialisti ed ex-democraistiani come si è fatto per oltre mezzo secolo e si continua a fare senza per questo impedire che i fascisti rialzino la testa.
La critica alla disobbedienza e le proposte organizzative
Il documento ribadisce il ruolo centrale della classe operaia e di conseguenza critica la pratica della disobbedienza sociale anche se in modo molto sfumato
Ad esempio i contenuti del Forum di Porto Alegre, secondo i compagni “segnano nitidamente la possibilità reale di rialzare la testa, dopo anni di sconfitte e arretramenti”, non c’è segno di critica ai social forum che vengono indicati come gli strumenti che riescono a declinare i movimenti di massa sul territorio.
E’ il solito metodo un po’ “palombaro” a cui ci hanno abituato i compagni di fare le critiche a mezza voce, dire le cose che si pensano solo quando si ritengono “opportune” e senza mai esporsi eccessivamente.
Infine gli aspetti organizzativi, la terza parte del documento critica l’esecutivo nazionale (è come sparare sulla Croce Rossa) ma propone un modello di partito assolutamente fantasioso: “l’idea del partito di massa, significa anzitutto porsi l’obiettivo di un’organizzazione nella quale venga meno il rapporto dualistico tra dirigenti e diretti, nella quale l’idea della dirigenza diffusa possa realmente mirare alla costruzione dell’intellettuale collettivo, di un organismo in cui ogni militante sia esso stesso dirigente”.
Una concezione che può apparire molto democratica ma che è completamente vuota di significato, dove non c’è una definizione precisa dei ruoli, dei gruppi dirigenti, come del corpo militante e nella quale si lascia credere che tutti possano essere dirigenti e militanti di base allo stesso tempo, che è il modo migliore per continuare sulla linea della informalità che esiste oggi nei Gc e che i compagni giustamente criticano in altri passaggi del documento.
Chi si considera marxista dovrebbe rivendicare l’esistenza di un gruppo dirigente definito e riconoscibile proponendo allo stesso tempo degli strumenti che permettano alla base di controllare l’operato dei compagni che sono delegati in posizioni di responsabilità.
Rispetto alle strutture di movimento i compagni si limitano a registrare la positività dell’esperienza dei collettivi formati nelle scuole e nelle università che tra le altre cose vengono da loro identificati come strumenti utili per ottenere “risultati positivi nelle elezione dei diversi organismi rappresentativi”.
Emerge la concezione istituzionalista di quest’area che tende a sopravvalutare gli aspetti elettoralistici in tutti gli ambiti, includendo quelli studenteschi e che ha poco da dire sulle questioni che riguardano la strategia e la tattica da utilizzare nei movimenti studenteschi nella lotta per l’egemonia.
Questo si vede anche in una proposta considerata fondamentale (richiamata persino nell’introduzione) che è di formalizzare i livelli regionali dei giovani comunisti dando “autorevolezza” ai responsabili.
Si giustifica la proposta con l’argomento che c’è stata una “rimodulazione regionale di molti poteri dello Stato” come se un partito comunista dovesse modellare le proprie strutture su quelle dello stato borghese.
Quando parlano di “decentramento” la logica che sembra guidare i compagni è quella federalista che Sandro Valentini, segretario regionale della Sardegna, ha più volte rivendicato nel partito chiedendo “l’autonomia del partito sardo”. Non è un caso pensiamo che il primo firmatario del terzo documento sia il compagno Gianni Fresu che occupa nei Gc la stessa posizione che Valentini ha nel partito, quella di coordinatore dei Gc in Sardegna. Non c’è bisogno di dire che questa concezione avrebbe provocato orrore in Lenin che ha sempre rifiutato concezioni separatiste o autonomiste all’interno di un partito comunista.
Riassumendo il terzo documento ha le sue parti migliori quando critica la svolta movimentista e “modaiola” (come loro la definiscono) intrapresa dai GC, ma è nettamente fuori strada quando tenta di opporre a quella linea una concezione del tutto simile a quella del vecchio Pci: gradualista, istituzionale e riformista, anche se mascherata dietro continui riferimenti a Marx, Engels, Lenin e Gramsci.
Come dire niente di nuovo sotto il cielo.
28/5/2002