La campagna militare americana in Iraq sta incontrando seri problemi. Dopo 10 giorni di guerra è del tutto chiaro che la strategia americana contiene seri errori di previsione sia sul terreno militare che su quello
politico.
Il piano è fallito per un evidente, gigantesco errore di valutazione politica, prima ancora che militare: si prevedeva la resa in massa dell’esercito iracheno, e invece non solo l’esercito, ma anche la popolazione è determinata a resistere ferocemente all’aggressione.
Nel 1991 l’esercito iracheno combatteva in Kuwait, fuori dai propri confini, schierato nelle trincee del deserto. Trentotto giorni di spietati bombardamenti aerei lo polverizzarono, e in sole 100 ore la campagna di terra si concluse con il crollo militare.
Oggi la situazione è completamente diversa. Gli iracheni hanno giustamente rinunciato a difendere i confini e a combattere una battaglia disperata in campo aperto, nel deserto. Difendono Baghdad, ma anche altre città: Bassora, Nassiriya, Najaf, hanno visto combattimenti ostinati. Combattono una guerra difensiva sul proprio territorio, in mezzo a una popolazione che a stragrande maggioranza li sostiene; di fatto, combattono una guerra di liberazione nazionale. E questo spiega la resistenza “dura”, “feroce”, “ferma” (questi gli aggettivi usati sui media angloamericani) che stanno opponendo.
Una “seconda Beirut”?
Ora gli Usa si trovano in una situazione imprevista. Dopo il grande balzo verso Baghdad le loro truppe di punta sono logorate, così come il materiale bellico. Devono difendere linee di rifornimento lunghe 500 chilometri, soggette ad attacchi di sorpresa e imboscate condotte con la classica tattica “mordi e fuggi” che da sempre è lo strumento che le guerriglie adottano contro un nemico militarmente soverchiante. Hanno numerose spine nel fianco che devono rimuovere se vogliono tentare un assalto verso Baghdad. E soprattutto non hanno le truppe sufficienti per un controllo capillare del territorio in mezzo a una popolazione largamente ostile.
Il problema di Baghdad rimane insoluto. In queste condizioni è impensabile un rapido ingresso in una città di 5 milioni di abitanti, fortemente difesa, come già sta dimostrando l’esempio di Bassora (dove pure le truppe irachene sono meno presenti). Baghdad sarà quindi circondata, presumibilmente entro una decina di giorni. Ma il problema sarà solo all’inizio. Specialisti militari francesi che hanno preferito mantenere l’anonimato, hanno così commentato la situazione: “Siamo ben lontani dalle guerre tecnologiche degli ultimi conflitti. Ora c’è un vero problema con i duri combattimenti sul terreno e dopo solo una settimana le truppe Usa e britanniche sono stanche, come lo è il loro equipaggiamento. Il sistema iracheno ha tenuto e il presidente Saddam Hussein si è persino rafforzato. Dovranno entrare a Baghdad, e questa può diventare una seconda Beirut” (the Gulf Today, 29 marzo).
Il riferimento a Beirut è molto pertinente. Nel 1982 gli israeliani invasero rapidamente il Libano, ma rimasero poi per tre mesi alle porte di Beirut, che cannoneggiarono atrocemente senza però potervi entrare a causa dei rischi eccessivi del combattimento casa per casa.
Anche a Bassora, che pure è molto meno difesa di Baghdad, al di là della propaganda inglese, è chiaro che non sarà facile entrare nella città. I sette giornalisti italiani arrestati dagli iracheni hanno attraversato la città e hanno descritto una situazione di sostanziale normalità, con persino i vigili urbani per le strade. Il colonnello Chris Vernon, portavoce militare inglese, si è espresso in questi termini: “Militarmente Bassora è bloccata, non possono muovere truppe dentro e fuori la città. È probabilmente vero che la resistenza degli irregolari, il loro numero e la loro determinazione possono avere sorpassato le nostre stime iniziali”.
La Bbc ama ripetere che le truppe inglesi potranno applicare a Bassora le “lezioni” imparate in anni di occupazione dell’Irlanda del nord. Che sia un caso o meno, queste opinioni vengono pubblicate proprio mentre in Inghilterra il capo di Scotland Yard ha concluso un’inchiesta durata 15 anni con la richiesta di incriminare 23 ufficiali dell’esercito o della polizia per aver condotto una politica di assassini mirati di attivisti sospetti di legami con l’Ira, in collusione con le bande paramilitari lealiste. Uno di questi 23 ufficiali è attualmente in servizio nel Golfo.
Si sbriciolano le menzogne della propaganda sulla “liberazione” dell’Iraq, e la guerra appare per quello che è e sarà: una feroce campagna di occupazione militare. Questo, unito all’evidente errore di previsione degli strateghi americani, avrà effetti sul morale delle truppe angloamericane. Ecco alcuni pareri riportati dalla Reuters: “‘Qui i rapporti di forza sono contro di noi, non conosciamo il terreno, non conosciamo la gente, non sappiamo cosa preparino per noi’ dice il caporale Sanchez, il risentimento dipinto sul suo volto di ventunenne.”
Il morale delle truppe Usa…
“Come molti dei suoi compagni, Sanchez si aspettava una sorta di ‘corsa su Baghdad’ che giungesse senza incontrare opposizione fino alla capitale in mezzo a una massiccia campagna di bombardamenti che avrebbe spezzato la determinazione irachena. (…) ‘Questa doveva essere la più rapida delle guerre’, dice il caporale Dennis Coats, vent’anni. ‘Non ci aspettavamo di essere attaccati così presto, non ci aspettavamo tutta questa attività terroristica’. La tenente Jessica Newman, della 535esima compagnia del genio, ha detto: ‘Spero che i piani alti abbiano tutto chiaro. Pensavo che sarebbe durato pochi giorni, ma sembra che durerà molto più a lungo’”.
Non è certo un caso l’episodio avvenuto al terzo giorno di guerra, quando un soldato della 101esima divisione Usa di stanza in Kuwait ha gettato una granata in un accantonamento uccidendo due commilitoni e ferendone diversi altri. È un chiaro esempio di come una guerra ingiusta e non condivisa possa rompere il morale di qualsiasi esercito. Certo non siamo alla situazione del Vietnam, quando l’esercito Usa si sbriciolava letteralmente in mano agli ufficiali. E tuttavia che qualcosa non va per il verso giusto comincia a essere chiaro, al punto che il Pentagono ha deciso di proibire ai soldati in linea di contattare i propri familiari con i telefoni satellitari.
Gli Usa reagiranno a questo primo parziale stallo con un inasprimento della campagna militare. I bombardamenti (che non sono mai stati né chirurgici, né mirati) saranno ancora più indiscriminati, come dimostra l’attacco al ministero delle telecomunicazioni, che ha danneggiato parzialmente anche le strutture dei corrispondenti esteri. Stanno usando le cluster bombs (bombe a grappolo), stanno impiegando bombe devastanti da oltre 2mila chili. Quartieri popolari e infrastrutture civili, tutto diventa “obiettivo militare legittimo”.
Gli assedi si faranno spietati, come dimostra il taglio dei rifornimenti idrici a Bassora e la cacciata dei civili da Nassiriya. Sono sempre più distinte le voci, sia civili che militari, che chiedono una svolta nella campagna militare e una serie di bombardamenti a tappeto che aprano la strada alle truppe di terra. Un editoriale del Wall Street Journal è piuttosto esplicito al riguardo: “La cultura araba disprezza sopra ogni cosa la debolezza nell’avversario. Gli iracheni ora saranno impressionati se vedranno che gli Usa conducono la guerra con tutti i mezzi necessari a prevalere. Se dei civili muoiono perché vengono messi davanti a degli obiettivi militari, la responsabilità morale per i danni che subiscono ricadrà su chi li ha posti in quella posizione. Anche se a breve termine dovremmo affrontare qualche brutta immagine in Tv, a lungo termine questa determinazione americana salverà vite sia irachene che americane”. Ecco la vera voce dell’aristocrazia finanziaria americana!
… e quello iracheno
Gli iracheni hanno dimostrato la loro determinazione a combattere. Questo emerge non solo dalla violenza della difesa, ma anche dall’atteggiamento di molti civili. Tutti si aspettavano l’esodo in massa, il governo siriano ha approntato dei campi profughi vicino al confine. Ma i campi sono vuoti, e il flusso non è in uscita, ma in entrata, di iracheni e di volontari di altri paesi che vogliono partecipare alla difesa del paese. I massacri di civili sotto le bombe hanno ulteriormente alimentato il risentimento verso gli Usa. I trenta milioni di volantini lanciati dagli americani (più numerosi dell’intera popolazione irachena) non devono sembrare molto convincenti a chi subisce la pioggia di bombe. Nei primi giorni la propaganda “alleata” parlava di intere divisioni irachene che si preparavano ad arrendersi.
Nulla di tutto questo si è materializzato. 4mila prigionieri (cioè catturati sul campo) e qualche gruppo di disertori costituiscono una cifra ben poco significativa se paragonati alla resa in massa del 1991, quando l’esercito effettivamente crollò di fronte all’attacco. Anche la tanto attesa rivolta degli sciiti nel sud non si è materializzata.
Il fronte nord: ulteriori complicazioni
Altri 120mila soldati verranno inviati nel Golfo. Ma questo richiederà tempo per lo schieramento. Nel frattempo, le complicazioni si accumulano sempre più.
Il fronte nord era la grande speranza degli Usa. 62mila soldati avrebbero dovuto attaccare attraverso la Turchia, sostenuti da decine di migliaia di miliziani curdi. Invece non solo la Turchia ha rifiutato il passaggio alle truppe americane, ma si appresta ora a intervenire nel conflitto per schiacciare i curdi e prendere il controllo del petrolio di Kirkuk. I partiti curdi iracheni, il Puk e il Pdk, si sono completamente venduti agli Usa. Nel farlo, abbracciano una linea che è insieme reazionaria e del tutto stupida e di corte vedute. I curdi iracheni non combatteranno per Baghdad, che non interessa loro minimamente, ma per conquistare Kirkuk, risorsa economica fondamentale.
Ma l’esercito turco, che ha dimostrato in questi mesi come il suo potere politico sia ancora enorme, non è disposto a tollerare uno Stato Curdo ai propri confini, che riaprirebbe il conflitto nel Kurdistan turco. Quindi se i curdi entreranno a Kirkuk, l’esercito turco interverrà a sua volta, scatenando un conflitto parallelo alla guerra in Iraq. La presenza americana nell’Iraq settentrionale, quindi, non è volta a costruire una nuova offensiva verso Baghdad, ma a tentare di interporsi e di scongiurare questa possibilità. Che vi riescano è tutt’altro che sicuro.
L’intervento turco non è la sola complicazione internazionale. La Siria, nonostante le smentite ufficiali, sta presumibilmente rifornendo l’Iraq di armi, compresi, si dice, i visori notturni. Attraverso la Siria c’è un flusso di volontari di diversi paesi (siriani, giordani, palestinesi, libanesi) e di iracheni che lungi dal fuggire la guerra vogliono rientrare nel paese per partecipare alla sua difesa.
L’Iran, nemico storico dell’Iraq, ha oggi una posizione di formale neutralità. Tuttavia in Iran c’erano da anni diverse migliaia di fuoriusciti iracheni sciiti, sostenuti e armati dal governo iraniano, che tenteranno di rientrare nel paese per combattere contro gli Usa. La Russia, a sua volta, è stata accusata di aver venduto armi tecnologiche all’Iraq, probabilmente attraverso “triangolazioni” commerciali con paesi terzi.
Il quadro che emerge quindi è di una completa destabilizzazione. Anche nel caso, che ora appare molto più improbabile, che gli Usa riescano ad entrare a Baghdad e a porre fine al conflitto “ufficiale”, il paese non sarà pacificato. Comincerebbe una guerriglia di liberazione, con l’intervento di diversi paesi sia confinanti che non, che metterebbe le truppe Usa sulla graticola.
Ma questa è la variante più “favorevole” per gli Usa. Appare ormai chiaro che Bush non ha calcolato nulla. L’ultima notizia, apparsa sul Corriere della Sera del 31 marzo, è che se la guerra si prolungasse per diversi mesi, la Gran Bretagna potrebbe essere costretta a ridurre drasticamente la propria presenza da 45mila a 5mila soldati, proprio mentre gli americani fanno invece la richiesta di inviare altri 4mila uomini nel Golfo.
La prova più evidente della crisi militare sta nell’emergere di attriti e conflitti ai massimi livelli dell’amministrazione Usa. Il ministro della difesa Rumsfeld è ora bersaglio di critiche sempre più aperte sia nella stampa che da parte di alti ufficiali Usa.
Guerra e rivoluzione
Che influenza ha lo stallo della campagna Usa sul movimento contro la guerra? Sarebbe oltremodo ingenuo sperare che questo possa aprire la strada a un ripensamento nella classe dominante americana, così come non sono state sufficienti le enormi manifestazioni tenutesi in tutto il mondo. In questa guerra, l’imperialismo Usa mette in gioco il suo dominio mondiale: prima di fare un passo indietro scateneranno tutta la loro capacità distruttiva, useranno tutti i mezzi militari e politici per affermare la propria volontà. In questo contesto, chiedere la sospensione dell’offensiva è la rivendicazione più utopica e francamente astratta che si possa immaginare. E poi, interrompere per cosa? Per tornare alla situazione del 19 marzo? Cioè a una “pace” imperialista che conduce inevitabilmente al massacro e a nuove guerre? Ma questo è un dibattito che non ha neppure senso cominciare: la guerra non è stata fermata dall’enorme e generoso movimento che si è creato per un motivo ben preciso.
La guerra può essere fermata se le mobilitazioni di massa assumono un carattere più avanzato, un carattere rivoluzionario che minacci il rovesciamento dell’imperialismo e del capitalismo; può essere fermata dalla sconfitta militare sul campo; può, infine, essere fermata da una combinazione di questi due fattori.
Questa è la lezione delle guerre di tutto il XX secolo, e questa guerra non farà eccezione. È questa la lezione della Prima guerra mondiale, che finì con la rivoluzione russa e con la rivoluzione in Germania, della guerra del Vietnam e della guerra d’Algeria.
A chi pensa che questa sia una strada troppo lunga e troppo dolorosa, diciamo che non esistono scorciatoie. Il caos sanguinoso nel quale l’imperialismo sta gettando il mondo è la terribile realtà della nostra epoca, con la quale dobbiamo fare i conti. È solo nella prospettiva rivoluzionaria che si può realizzare l’aspirazione a un mondo di pace e di giustizia.