Il Vietnam di George Bush
La rivolta irachena dilaga e manda a monte tutti i piani dell’imperialismo. La decisione del governo spagnolo di anticipare il ritiro delle truppe rappresenta un nuovo colpo per Bush, e altri paesi potrebbero seguire l’esempio di Zapatero, a partire da quelli del Sud America.
Gli avvenimenti iracheni rappresentano una svolta non solo per l’Iraq, ma per l’intero Medio oriente e in realtà per tutto il mondo. Va detto con chiarezza, Bush ha di fronte il suo Vietnam e dall’Iraq gli Usa usciranno sconfitti.
Il primo punto da sottolineare è il carattere nazionale e di massa del movimento iracheno. Non solo gruppi di guerriglieri di varia appartenenza politica, ma decine e decine di migliaia di persone sono scese in campo, con le armi o senza. Chi è sceso per le strade non era solo il guerrigliero, ma il disoccupato, il lavoratore, il contadino le cui condizioni di vita sono incredibilmente peggiorate dopo l’occupazione. Un uomo di Falluja, intervistato dall’Indipendent ha detto: “Eravamo contenti quando gli americani mandavano via il miserabile regime di Saddam, ma oggi la nostra vita è peggiorata da quando loro governano a Baghdad”. Non è quindi un caso se le sommosse sono state anticipate da grandi manifestazioni di massa di disoccupati a Bassora che per ben due volte sono giunti ad occupare il palazzo del governatorato locale.
Nonostante la marea di disinformazione creata dai mass media, è impossibile nascondere che il movimento coinvolge tutto il paese, sciiti e sunniti, laici e credenti, e che si alimenta anche di motivi sociali; la rivolta degli sciiti è anche una rivolta contro il collaborazionismo dei vertici del clero sciita, di quei notabili a capo di partiti come lo Sciri e il Dawa (legati anche a Teheran), che hanno accettato di partecipare al governo fantoccio del “viceré” americano Paul Bremer.
Questo movimento non ha nulla a che vedere con le azioni reazionarie e barbariche come gli attentati di Madrid o le azioni di Al Qaeda, che in Iraq non ha alcun seguito di massa, e ci pare francamente sconcertante che anche nella sinistra “radicale” vi sia chi cade nella trappola di confondere la resistenza con il fondamentalismo o con il terrorismo reazionario. Tanto più il movimento di liberazione iracheno acquisirà un carattere di massa, tanto meno vi sarà spazio per le posizioni reazionarie e tanto più grandi saranno le possibilità che esso si apra a una prospettiva di classe e internazionalista.
Le aspirazioni profonde delle masse influenzano anche, sia pure in modo distorto, le posizioni di Muqtada al Sadr, che non a caso ha fatto appello contro la divisione dell’Iraq, per l’unità di sciiti e sunniti e si è rivolto al popolo americano chiedendogli di lottare contro il suo governo, responsabile della sofferenza di un popolo.
Emerge tutta l’ipocrisia di chi parla del pericolo di “conflitto di civiltà” e di “rischio di guerra civile” in Iraq. Se c’è qualcuno che tenta di fomentare la frantumazione etnica e religiosa dell’Iraq, questi sono precisamente gli americani, sulla più classica linea del divide et impera. È invece precisamente lo sviluppo della resistenza e del movimento di massa per la cacciata degli occupanti che può creare le condizioni per unire la popolazone e superare le divisioni culturali, linguistiche e religiose.
L’amministrazione americana risponde alla crisi mettendosi sulla stessa strada che seguirono in passato in Vietnam: si preparano a inviare altri soldati (per ora si parla di altri 15-20mila uomini) per intensificare la repressione e per sopperire al vuoto che si apre con il ritiro spagnolo. Hanno messo un piede nella palude, e ora sprofondano in un intervento che si trasforma sempre di più in una guerra su vasta scala.
L’imperialismo americano ha scordato tutte le lezioni del passato. La superiorità tecnologica non conta nulla per un esercito di occupazione; aerei, elicotteri e artiglieria non possono soggiogare un intero popolo che non vuole essere occupato. Mandare più soldati servirà solo a rendere la guerra più spietata e più bestiale, ma a lungo termine neanche 500mila soldati possono garantire la stabilizzazione sotto il controllo americano.
Le conseguenze del conflitto vanno ben al di là del territorio iracheno. L’inasprirsi della guerra (e della situazione nei Territori palestinesi) può incendiare l’intero mondo arabo. A migliaia di chilometri di distanza, in Kosovo, soldati Usa e soldati giordani si sono sparati addosso: un episodio “marginale” che dimostra quale carica di odio si accumula in tutto il mondo arabo contro l’arroganza americana.
Il punto decisivo è che ora emerge sempre più chiaramente la crisi della strategia Usa. Il “poliziotto mondiale” non appare più invincibile, e questo fattore cambierà da cima a fondo la situazione in tutto il Medio oriente. Negli ultimi vent’anni, e in particolare dopo la guerra del Golfo del 1991, i popoli arabi hanno vissuto con la consapevolezza che ogni tentativo di ribellarsi all’imperialismo Usa o ai suoi fantocci locali sarebbe stato represso in modo spietato da una potenza militare schiacciante. Ora però le cose cambiano; la crisi dell’occupazione americana apparirà sempre più chiaramente agli occhi delle masse nell’intero mondo arabo che inevitabilmente perderanno la loro soggezione verso gli Usa, così come l’hanno persa gli iracheni. La lotta di liberazione irachena può incendiare l’intero mondo arabo e mettere in crisi i regimi corrotti di tutta la regione.
In particolare l’Arabia Saudita, la Giordania e l’Egitto camminano sull’orlo di un vulcano. L’Arabia Saudita ci si avvicina a grandi passi a una crisi esplosiva, l’esercito è sceso già più volte nelle piazze, ci sono attentati ed episodi di guerriglia sempre più numerosi, che la stampa relega frettolosamente nelle pagine interne catalogandoli come “scontri fra esercito e fondamentalisti”. Ma la realtà è molto più complessa, la famiglia regnante saudita, che da sessant’anni è uno dei più fedeli alleati degli Usa, si trova stretta in un dilemma. La sua collaborazione con gli Usa la rende oggetto dell’odio della popolazione, inoltre la volontà degli americani di potenziare la produzione di petrolio iracheno potrebbe colpire direttamente gli interessi sauditi. I bei tempi dei petrodollari sono passati da un pezzo, una parte consistente della popolazione precipita nella povertà. Anche la monarchia giordana è chiaramente presa fra i due fuochi, anche a causa della diretta influenza degli avvenimenti in Palestina. Non a caso il re ha dovuto annullare il suo incontro con Bush dopo che Israele ha assassinato i dirigenti di Hamas, Yassin e Rantisi.
Ma è in generale l’intera regione mediorientale che può esplodere di fronte a una sconfitta americana in Iraq. E gli Usa in Iraq non possono vincere.
Il paragone col Vietnam può ovviamente essere inteso solo in senso generale, e non certo come una esatta ripetizione di quegli avvenimenti. Ma le differenze parlano a sfavore di Bush, non a suo favore. È vero che la guerriglia vietnamita si basava su uno Stato (il Vietnam del nord), e sul sostegno di Cina e Urss. È anche vero che politicamente il fronte di liberazione era più strutturato e omogeneo che non l’attuale resistenza irachena.
Ma ci sono anche altre differenze. In Vietnam gli Usa avevano un sostegno, sia pure precario, nello Stato del Vietnam del sud; oggi in Iraq non c’è neppure la parvenza di una forza militare irachena disposta a combattere con gli Usa. Al contrario, la polizia e l’esercito ricostruiti dagli Usa si sono in più occasioni schierati con i ribelli. Secondo alcune stime, per esempio, a Nassirya meno del 10 per cento dei 4850 poliziotti iracheni sono effettivamente dalla parte degli occupanti, mentre l’80 per cento potrebbe in qualsiasi momento voltare i fucili e passare dalla parte della resistenza. Ma la differenza fondamentale rispetto al Vietnam è il contesto internazionale. La divisione del mondo fra Usa e Urss garantiva una sostanziale stabilità, a prescindere dagli episodi locali. Mosca (e Pechino) non erano disposte a vedere scatenarsi un movimento rivoluzionario su vasta scala, che sfuggisse al loro controllo. Pertanto, quando l’equilibrio mondiale rischiava di alterarsi eccessivamente (Cuba 1962, Suez 1956, ecc.) la diplomazia dei due blocchi interveniva e garantiva il ritorno alla stabilità e i cambiamenti nei rapporti di forza non influivano oltre il livello regionale.
Oggi la situazione è radicalmente diversa. Il ruolo degli Usa di unica potenza mondiale, significa che se entra in crisi la dominazione americana, questo mette a rischio la stabilità del capitalismo su scala mondiale. E’ sufficiente pensare gli effetti che avrebbe in America Latina, in Medio oriente, in Asia, una sconfitta Usa in Iraq: decine di paesi potrebbero trovarsi da un giorno all’altro sull’orlo di una rivoluzione che già oggi vediamo maturare in numerose zone, e in particolare in America Latina.
È su questa prospettiva che dobbiamo orientare i nostri sforzi. Un forte movimento di lotta contro i governi guerrafondai in Europa e in Usa può essere una scintilla per una ripresa della lotta di classe in Occidente, collegandosi alla lotta dei popoli oppressi, in Medio oriente e oltre. L’internazionalismo non è una bella parola, ma più che mai la sola via d’uscita dalla barbarie imperialista.