Criminale di guerra
Nessuna fiducia nell’Onu o nei governi europei!
* Bush prepara l’attacco
* Gli Usa disponibii a usare l’arma atomica
* Bilancio previsto: fino a 10 milioni di vittime di epidemie, milioni di senza tetto e profughi
Le dichiarazioni di Bush non lasciano spazio a dubbi sulle sue intenzioni. Ci sarà guerra, con o senza Onu. La superpotenza americana corre a rotta di collo verso il massacro, i piani per il “dopo Saddam” si sprecano, dalle ipotesi di colpo di Stato alle proposte di esiliare Saddam Hussein. L’amministrazione Bush avrebbe già pronto un piano per un’amministrazione militare dell’Iraq della durata di 18 mesi (più credibilmente: per 18 anni!). Tale amministrazione gestirebbe la “ricostruzione del paese” (che evidentemente si prevede verrà raso al suolo) usando i proventi della vendita del petrolio.
I precedenti dei Balcani (per esempio la famigerata “Missione Arcobaleno” in Albania) ci fanno capire in cosa consisterebbe tale ricostruzione: golose commesse per le ditte appaltatrici (indovinate quali sarebbero?), miliardi di aiuti “umanitari” per foraggiare le “istituzioni democratiche” messe in piedi dai generali Usa, una fetta della torta alle immancabili organizzazioni “non governative”. Il tutto finanziato con la vendita di quel petrolio iracheno che, ci tengono a specificare gli umoristi del Dipartimento di Stato Usa, rimarrà proprietà del popolo iracheno.
L’idea che l’Iraq, un paese di poco più di 20 milioni di abitanti prostrato da dieci anni di embargo e ridotto, in termini strettamente militari, a ben poca cosa, possa rappresentare la minaccia di un “nuovo Hitler” farebbe ridere, se non fosse per il contesto tragico. “Un attacco iracheno contro gli Usa causerebbe un disastro nell’economia” ci informa l’inquilino della Casa Bianca, noto salvatore dell’economia nazionale e dei conti dei bancarottieri dell’alta finanza Usa. L’attacco dell’Iraq contro gli Usa: non è forse evidente a tutti che questo rientra nel novero delle cose non solo possibili, ma anzi probabili, per non dire inevitabili? Mettiamola così: c’è chi crede a Babbo Natale, chi crede che l’inflazione sia quella indicata dall’Istat e chi invece crede che l’Iraq stia per aggredire gli Usa.
E per cautelarsi contro l’uso di armi chimiche il Pentagono, noto dispensatore di proiettili all’uranio impoverito (Jugoslavia, Iraq 1991) minaccia di rispondere con l’uso dell’atomica e per ingannare l’attesa i generali Usa si preparano a riesumare l’uso delle mine antiuomo, solennemente messe al bando con tanto di risoluzioni internazionali.
Due rapporti, uno dell’Onu e uno della Cia, sviluppano ipotesi molto chiare sulle conseguenze di una guerra anche di poche settimane: dieci milioni di iracheni rischierebbero la carestia e epidemie di malattie quali il colera, la dissenteria e il tifo. La distruzione delle infrastrutture e dei pozzi petroliferi, unite al probabile assedio di Baghdad priverebbero la popolazione di cibo, acqua, energia e medicinali. L’Onu prevede forse due milioni di rifugiati nei paesi circostanti e altrettanti senzatetto. Le truppe Usa prevedono di usare armi nucleari tattiche se l’esercito iracheno sparasse proiettili chimici o batteriologici (dati pubblicati sul Corriere della Sera dell’8 gennaio).
Ma dietro l’arroganza, dietro la sfacciataggine e la barbarie criminale che muove il governo Usa, dobbiamo saper leggere la realtà. E la realtà dice che l’imperialismo americano è in difficoltà, affronta una crisi di strategia e in realtà una crisi di egemonia a livello mondiale.
Questo non significa che la guerra sia meno probabile. Significa, tuttavia, che anche dietro la reazione sfacciata dobbiamo saper vedere gli elementi di crisi e di contraddizione che possono permettere di elaborare una strategia di opposizione a questa guerra criminale.
Buona parte della sinistra europea e mondiale, e fra questa il gruppo dirigente del Prc, si dichiara contraria a questa guerra. È indiscutibile che l’aggressione all’Iraq veda un’opposizione di massa, come testimoniano le manifestazioni di Firenze, di Londra e tante altre. Ma chi, come e con quali mezzi potrebbe evitare il massacro dell’Iraq? Ascoltando la stragrande maggioranza delle voci contrarie alla guerra, emerge con chiarezza che tutti si affidano a due soggetti: l’Onu e l’Europa. È vero che gran parte del movimento No global, e anche il gruppo dirigente del Prc, quando parla di “No alla guerra senza se e senza ma” intende dire che anche se il Consiglio di sicurezza dell’Onu avallasse la guerra in qualche forma, questa dovrebbe essere respinta in quanto si tratterebbe di un consenso ottenuto sotto un evidente ricatto degli Usa.
Critico verso l’Onu, però, Bertinotti dimostra una fiducia del tutto insensata nell’“Europa” come agente di pace. E così Liberazione del 6 gennaio propone in prima pagina il titolone “Berlino-Parigi: un asse di pace?”
Ora, sia chiaro: esistono seri motivi di contrasto fra il capitalismo americano e quello tedesco e francese. Motivi che vanno dai contrastanti interessi in Medio Oriente (la Francia è stata un tradizionale alleato dell’Iraq e ha forti interessi petroliferi nella regione) fino a una più generale contraddizione su scala internazionale. Questi contrasti sono resi più acuti dalla crisi economica internazionale, che spinge ogni potenza ad una politica più aggressiva sul terreno commerciale, diplomatico e anche militare.
Ma di quale “asse di pace” vogliamo parlare? Chiamiamo le cose con il loro nome: Chirac e Schroeder semplicemente tentano di evitare il terreno a loro più sfavorevole, quello della guerra su vasta scala, dove inevitabilmente sarebbero ridotti al ruolo di comprimari degli Usa; per questo vorrebbero giocare la parte dei “buoni” interlocutori del mondo arabo e di quei settori, sempre più ampi, che in Europa si stanno schierando contro la guerra.
Non a caso pochi mesi fa, mentre la Germania si dichiarava fermamente contraria all’attacco in Iraq, Schroeder si era offerto di assumere la gestione della presenza militare in Afghanistan, dove pure l’imperialismo tedesco ha i suoi interessi. Guerra e pace, linguaggio diplomatico e linguaggio delle bombe, non sono altro che diverse note della stessa sinfonia: quella del profitto, dell’oppressione, dell’espansione economica e militare. Il “diritto internazionale” è in primo luogo la legge del più forte. I “paesi amanti della pace” non sono altro che quelli ai quali oggi la guerra conviene meno, e possono domani diventare i più accesi guerrafondai. Possibile che 150 anni di storia dei conflitti internazionali non siano stati sufficienti a far comprendere questi concetti elementari al compagno Bertinotti?
Il ruolo dell’Onu in questa vicenda è stato finora quello di sempre: gettare un po’ di fumo negli occhi e fornire le adeguate foglie di fico per l’azione militare. È possibile che il Consiglio di sicurezza veda uno dei suoi membri permanenti porre il veto sull’attacco americano? Eliminando gli Usa e la Gran Bretagna, restano Cina, Russia e Francia.
La Cina non pare interessata a un simile passo, essendo impegnata in tutt’altre faccende.
La Russia con ogni probabilità baratterà il suo assenso o astensione con un sostanziale via libera nel Caucaso. Resta la Francia, che non pare francamente in
grado di sbarrare da sola la strada a Bush.
Ma tutti coloro che si appellano agli “assi della pace” non si pongono una semplicissima e decisiva domanda. Se anche il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non avallasse l’attacco; se anche la Francia o la Russia ponessero il veto cosa cambierebbe?
La guerra ci sarebbe in ogni caso! E sarebbe una guerra che coinvolgerebbe in ogni modo anche i paesi europei. Le basi Usa e Nato, le strutture logistiche e tecniche (che sono decisive nello schieramento americano, ad esempio i porti del nord Europa) sarebbero comunque utilizzate. E cosa cambierebbe, allora?
Un esempio molto evidente: le cosiddette No fly zones, le zone di non sorvolo proibite all’aviazione irachena, non sono mai state decise dall’Onu; sono state fissate unilateralmente da Usa e Gran Bretagna dopo la guerra del 1991. In queste zone, quasi quotidianamente l’aviazione angloamericana conduce attacchi che, secondo il governo iracheno hanno causato oltre mille vittime in un decennio. Forse l’Onu ha alzato un dito in proposito? E se l’Onu non può (non vuole) fermare questa piccola guerra quotidiana, come potrebbe fermare l’attacco su grande scala che Bush sta preparando?
Se Chirac e Schroeder decidessero di “fare il gesto” e di non appoggiare l’attacco Usa, questo non impedirebbe la guerra. Solo si creerebbero due altre icone, due nuovi “santini” da affiancare a quello del Papa, utili per deviare il movimento contro la guerra, utili per arruolarlo come strumento ausiliario di propaganda degli interessi di un settore del capitale europeo; ma del tutto inutili e, anzi, sommamente dannosi per chiunque si ponga seriamente l’obiettivo di lottare contro la guerra. Al Forum sociale europeo di Firenze, un partecipante tedesco intervistato alla radio spiegava con chiarezza che in Germania non esiste ancora un forte movimento contro la guerra perché c’è fiducia verso la posizione di Schroeder. Se questo è vero, e in parte certamente lo è, dimostra con grande chiarezza che affidarsi agli “assi di pace” dei governi europei significa contribuire a seppellire la mobilitazione di massa indipendente dei lavoratori e dei giovani contro la guerra.
“Ma c’è l’articolo 11 della Costituzione italiana” ci ricordano. Il famoso articolo 11, che come tutti sanno recita che “L’Italia ripudia la guerra come mezzo per la soluzione delle controversie internazionali”. Se i Padri della Patria che scrissero la Costituzione fossero stati più espliciti avrebbero scritto l’articolo 11 in questa forma: poiché l’imperialismo italiano è stato sconfitto in guerra, deve accettare di non impicciarsi delle cose veramente importanti, che verranno decise, come sempre, da coloro i quali hanno i quattrini e le armi per imporre la propria opinione, con le buone o con le cattive. In questa formulazione l’articolo 11 potrebbe avere una lunga e degna esistenza. Nella versione attuale, farà la fine di sempre: un buon argomento di conversazione per intellettuali radicali e pacifisti tormentati, buono per chiacchierarne mentre altrove cadono le bombe.
Cari compagni, non è ora di dire le cose come stanno? La guerra non si ferma con i pezzi di carta, che siano gli articoli della Costituzione o la Carta delle Nazioni unite; non si ferma con le preghiere, né col rifiuto di dire messa, né con gli scongiuri, né con gli appelli ai pescecani “amanti della pace”. La guerra si ferma con la mobilitazione di massa, si ferma rovesciando i governi che la conducono, si ferma estirpando le sue radici economiche, politiche e sociali, radici che hanno un nome e un cognome: imperialismo e capitalismo.
Nonostante l’esibizione dello strapotere militare Usa, la guerra contro l’Iraq sta assumendo i caratteri di un’avventura. Né Bush né nessun altro possono garantire che la guerra sarà breve, facile e vittoriosa come quelle precedenti. Certo, da un punto di vista strettamente militare l’esito appare scontato. Ma le sorti del conflitto dipenderanno in primo luogo da fattori politici.
Il Corriere della sera del 7 gennaio riporta le opinioni di due ex consiglieri per la sicurezza nazionale Usa, Zbigniew Brzezinski, collaboratore di Carter, e Brent Scowcroft, consigliere di Bush padre. Secondo Brzezinski se Bush non ascolterà di più gli alleati “l’America diventerà il punto focale dell’odio globale. (…) Siamo in una situazione precaria. Spero che il presidente e il Congresso siano all’altezza. È in gioco il sistema internazionale. Come reagiremo non solo alla sfida dell’Iraq, ma anche a quelle del Medio Oriente e della Corea del nord, stabilirà se riusciremo a rafforzarlo o se avremo un decennio di anarchia globale”. Rincara Scowcroft: “L’antiamericanismo è dovuto al fatto che siamo la Superpotenza e tutti si aspettano che risolviamo tutti i problemi. È un decennio che sembriamo bellicosi e arroganti, sordi agli amici oltre che ai nemici. Se ciò non finirà ci isoleremo e saremo oggetto di ostilità”.
Quali conseguenze avrà la guerra nei paesi arabi? Arabia Saudita ed Egitto, ossia i più importanti alleati Usa in Medio Oriente oltre ad Israele, si troveranno di fronte a una situazione insostenibile che potrebbe aprire delle crisi rivoluzionarie e portare al rovesciamento dei regimi attuali. La stessa Turchia, alleato chiave (dalla base turca di Incirlik partono i raid aerei contro l’Iraq) è fortemente preoccupata per le conseguenze sulla questione kurda, anche se Bush tenterà di convincerli promettendo qualche “regalino” nel nord iracheno, dove si trova una parte importante dei giacimenti petroliferi.
Bush si impegna in una guerra dall’esito incerto mentre in tutto il mondo non fanno che aprirsi nuovi fronti di conflitto per l’imperialismo Usa.
L’intera America latina è in fermento, si riapre il conflitto con la Corea del Nord e in Afghanistan la situazione è tutto tranne che stabile.
L’onda di espansione americana, che si è sviluppata per tutti gli anni ‘90 senza incontrare apparentemente ostacoli, sta oggi sollevando gigantesche forze contrarie. Da un continente all’altro, la lotta di classe è in continua ascesa.
È su questo che i comunisti devono impegnarsi per gettare le basi di una lotta decisiva contro la barbarie capitalista, la sola vera lotta per la pace.
8 gennaio 2003