La lista delle perdite angloamericane in Iraq si allunga di continuo. Dopo il 1° maggio sono stati 160 i soldati uccisi (dato del 27 agosto). Agli attacchi contro le truppe occupanti si aggiungono ora attentati come quello contro la rappresentanza giordana e contro la sede dell’Onu.
Secondo Tommy Franks, ex comandante in capo Usa nel Golfo, gli occupanti fronteggiano da 10 a 25 attacchi al giorno. Il morale delle truppe americane è in caduta libera, soprattutto da quando è emerso chiaramente che la loro missione non prevede una fine a breve termine.
I generali e il governo Usa stanno scoprendo che anche con 170mila soldati armati fino ai denti non è facile controllare un paese che si ribella all’occupazione. Le continue brutalità commesse dalle truppe di occupazione alimentano l’opposizione della popolazione e allargano il reclutamento dei gruppi che conducono la lotta armata. Rastrellamenti, arresti di massa, centinaia di morti iracheni (solo in luglio la stampa inglese parlava di 300 morti iracheni di fronte a 30 nelle forze occupanti come risultato di una serie di rastrellamenti), stupri, sono pane quotidiano per la popolazione irachena, oltre alla disoccupazione di massa, i salari non pagati, la distruzione delle infrastrutture e le bande di saccheggiatori.
I costi della guerra, 50 miliardi di dollari a metà luglio, potrebbero crescere in maniera incontrollata, e si parla di 100 miliardi di dollari nel prossimo anno. Inoltre si scopre ora che l’esercito Usa è insufficiente a fare fronte alle esigenze del poliziotto mondiale. Si parla di mobilitare le riserve della Guardia nazionale per poter garantire l’avvicendamento alle truppe schierate in Iraq; il mito del piccolo esercito supertecnologico si scontra con la realtà della guerra e dell’occupazione: servono più soldi e più carne da cannone. Delle 33 brigate dell’Esercito Usa, 19 sono schierate all’estero e solo una è tenuta in riserva. Il presidente della Commissione per le forze armate del Congresso Usa propone di formare due nuove divisioni, pari a 32mila soldati in più.
Il “Consiglio di governo”
In luglio gli occupanti americani hanno formato il cosiddetto “Consiglio di governo” iracheno. Questo corpo consultivo “benevolmente” concesso dagli occupanti rappresenta una vera e propria lista degli odierni collaborazionisti in Iraq. In cima alla lista di 25 componenti troviamo il malfamato Ahmed Chalabi, dirigente del Congresso nazionale iracheno. Chalabi, che ha vissuto per decenni fuori dall’Iraq è un banchiere condannato a 20 anni di carcere in Giordania per bancarotta fraudolenta, si tratta di un agente dichiarato dei gruppi più oltranzisti della borghesia Usa, che ha giocato un ruolo fondamentale nella campagna propagandistica che ha creato la psicosi delle “armi di distruzione di massa”. Oltre a Chalabi, figurano fra i componenti del Consiglio i dirigenti dei due partiti kurdi iracheni: Jalal Talabani dell’Unione patriottica del Kurdistan (Puk) e Massud Barzani, del Partito democratico del Kurdistan (Pdk). Entrambi questi partiti e le milizie da loro controllate (i peshmerga) si sono posti al servizio degli Usa sin da prima del conflitto e oggi controllano la città petrolifera di Kirkuk. Il clero sciita gioca un ruolo importante nel Consiglio (all’interno del quale 12 componenti su 25 sono sciiti). È importante prendere nota di questo fatto: i notabili delle forze sciite giocano oggi un ruolo importante fra le forze che si mettono a disposizione degli occupanti. Il Dawa, un partito sciita in passato basato in Iran, è rappresentato nel consiglio da Ibrahim al Jaafari, e da Abdel Zahraa Othman, di Bassora. C’è inoltre il “principe delle paludi” Abdul-Karim Mahmoud al Moahmmedawi, leader del gruppo Hezbollah, e infine la presenza importante di Abdel Aziz Al Hakim, leader dello Sciri (Consiglio supremo per la rivoluzione islamica), un altro partito legato a Teheran.
Tra gli altri componenti figurano rappresentanti di compagnie saudite, rappresentanti di partiti religiosi sunniti e, come ornamento di questa allegra brigata di guardiani della libertà, le solite figure decorative: Sondul Chapuk, rappresentante di una non meglio precisata Organizzazione delle donne irachene, un paio di avvocati, un religioso sciita fondatore di un centro religioso di carità basato a Londra, ecc.
Non può quindi che scandalizzare la presenza in questa bella compagnia di Hamid Majid Mussa, segretario generale del Partito comunista iracheno (Pci), che entrando nel consiglio schiera il proprio partito dalla parte degli occupanti.
Con questa posizione, che arruola di fatto il Pci nel fronte delle forze collaborazioniste, i dirigenti di quel partito prostituiscono la tradizione comunista che pure ha resistito in Iraq in questi decenni, e ripercorrono la politica disastrosa che in altre epoche altri partiti comunisti, influenzati dallo stalinismo nelle sue diverse varianti, hanno portato avanti. Ci riferiamo per esempio al partito comunista indiano, che negli anni ’40 in nome del sostegno alla “democrazia” britannica contro la Germania nazista si ritirò di fatto dalla lotta per l’indipendenza dell’India, permettendo alle forze reazionarie del Congress e della Lega musulmana di egemonizzare il movimento; il risultato fu la completa frustrazione delle aspettative delle masse indiane, che nella lotta per l’indipendenza vedevano anche la lotta per la loro emancipazione sociale, e portò alla divisione fra India e Pakistan, organizzata dall’imperialismo inglese in combutta con il Congress e con la Lega musulmana, che causò quattro guerre, milioni di morti e una situazione che dura ancora oggi di scontro incancrenito per il controllo del Kashmir.
Un altro paragone storico possibile è quello con l’Argentina degli anni ’40, dove il Partito comunista in nome della democrazia appoggiò il partito radicale, borghese e filoamericano, regalando al peronismo l’egemonia sulla classe operaia. Oppure, più recentemente, quei gruppi della sinistra venezuelana come Bandera roja (di origine maoista) che – sempre in nome della democrazia – appoggiano l’opposizione golpista e filo-Usa contro il governo Chàvez.
Oggi in Iraq, la stessa politica disastrosa può portare a consegnare alle forze più reazionarie la guida della lotta contro l’occupante, con il rischio di portarla in un vicolo cieco.
Lotta di liberazione e lotta di classe
La lotta contro l’occupazione è ovviamente una lotta per un elementare diritto democratico, quello all’indipendenza e all’autodeterminazione. Ma questo non significa che l’intera nazione irachena sarà concorde nel condurre questa lotta. Al contrario: nella classe dominante emergono con chiarezza le spinte al compromesso, all’accordo con gli occupanti, magari “legalizzato” con una qualche risoluzione Onu e con l’intervento di qualche altra potenza imperialista che non susciti la stessa ostiltà degli Usa.
Abbiamo già accennato al ruolo del clero sciita e dei partiti nazionalisti kurdi. Ma anche nello stesso ex apparato del partito Baath si sta chiaramente producendo una divisione.
Esistono sicuramente migliaia di membri o di ex membri di quel partito che hanno vissuto l’occupazione americana come un’umiliazione nazionale, e che si stanno organizzando in una forma o nell’altra per la lotta, anche armata, contro l’occupante. Lo stesso dicasi per ampi settori dell’esercito.
Anche qui non mancano i precedenti. Quando l’esercito italiano si sbandò dopo l’8 settembre del 1943, furono migliaia i soldati e anche gli ufficiali che salirono in montagna e successivamente furono parte integrante delle formazioni partigiane; lo stesso accadde nella Jugoslavia occupata dai nazifascisti.
Ma è altrettanto vero che settori della burocrazia, dell’esercito e anche dei servizi segreti di Saddam si stanno ponendo al servizio degli americani, i quali sono alla disperata ricerca di punti di sostegno all’interno del paese e sono disposti ad assoldare chiunque sia disposto a farsi comprare.
La lotta democratica per la liberazione dell’Iraq può avere un reale significato per le masse che dovranno combatterla solo se sarà legata a un programma di emancipazione sociale e a una prospettiva internazionale che parli all’intero mondo arabo e oltre.
Quale prospettiva?
Gli attacchi quotidiani mettono chiaramente sulla graticola le truppe Usa. Va detto, tuttavia, che la lotta contro l’occupazione non sarà mai vittoriosa su basi puramente militari. A differenza di altri interventi precedenti come la Somalia o il Libano, dove gli Usa scelsero di ritirarsi dopo aver subito qualche decina o centinaio di morti, qui sono in gioco interessi strategici chiave dell’imperialismo Usa. La borghesia americana ha messo in gioco tutta la sua potenza e il suo prestigio in questa guerra, e non accetterà di mollare la preda se non di fronte a un pericolo mortale. Se è vero quindi che la lotta contro l’occupazione non potrà essere una lotta nonviolenta, è altrettanto vero che lo scontro militare sarà deciso in primo luogo da fattori politici. Il movimento di liberazione in Iraq può vincere come movimento di massa, nel quale le forze che impugnano le armi non lo fanno assumendo la prospettiva della politica delle punture di spillo, cioè di una serie di attentati e attacchi più o meno clamorosi ma disgiunti dalla lotta condotta dalle masse, ma lo fanno all’interno di una strategia che veda la mobilitazione di massa dei lavoratori, dei contadini, dei disoccupati come agente centrale della lotta.
Se l’amministrazione Usa si trovasse di fronte a una situazione ingestibile, e soprattutto se questa cominciasse ad avere effetti all’interno degli stessi Stati uniti, dovrà indubbiamente rettificare la rotta. Potrebbero, a quel punto, orientarsi con decisione ancora maggiore a una spartizione del paese, puntando a fare intervenire altre potenze (magari riscoprendo l’esistenza dell’Onu), con l’obbiettivo di mantenere il controllo delle zone per loro decisive (il nord e il sud, con il grosso dei pozzi petroliferi), lasciando che Baghdad e l’Iraq centrale precipitino in un caos “amministrato” da una qualche forza multinazionale.
Una simile politica sarebbe probabilmente ingestibile per Bush, ma non per un suo possibile successore dopo le elezioni del prossimo anno.
Sarebbe questa una prospettiva di libanizzazione del paese che significherebbe un disastro ancora peggiore per le masse, ma che potrebbe ingolosire più di una delle forze che già oggi collaborano con gli Usa nel “Consiglio di governo” e forse anche una parte delle organizzazioni che oggi conducono la campagna di attacchi contro gli angloamericani.
Liberazione nazionale e rivoluzione socialista
In una situazione nella quale da vent’anni le condizioni delle masse in tutto il Medio oriente sono in declino, persino in paesi in precedenza stabili come l’Arabia Saudita, lottare contro la penetrazione imperialista (sia essa economica o militare) significa lottare contemporaneamente per il controllo della classe operaia e dei contadini sul petrolio, sull’acqua, sulla terra e su tutte le altre risorse economiche fondamentali. E questo significa, a sua volta, lottare contro l’intera borghesia araba che proprio in questa guerra ha mostrato una volta di più la sua codardia e la sua incapacità storica di fronteggiare l’imperialismo.
Inoltre, va ricordato che i confini dell’Iraq, così come quelli di tutti i paesi che compongono la nazione araba, sono confini in gran parte artificiali, tracciati col righello dalle potenze coloniali al fine di spartirsi il Medio oriente e di meglio controllare le sue popolazioni. Praticamente tutti i paesi della regione contengono al loro interno minoranze etniche o religiose più o meno discriminate; alcuni Stati, come il Kuwait o i vari emirati del Golfo Persico, sono stati inventati di sana pianta per costituire dei paesi completamente dipendenti dall’imperialismo e ad esso legati indissolubilmente. Per non parlare, poi, della questione palestinese.
La politica degli Usa in Iraq oggi ricalca quella dell’imperialismo sotto tutti i cieli: divide et impera. Sono proprio gli Usa oggi a fomentare la divisione dell’Iraq su linee religiose ed etniche, come già fecero (in collaborazione con l’imperialismo tedesco, italiano, col Vaticano, ecc.) in Jugoslavia.
Contro questa politica criminale, l’unica alternativa realmente democratica è quella della lotta rivoluzionaria per la cacciata degli occupanti, come parte integrante della lotta per un Iraq socialista inserito in una federazione socialista dell’intero Medio oriente, unico quadro nel quale le parole “indipendenza” e “autodeterminazione” possono assumere un carattere realmente progressista e avviare tutti i popoli della regione sulla via dell’emancipazione nazionale e sociale.
28 agosto 2003
Carabinieri italiani contro i comunisti iracheni
Gli avvenimenti di luglio a Nassirya illustrano chiaramente il vero ruolo sia delle forze occupanti che delle diverse organizzazioni irachene. Il 3 luglio una manifestazione di 7mila disoccupati organizzata dal Partito comunista operaio iracheno (Wcpi, un altro partito comunista da non confondersi col Pci) viene attaccata violentemente da bande islamiche dello Sciri. Ne seguono altri scontri, anche armati, nel corso dei quali quattro militanti del Wcpi vengono rapiti e torturati dagli islamici.
Contemporaneamente, su istigazione degli stessi islamici, i soldati italiani entrano nella mischia, occupano la sede dei comunisti e arrestano tutti coloro che vi si trovano. Anche dopo il loro rilascio, le forze italiane rifiutano di restituire la sede al Wcpi e dichiarano che se questo aprirà un’altra sede non si assumeranno alcuna responsabilità per l’incolumità dei suoi occupanti; un modo diplomatico per dire che permetteranno agli islamici dello Sciri di attaccarli a loro piacimento, senza intervenire.
Questo episodio illustra plasticamente il ruolo di tutte le parti in causa.
La “complicazione” curda e la crisi fra Turchia e Usa
Fin da prima del conflitto gli Usa si sono appoggiati alle forze nazionaliste curde del nord dell’Iraq. Tuttavia questa politica non è priva di conseguenze. Da un lato, infatti, la popolazione di Kirkuk non è omogeneamente curda. Si susseguono scontri sanguinosi fra curdi, arabi e turcomanni (una minoranza di lingua turca). Inoltre, la Turchia non ha gradito affatto il ruolo di protagonisti assegnato alle milizie curde. Non solo ha schierato decine di migliaia di soldati sul confine e anche oltre, ma sta anche intervenendo contro i guerriglieri curdi in Iraq. Si è arrivati al conflitto aperto fra americani e turchi quando in luglio soldati Usa hanno arrestato 11 soldati turchi sospettati di spionaggio contro i peshmerga curdi o altri collaboratori degli americani. L’episodio ha portato alla più grave crisi diplomatica degli ultimi 50 anni fra Usa e Turchia.
Dietro l’episodio c’è un conflitto strategico di fondo. La borghesia turca e in particolare i generali, non è disposta a tollerare la formazione di uno Stato curdo nel nord dell’Iraq. Qualsiasi passo in questa direzione viene visto come il fumo negli occhi in quanto si teme possa incoraggiare la ripresa della lotte dei curdi all’interno della stessa Turchia. Per gli Usa si tratta di un rompicapo strategico. La Turchia da oltre mezzo secolo è l’alleato più fedele, assieme a Israele, per l’imperialismo americano in Medio oriente. Già allo scoppio della guerra il voto del parlamento turco, che rifiutò il passaggio alle truppe Usa, costituì un serio problema. D’altra parte è impossibile pensare che qualche migliaio di guerriglieri curdi del Pdk e del Puk possa costituire un serio punto d’appoggio per gli Usa; al contrario, sono questi ultimi a doverli sostenere.
Con la sua politica Bush ha quindi contribuito a destabilizzare ulteriormente la Turchia, già scossa dalla crisi economica, politica, istituzionale. Un altro paese che in passato era un baluardo della stabilità e della reazione nella zona si trasforma così in una ulteriore fattore di crisi.