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Il 1° agosto 2006 un comunicato ufficiale informava la cittadinanza cubana della malattia di Fidel Castro e del passaggio provvisorio delle sue funzioni di governo al fratello Raul.
Immediata la reazione dei gusanos di Miami che sono scesi in strada a festeggiare e di Bush che ha fatto appello “a muoversi rapidamente verso un cambiamento democratico nell’isola”. Condoleeza Rice per parte sua ha proposto “una transizione che conduca rapidamente a elezioni pluripartitiste a Cuba”. Senza alcun pudore l’amministrazione Usa ha messo a disposizione 80 milioni di dollari per finanziare i progetti anticastristi.
Per quanto ci riguarda ribadiamo con forza che dei terroristi e dei massacratori di innocenti come Bush e la Rice non hanno alcun diritto di parlare di “democrazia” nè a Cuba, nè in alcun luogo del mondo.
Tutti i sinceri rivoluzionari non possono che allarmarsi per la salute di Castro e vedere con disprezzo queste manifestazioni che oggi come ieri si propongono un solo obiettivo: restaurare il capitalismo a Cuba.
Mentre continuiamo a batterci contro l’imperialismo yankee e riaffermiamo la difesa delle grandi conquiste sociali che sono state realizzate con la rivoluzione del 1959 ci rivolgiamo a tutti coloro che si schierano dalla parte di Cuba per aprire un confronto sulle scelte decisive che la rivoluzione avrà di fronte nei prossimi anni.
Il punto di partenza della nostra analisi è spiegato nell’articolo del compagno Jordi Rosich, che pubblichiamo in questa stessa rivista.
Capitalismo e socialismo
In primo luogo un aspetto teorico. Come mostrano gli ultimi capitoli dell’articolo di Rosich il capitalismo non può convivere a lungo con l’economia nazionalizzata e pianificata. Alla lunga una deve prevalere sull’altra. Chiunque propugni l’idea di economie miste non tiene conto dell’esperienza storica, la quale dimostra che il capitalismo è un sistema estremamente pervasivo che lasciato libero di operare alla lunga oltre a produrre enormi disuguaglianze tende a sfuggire ad ogni controllo e a ribaltare qualsiasi imposizione politica, o più precisamente di tipo sovrastrutturale, possa rappresentare un limite al suo sviluppo.
Non a caso l’imprenditoria pubblica all’interno di un sistema capitalista (si guardi all’Iri) è funzionale agli interessi della classe dominante che utilizza i fondi statali per ricapitalizzare le proprie imprese e competere sui mercati mondiali, socializza le perdite e tiene per sé i profitti.
Quella di regolare o guidare il capitalismo attraverso le “partecipazioni statali” è l’eterna illusione dei riformisti che poco o nulla hanno appreso dall’esperienza.
Non è un caso se nel giro di pochi mesi la rivoluzione d’Ottobre dovette nazionalizzare la gran parte dell’industria, delle infrastrutture e del sistema bancario, oltre a stabilire il monopolio sul commercio estero.
Se così non fosse stato i bolscevichi avrebbero perso il potere nel giro di pochi mesi. Similmente Castro, nonostante le sue intenzioni iniziali, fu costretto tra il ’60 e il ‘62 a nazionalizzare l’economia cubana per evitare che l’imperialismo Usa sabotasse il sistema nato dalla rivoluzione utilizzando le potenti leve delle banche e delle industrie private.
Per via teorica o per via pratica alla fine si è arrivati alla stessa conclusione. Chi non ha voluto prendere atto di questo aspetto fondamentale alla fine ne è uscito sconfitto. È questo il caso dei sandinisti che sono stati rovesciati, in ultima analisi, per non aver espropriato le imprese private, eccetto quelle del dittatore Somoza.
Di fronte a un simile dilemma è oggi il governo di Hugo Chavez. La rivoluzione bolivariana vincerà se si trasformerà in socialista nazionalizzando i settori decisivi dell’economia, altrimenti il processo è destinato a retrocedere e alla lunga la reazione prevarrà, per quanto possa sembrare oggi divisa e in completa ritirata.
È per questa semplice ragione che i marxisti danno un’enorme importanza alle questioni economiche e i dibattiti in Urss nei primi anni dopo la presa del potere partivano sempre da questo assunto fondamentale.
L’unica via attraverso la quale il socialismo può vincere è raggiungere un livello di sviluppo delle forze produttive superiore a quello capitalista riuscendo allo stesso tempo a garantire quello sviluppo armonico che è impensabile nel capitalismo, è un sistema fondamentalmente anarchico.
Ma quando una rivoluzione si afferma in un paese arretrato (ed era il caso dell’Urss, di Cuba e delle altre rivoluzioni che hanno attraversato il XX secolo) e non esistono le condizioni materiali per stabilire in poco tempo una società pienamente socialista, per Marx un sistema nel quale “ciascuno lavora secondo le proprie capacità e riceve secondo le proprie necessità”, allora nascono dei regimi transitori destinati per un lungo periodo di tempo a muoversi dal capitalismo verso il socialismo, ma anche nella direzione opposta se i rapporti di forza sono sfavorevoli alla classe operaia.
Più è arretrata l’economia, più il paese è soggetto a riprodurre nuove disuguaglianze sociali, soprattutto se lo Stato non è sottoposto al controllo democratico dei lavoratori.
Sono queste le basi economiche e sociali che hanno dato vita alla burocrazia negli Stati operai. Nel caso dell’Urss, nei primi anni dopo la rivoluzione un sistema di democrazia operaia controllava effettivamente lo Stato. A Cuba o in Cina questo non c’è mai stato neanche all’inizio del processo.
È possibile evitare la degenerazione di una rivoluzione che arriva al potere in un paese arretrato? A questa domanda i bolscevichi davano una sola risposta che vedeva nell’avanzamento del processo rivoluzionario su scala internazionale l’unica via d’uscita. Il socialismo in un paese solo non verrà mai realizzato, tanto meno in un piccolo paese come Cuba.
La Nep e il “socialismo di mercato” cinese
Quando a Cuba Fidel e compagni giunsero al potere esisteva da almeno 30 anni un modello burocratico di regime che si dichiarava socialista. Il fatto che l’Urss fosse un paese sterminato con gigantesche risorse e Cuba un piccolo paese assediato dalla più forte potenza imperialista determinò le scelte del governo cubano che passò nell’orbita sovietica.
Ma quando ci fu il crollo dell’Urss, se da una parte Cuba si ritrovò all’improvviso senza petrolio e materie prime, dall’altra si liberò di quel modello politico e sociale (lo stalinismo) che aveva fallito da tutti i punti di vista.
Ovviamente era urgente affrontare il problema immediato di sfamare un paese che economicamente era diventato totalmente dipendente dal “campo socialista”. Comprensibilmente il governo aprì la propria economia al mercato mondiale.
In una situazione per certi aspetti simile si trovarono i bolscevichi all’inizio degli anni ’20. Dopo la guerra civile la popolazione era stremata e il governo guidato da Lenin fu costretto ad introdurre alcune riforme che andavano in direzione del capitalismo di stato.
Queste misure che favorivano l’economia privata soprattutto nelle campagne presero il nome di Nep (Nuova politica economica).
La Nep, nella misura in cui venne difesa apertamente da Lenin, è diventata spesso oggetto di discussione in quei paesi a economia nazionalizzata nei quali sono stati reintrodotti elementi di mercato.
Quasi tutte le “riforme di mercato” negli Stati operai sono state avviate con grandi proclami che si richiamavano a Lenin e alla Nep.
Tuttavia la Nep venne concepita da Lenin e dai bolscevichi come una misura temporanea per far ripartire l’economia nelle campagne in attesa di una vittoria socialista nell’Europa occidentale.
Secondo Lenin lo Stato operaio non poteva svilupparsi su basi autarchiche e doveva stabilire relazioni commerciali con i paesi capitalisti, ma a condizione che ci fosse un rigido controllo centrale attraverso il monopolio del commercio estero.
C’era pertanto una assoluta comprensione da parte dei bolscevichi sul fatto che le principali leve economiche dovessero rimanere statali.
Qualcosa di completamente diverso sul piano quantitativo e qualitativo è quanto è avvenuto in Cina in questi anni dove di fronte a un gigantesco processo di liberalizzazione alla lunga è stata smantellata l’economia pianificata e restaurato il capitalismo nella sua forma più oppressiva e sfruttatrice.
C’è da aspettarsi che nei prossimi anni in Cina si verifichino delle trasformazioni non meno gigantesche di quelle che si sono prodotte sul piano economico anche sul piano politico.
È interessante rilevare che come Trotskij aveva previsto nella Rivoluzione Tradita, è dalla stessa burocrazia del partito comunista che sono nati i nuovi capitalisti. Esattamente lo stesso processo si è verificato nella ex-Urss e nei paesi dell’Europa orientale.
Questo dovrebbe far riflettere tutti coloro che vedono il nemico solo nei reazionari di Miami quando in realtà i pericoli per la rivoluzione vengono soprattutto da quei settori della burocrazia statale che guardano all’esperienza cinese e collaborano da diversi anni con l’imperialismo europeo.
Tra questi non c’è Fidel, il quale si oppone implacabilmente a qualsiasi ipotesi di restaurazione capitalista a Cuba. Siamo dunque dalla parte di Fidel anche se resta da capire con quali metodi la rivoluzione può continuare a vivere.
Divisioni al vertice
Sarebbe un errore chiudere gli occhi di fronte alle enormi difficoltà economiche che ha sopportato Cuba negli ultimi 15 anni.
Il 3 agosto del ’91 la direzione cubana fu costretta ad annunciare il cosiddetto Periodo Especial, una sorta di economia di guerra e di razionamento a cui fece seguito un maggior orientamento verso il mercato, facendo entrare il capitale straniero nell’isola anche se con l’idea che queste concessioni dovessero essere controllate e regolate dallo Stato e dal partito.
I meccanismi capitalistici però progressivamente si insinuavano nell’economia cubana e finivano col condizionare quei settori della burocrazia che maggiori guadagni facevano con il capitale straniero. In primo luogo coloro che avevano a che fare con il turismo e le joint-venture.
È questo lo scontro che ha visto impegnato Fidel contro esponenti come Robaina (ex ministro degli esteri cubano) i rappresentanti di quel settore che attraverso un’intensificazione delle relazioni con il capitale straniero vogliono reintrodurre il capitalismo a Cuba.
Da questo punto di vista è giusto ricordare che lo stesso Fidel, nel corso degli anni ’90, ha favorito questo processo quando in più occasioni ha inneggiato al modello cinese.
L’approccio è cambiato solo quando in America Latina si è passati da un lungo periodo di riflusso (la cosiddetta decade perdida) a una nuova epoca rivoluzionaria che ha scosso gli equilibri precedenti rafforzando quel settore del Pc cubano contrario al capitalismo.
Lo stesso Fidel ha smesso a quel punto di guardare alla Cina e ha iniziato a stringere relazioni fraterne con i governi di Hugo Chavez ed Evo Morales. Questo ha avuto i suoi effetti sul piano politico: mentre nel Pc cinese coloro che si oppongono al capitalismo sono una piccola minoranza di maoisti assolutamente isolati, nel Pc cubano esiste invece una vera e propria frazione Reiss (Reiss fu un ex dirigente della Gpu che negli anni ’30 passò al trotskismo e pre questo venne fatto assassinare da Stalin nel 1938) e cioè un settore che guarda con crescente simpatia alle idee che vedono nella rivoluzione internazionale l’unica via d’uscita per salvare la rivoluzione a Cuba.
Il solo fatto che una compagna come Celia Hart (figlia di due eroi della rivoluzione come Haidee Santamaria e Armando Hart) si sia recentemente dichiarata a favore del trotskismo dimostra fino a che punto certe idee stiano arrivando ai livelli più alti del Pc cubano, che in passato erano assolutamente impenetrabili.
Il Venezuela di Hugo Chavez rappresenta una boccata di ossigeno fondamentale per Cuba (essendo il quarto produttore mondiale di petrolio) e con l’amministrazione Bush impantanata nella guerra in Iraq la pressione politica e militare degli Usa non è la stessa del passato.
Tutto questo sta cambiando la psicologia della burocrazia, oltre che delle masse cubane, e non è un caso se oggi a Cuba assistiamo a una svolta nella quale si dichiara guerra al settore più corrotto del gruppo dirigente e si introducono riforme che a differenza degli anni ‘90 non vanno nel senso di aprire il paese al capitale straniero, ma nella direzione opposta.
Fidel in un discorso tenuto nel novembre del 2005 dipingeva un quadro increscioso della direzione statale piena di funzionari ladri, corrotti e inefficienti.
Negli ultimi due anni il governo ha dato un’impronta molto più socialista del passato alla manifestazione del 1° maggio e ha introdotto ulteriori cambiamenti. È stato ad esempio approvato un decreto che prevede che le aziende cubane non possano più fare affari con quelle straniere abolendo la circolazione del dollaro come moneta legale. Il lider maximo ha dichiarato pubblicamente che “le misure di mercato potevano portare Cuba molto lontano”.
Il fatto che Hugo Chavez nel suo intervento al forum di Porto Alegre del 2005 abbia apertamente posto la prospettiva socialista ha fatto da volano al nuovo corso. I discorsi di Chavez, che cita sovente Trotskij, sono trasmessi regolarmente nella Tv cubana.
Oggi non solo i libri del grande rivoluzionario russo sono permessi, ma alla Feria del Libro dell’Avana quest’anno erano presenti gli stand della Fondazione Federico Engels, la casa editrice dei marxisti spagnoli del Militante, ed oltre ai libri di Marx, Engels e Lenin, i cubani possono accedere anche ai testi di Ted Grant e Alan Woods.
Qualcosa di impensabile qualche anno fa e che si è reso possibile grazie ai numerosi riconoscimenti che Chavez, ancora al recente Festival mondiale della Gioventù, ha attribuito al compagno Alan Woods, leader della Tendenza marxista internazionale, che ha definito un intellettuale, che con altri, lo avrebbe aiutato ad orientarsi sulla via del socialismo.
Stato operaio deformato
Chi scrive ha sempre messo al centro del proprio programma la difesa incondizionata di Cuba contro l’imperialismo, anche se rigettiamo le analisi apologetiche, che ci pare non facciano un gran servizio alla causa della rivoluzione, perché non riconoscendone i limiti non sono poi in grado di combattere i pericoli restaurazionisti.
Abbiamo da sempre caratterizzato Cuba come uno Stato operaio deformato, per l’assenza di quegli organismi di democrazia consiliare attraverso cui si esprime la “dittatura della maggioranza sulla minoranza” una volta che il capitalismo viene rovesciato.
Questo è sempre stato un limite e ha rappresentato un costante pericolo per la sopravvivenza della rivoluzione cubana perché nella misura in cui non esiste un controllo dal basso è inevitabile che la burocrazia conservi un enorme potere che può essere usato, in determinate circostanze, per restaurare il capitalismo.
La repressione dall’alto, anche se guidata dal massimo rappresentante del partito, non servirà ad arrestare questo processo (che ha alleati potenti a livello internazionale) come dimostra l’esperienza storica nei paesi a “socialismo realizzato”.
Per il carattere particolare della rivoluzione del ’59 che non è stata il frutto dell’azione cosciente del proletariato ma di una guerriglia contadina che è giunta al potere, si è stabilito a Cuba un regime a modello dell’Urss. Si trattava tuttavia di un regime “morbido” di bonapartismo proletario, dove non c’è stato spazio per le peggiori nefandezze dello stalinismo anche quando Cuba era saldamente integrata nel blocco sovietico.
Non abbiamo visto a Cuba né i gulag, né le purghe staliniane ma eravamo comunque in presenza di un regime che ha fatto uso della repressione poliziesca non solo contro le forze borghesi ma anche contro quelle tendenze proletarie che, pur criticando il regime, si schieravano contro il capitalismo e dalla parte della rivoluzione.
Il regime cubano ha condiviso dello stalinismo la concezione antimarxista del socialismo in un paese solo. Non a caso l’idea del Che dell’estensione internazionale della rivoluzione non suscitò mai grandi entusiasmi né in Fidel, né negli altri dirigenti del Pc cubano.
In passato, quando c’era l’Urss, la burocrazia cubana era molto più stabile ed allineata ad un certo sistema di potere.
Per questa ragione i trotskisti pur difendendo le conquiste sociali della rivoluzione del ‘59 ritenevano che come in Urss anche a Cuba fosse necessaria una seconda rivoluzione, non sociale ma politica.
L’esperienza ungherese del ’56 era il modello classico da seguire. Una rivoluzione operaia che lottava contro la dittatura burocratica ma che non si proponeva di restaurare il capitalismo, al contrario voleva stabilire un autentico potere socialista.
Oggi venendo meno quel blocco la burocrazia cubana è in un certo senso “più libera” ma anche più precaria. Non potendosi più appoggiare su l’Urss ha cercato delle alternative. L’alternativa l’ha offerta Chavez, che però come è noto non propugna il monopartitismo e il centralismo burocratico ma piuttosto la democrazia partecipativa e il protagonismo delle masse.
Queste concezioni che in passato sarebbero state rifiutate dal regime cubano oggi non solo circolano a Cuba ma diventano oggetto di discussione a tutti i livelli della società.
Monopartitismo o pluralismo politico?
La domanda che molti si fanno a sinistra è se in un sistema socialista è indispensabile avere un regime di partito unico o piuttosto non dovrebbe esserci spazio per l’esistenza di più tendenze politiche che possano confrontarsi liberamente sul destino della società. Proveremo a dare una risposta a questo quesito da un punto di vista di classe.
In primo luogo è giusto ricordare che il socialismo è un sistema dove le classi sociali e lo Stato sono estinti e si mantiene solo un’amministrazione delle cose pubbliche, senza bisogno di alcun “corpo di uomini armati”.
Nella misura in cui i bisogni generali sono stati soddisfatti e le differenze di classe sono un brutto ricordo del passato non c’è alcuna necessità di strumenti repressivi.
Ma in una prima fase se si vuole evitare che la reazione torni rapidamente al potere è inevitabile che la classe operaia si doti di un proprio apparato di difesa. Per questo c’è bisogno di uno Stato operaio che prepari la strada al socialismo.
Lo Stato operaio è dunque un regime di transizione al socialismo. Un sistema di cui si dota una classe oppressa giunta al potere per difendersi dagli oppressori.
Il fatto che 50 anni dopo la rivoluzione i reazionari di Miami rivendichino ancora le loro proprietà a Cuba e siano pronti a guidare un’insurrezione armata contro il regime cubano dimostra la necessità di un simile Stato.
Ma di che tipo di Stato stiamo parlando? Come Lenin spiega in Stato e Rivoluzione lo Stato operaio è una sorta di semi-stato che mentre svolge le sue funzioni tende ad estinguersi.
È uno Stato qualitativamente diverso da quelli conosciuti nel passato, che servivano a tutelare gli interessi di una minoranza privilegiata, ed è proprio per questo che deve appoggiarsi su organismi rappresentativi completamente diversi: non sul parlamento (che è il sistema di rappresentanza classico della democrazia borghese) ma su un sistema molto più avanzato e democratico: il sistema dei soviet o dei consigli operai, che a seconda delle caratteristiche del paese può strutturarsi nelle forme più adeguate a coinvolgere anche quei settori non proletari che sono disposti a lottare contro il capitalismo, a partire dai contadini poveri.
È chiaro che il ruolo della classe lavoratrice, in quanto classe organizzata nei centri produttivi, abituata a ragionare in termini collettivi è centrale in un sistema di questo tipo. Proprio per questo il marxismo assegna al proletariato il ruolo dirigente nella trasformazione socialista della società.
Il sistema sovietico è di gran lunga superiore a quello parlamentare perchè non si limita a chiedere un voto in un’urna ogni 4-5 anni, ma si basa sulla partecipazione, la discussione democratica, l’eleggibilità e la revocabilità dei rappresentanti a tutti i livelli, fino alla definizione di un’Assemblea nazionale rivoluzionaria con rappresentanti eletti nelle fabbriche, nelle campagne e nei territori in ogni angolo del paese.
Non si tratta di una costruzione artificiale ma di un sistema che corrisponde alla realtà viva del processo rivoluzionario. Non a caso in tutte le rivoluzioni del XX secolo si è sempre vista una tendenza spontanea alla formazione di consigli operai che costituivano a tutti gli effetti degli organismi di contropotere.
In organismi del genere è logico e normale che opinioni diverse possano confrontarsi anche attraverso l’esistenza di partiti diversi che abbiano in comune il riconoscimento del sistema socialista. Non si capisce perchè questo diritto debba venir meno nella fase post-rivoluzionaria.
Ci risponderà qualcuno che un regime di “democrazia operaia” non si sviluppa sotto una campana di vetro ma è sottoposto a pressioni di ogni tipo sul piano nazionale e internazionale.
In effetti l’esperienza ha dimostrato che quando viene rovesciata (o rischia di esserlo) la borghesia è capace di utilizzare ogni mezzo per combattere il potere rivoluzionario, anche infiltrando i propri agenti (spesso questo ruolo viene giocato dai riformisti) nei soviet operai. Lo abbiamo visto in Urss, nella rivoluzione tedesca e in altre esperienze.
Siamo d’accordo che in determinate condizioni anche un regime sano può essere costretto a restringere i diritti democratici per difendere la rivoluzione. Durante la guerra civile nel 1920 persino i bolscevichi, che pure avevano dato vita al partito più democratico che la storia abbia mai conosciuto, dopo aver proibito gli altri partiti sono stati costretti a negare il diritto di frazione all’interno del Partito comunista.
Lenin considerava questa una misura temporanea da applicarsi durante la guerra civile, in un momento in cui la controrivoluzione poteva distruggere il giovane Stato operaio e massacrare l’intera direzione rivoluzionaria come era accaduto 50 anni prima con la Comune di Parigi. Fu lo stalinismo a trasformare quella che era un’eccezione in una norma che si è mantenuta e trasmessa in tutti i paesi a cosiddetto socialismo reale anche al di fuori dei confini dell’Urss.
Ovviamente una rivoluzione in marcia non può fermarsi di fronte a formalismi ultra-democratici che certo non condizionano l’avversario di classe. Come dicono i francesi, à la guerre comme alla guerre. Chi non capisce questo è un ben povero rivoluzionario.
Ma ciò non toglie che nella concezione marxista lo Stato operaio non dovrebbe vietare l’esistenza di più partiti; non a caso nel primo governo rivoluzionario in Urss non erano presenti solo i bolscevichi ma anche i socialisti rivoluzionari di sinistra; i menscevichi e altre formazioni avevano i loro rappresentanti nei soviet, in alcune zone persino con posizioni maggioritarie (ad esempio in Georgia).
Siamo dunque sensibili alle osservazioni di chi dice che oggi un sistema pluripartitico a Cuba favorirebbe la reazione dei gusanos, tuttavia riteniamo che l’unico modo per combattere i pericoli restaurazionisti è permettere ai lavoratori cubani di controllare realmente lo Stato attraverso la formazione di un’assemblea nazionale rivoluzionaria basata sui consigli dove i delegati siano liberamente eletti all’interno di assemblee democratiche e rappresentative.
Questo è alla fine l’unico modo per liberare il partito e lo Stato dalla burocrazia corrotta e privilegiata. A questo fine deve essere garantito alle tendenze operaie il diritto a manifestare le proprie posizioni nel Partito comunista e nei sindacati per condurre nel migliore dei modi una battaglia politica contro il settore pro-borghese.
La chiave del problema è proprio questa: da marxisti non chiediamo diritti democratici fine a se stessi, la democrazia operaia è necessaria alle avanguardie rivoluzionarie per combattere più efficacemente gli opportunisti, i carrieristi, i lacché dell’imperialismo che crescono nelle file del partito. Allo stesso tempo che chiediamo questi diritti proponiamo un fronte unico a Fidel Castro contro la destra del Pc cubano. Continueremo a discutere le nostre differenze politiche ma colpiremo uniti i nemici della rivoluzione.
A differenza delle tante sette pseudotrotskiste latinoamericane la nostra posizione non è quella del rovesciamento rivoluzionario del regime di Castro ma piuttosto la sconfitta dell’imperialismo e dell’ala pro-borghese del Pc cubano attraverso la mobilitazione della classe operaia.
Rivoluzione politica o riforma?
Questo significa che abbandoniamo la parola d’ordine della rivoluzione politica a Cuba? Temporaneamente sì, pronti a recuperarla se l’esito dello scontro vedesse prevalere a un certo punto il settore pro-borghese.
Ma difficilmente le cose si porranno in questi termini. Le masse cubane non hanno di fronte il regime di Rakosi del ’56, né ci sono i carri armati sovietici pronti a sbarcare sulle coste cubane per soffocare i “focolai controrivoluzionari”.
Le ragioni che portarono Trotskij ad avanzare la parola d’ordine della rivoluzione politica negli anni ‘30 (abbandonando la posizione che l’Urss potesse essere riformata) era legata al carattere mostruosamente repressivo e controrivoluzionario che aveva assunto la burocrazia sovietica, come si dimostrò in Germania nel ‘33 e ancora peggio in Spagna durante la guerra civile.
Trotskij giunse alla conclusione che quella casta potesse essere rimossa dal proletariato solo attraverso una insurrezione armata.
Ma le cose si pongano negli stessi termini oggi a Cuba, in un paese debole, assediato, che per forza di cose, non ha, nè potrebbe avere alcuna ambizione di condizionare i processi internazionali e le rivoluzioni in altri paesi per farle fallire?
Non si capisce perché i cubani, e noi con loro, dovrebbero porsi l’obiettivo di fare una rivoluzione politica contro un governo che è collocato in prima linea nella lotta contro l’imperialismo, che non rappresenta più un freno alla crescita del processo rivoluzionario in America Latina (cosa che invece si è verificata nel ’79 rispetto al Nicaragua), che non propone alcun tipo di “coesistenza pacifica” col capitalismo.
Solo la follia settaria può costringerci a mantenere una parola d’ordine che Trotskij aveva sviluppato in un contesto realmente differente.
Guardiamo al ruolo controrivoluzionario che l’Urss giocò nella guerra civile spagnola e a come questo ruolo oggi non è stato e non può essere giocato da Cuba in Venezuela.
C’è un problema di peso specifico. Se anche i cubani volessero frenare Chavez nei suoi intenti socialisti, quali leve avrebbero per farlo?
Ma c’è anche un problema di stabilità del regime e di nuovi rapporti internazionali che si sono definiti dopo l’89. Mentre l’Urss temeva qualsiasi rivoluzione si sviluppasse in giro per il mondo perchè questa risvegliava la coscienza dei lavoratori sovietici e minacciava i privilegi della casta burocratica, Cuba ha tirato un sospiro di sollievo appena è apparso un fermento rivoluzionario che la toglieva da uno spietato isolamento sul piano internazionale.
Oggi non è Cuba che condiziona in senso moderato il Venezuela, ma viceversa è il Venezuela che condiziona Cuba in direzione del socialismo.
Bisogna prenderne atto: in un primo momento Castro ha sconsigliato Chavez di spingersi troppo in là sulla strada del socialismo; questo non ha impedito però che il presidente venezuelano andasse per la sua strada e trascinasse Castro su posizioni sempre più radicali.
Anche per la debolezza del proletariato cubano (ancora più debole dopo le chiusure di imprese che si sono registrate in questi anni) è evidente che il destino della rivoluzione cubana si gioca in primo luogo fuori da Cuba. In definitiva è il proletariato venezuelano e di altri paesi che può offrire uno sbocco alla rivoluzione cubana.
Oggi Cuba, in un contesto molto diverso da quello della guerra fredda, sta subendo profonde trasformazioni e come effetto delle nuove relazioni di classe a livello internazionale somiglia molto di più a quello che era l’Urss tra il ’24 e il ’29: un regime con forti deformazioni burocratiche che però Trotskij e l’Opposizione di sinistra ritenevano possibile riformare attraverso un programma di lotta contro le disuguaglianze sociali, per la democrazia operaia e una prospettiva internazionalista.
Alla fine il programma dell’Opposizione di sinistra non era molto diverso prima o dopo il ’29, quello che cambiavano erano i mezzi per conquistare il fine e cioè non più attraverso una battaglia politica e ideologica della classe operaia per riconquistare pienamente il potere, ma attraverso un’insurrezione armata, l’unica che restava visto che gli strumenti politici erano stati negati dalla dittatura stalinista e l’avanguardia rivoluzionaria veniva sterminata nei gulag in Siberia.
Nelle condizioni attuali di Cuba le idee rivoluzionarie possono avanzare non sulle rovine del castrismo ma conquistando consensi persino ai livelli più alti della direzione.
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Il programma rivoluzionario
Per battere i fautori della restaurazione capitalista è necessario che l’avanguardia si doti di un programma che colpisca al cuore il sistema burocratico e che potremmo riassumere nelle seguenti parole d’ordine:
- Abolizione dei privilegi burocratici, Salario di un operaio qualificato per ogni dirigente del partito e dello Stato. Rotazione delle cariche.
- Rinazionalizzazione dei settori pubblici privatizzati e abolizione di ogni concessione fatta alle imprese private
- Formazione di consigli rivoluzionari nei luoghi di lavoro, di studio, nelle città e nelle campagne.
- Epurazione dei burocrati corrotti arricchitisi in questi anni sulle spalle della popolazione cubana.
- Diritti democratici nei luoghi di lavoro e democratizzazione dei sindacati.
- Riconoscimento del diritto di tendenza nel Partito comunista cubano per tutte le forze che appoggiano la rivoluzione.
- Formazione di un’assemblea nazionale rivoluzionaria eleggibile e revocabile in qualsiasi momento dalle istanze che l’hanno eletta.
- Trasformazione dell’esercito cubano in una milizia operaia e popolare con pieni diritti democratici di eleggibilità degli ufficiali.
Oggi uno dei pericoli più gravi per la restaurazione viene proprio dalle file dell’esercito. Le forze armate possiedono numerose imprese e i generali sono tra i più interessati a favorire un processo di privatizzazione delle forze produttive.
Siamo consapevoli che presto o tardi potrebbe aprirsi uno scontro sociale molto aspro a Cuba e persino una guerra civile. Bisogna prepararsi per una tale eventualità; l’imperialismo ovviamente sosterrà il settore anticastrista e non mancheranno aiuti militari e finanziari per questo.
Come alla Baia dei Porci, c’è un solo modo per sconfiggere la controrivoluzione: distribuire le armi alle masse cubane e fare appello alla classe operaia e a tutti gli oppressi a livello internazionale per fornire mezzi politici e finanziari perchè la rivoluzione cubana possa continuare a vivere.
Una situazione del genere potrebbe generalizzarsi in tutto il continente e la rivoluzione vincere in un altro paese importante dell’America Latina. A quel punto la situazione mondiale ne uscirebbe sconvolta aprendo una crisi rivoluzionaria simile a quella che ci fu in Europa tra il ’17 e il ’23.
Oggi le posizioni di Lenin e Trotskij trovano un forte riscontro nelle lotte latinoamericane dove si sono oggettivamente indeboliti i metodi foquisti e guerriglieri, che negli anni ’60 e ’70 hanno provocato sconfitte clamorose in tutto il continente e si fanno strada invece quelle concezioni socialiste che vedono nel proletariato e nei suoi metodi tradizionali di lotta lo strumento centrale per sconfiggere il capitalismo.
Si tratta dal nostro punto di vista di una conferma delle idee del marxismo e della dimostrazione di fino a che punto è maturato il processo rivoluzionario in America Latina. C’è di che essere ottimisti.