La quiete prima della tempesta
“Oggi suonano le campane, domani si mangeranno le mani.”
Robert Walpole
La macchina della propaganda era ben oliata e pronta ad entrare in funzione: i discorsi pronti da settimane, già scritti a Washington da gente sveglia, ci hanno raccontato come le elezioni in Iraq siano state un grande successo, un trionfo della democrazia, con milioni di iracheni generosamente in fila indiana a votare per la libertà, per la sconfitta della legge del terrore e la vittoria della democrazia, per un futuro luminoso del paese e altre simili amenità.a
In televisione abbiamo visto moltissime persone in preda ad ogni forma di giubilo possibile per aver finalmente la possibilità di votare per uno dei cento e passa partiti presenti sulle schede elettorali (così grandi da sembrare delle coperte da pic-nic). Quanta differenza rispetto ai tempi cupi di Saddam! Ci hanno mostrato degli anziani in lacrime di fronte alle telecamere perché per la prima volta in cinquant’anni avevano il diritto di decidere liberamente chi li avrebbe governati: “Prima votavamo ‘sì’ o ‘sì’: oggi votiamo per noi stessi!”
Fin qui, ed in questi termini, le versioni ufficiali. Riteniamo, tuttavia, che la realtà sia sostanzialmente differente. I commenti roboanti della stampa hanno parlato di un’enorme partecipazione al voto “verosimilmente attorno al 75%”. Questa è la prima menzogna. Nessuno può dirsi in grado di stimare l’affluenza alle urne, così come ci vorrà un po’ di tempo perché si conoscano i risultati. Quello che è certo, invece, è che in intere regioni del paese, principalmente quelle sunnite, nessuno o quasi è andato a votare. Di fatto, il clima di altissima tensione ed insicurezza ha fatto in modo che non si sia fatta campagna elettorale, se non nelle zone curde ed in alcune città del sud sciita (The Guardian, 31 gennaio 2005). L’atmosfera era gonfia di tensione dappertutto, le strade deserte in un silenzio irreale interrotto “solo” dai colpi sparsi e dalle esplosioni.
L’Election Day è stato segnato da una cinquantina di morti in tutto il paese. Se si pensava che questa giornata avrebbe dovuto essere il primo segno di un “ritorno alla normalità”, si direbbe si tratti di una normalità piuttosto particolare. Il problema della sicurezza era tale che molti gruppi sunniti, pur favorevoli alle elezioni, ne hanno chiesto a gran voce il rinvio. I loro appelli, tuttavia, sono stati regolarmente ignorati dagli americani e dal governo provvisorio iracheno, nel timore che se si fosse atteso oltre si sarebbero potute aprire delle crepe nel composito fronte sciita, che mantiene posizioni differenti al suo interno a proposito della collaborazione con gli USA.
In un articolo apparso il 25 gennaio su The Economist si leggeva: I militanti iracheni hanno dichiarato “guerra aperta” alla democrazia. Si teme che stiano preservando le energie, in questi giorni, per un offensiva importante nel week-end elettorale. Il senso di rivolta generalizzata, che non mostra segni di affievolimento, è solo una delle numerose, e serie, preoccupazioni sul futuro dell’Iraq.
Le preoccupazioni sono state puntualmente confermate. L’articolo concludeva: “Nonostante la calma apparente non c’è molto da essere ottimisti sul fatto che la rivolta contro l’occupazione si stia placando, né che si placherà senz’altro quando un nuovo governo iracheno sarà in carica.”
Sebbene i risultati ufficiali non si sapranno presto, chi ha vinto lo sanno già tutti. Mesi fa, mentre scriveva i discorsi trionfalistici per il giorno delle elezioni, la stessa gente sveglia ha anche “eletto” il vincitore, sempre a Washington. Le elezioni in Iraq sono state fortemente volute dagli americani non certo per dare il potere agli iracheni, ma per installare anche in quel paese un regime fantoccio, obbediente, che desse copertura legale all’occupazione illegale di uno stato teoricamente sovrano.
“Il pupillo di Washington”
E’ chiaro che non tutte le manifestazioni d’entusiasmo sono state create ad arte, anche se le elezioni nel loro complesso lo sono certamente state. Dopo decenni di sofferenza sotto la dittatura di Saddam Hussein e, soprattutto, dopo due anni di uno stato di guerra pressoché costante, di caos, di morte e distruzione, la maggior parte degli iracheni non chiede altro che un po’ di pace e tranquillità. A volte il desiderio di una vita normale da parte delle masse è così forte che confondono le illusioni con la realtà, tanto che, per un certo periodo, può ben darsi che le illusioni abbiano la meglio sulla realtà stessa. Allawi e la macchina della propaganda USA hanno spietatamente manipolato proprio queste speranze del popolo iracheno.
Lunedì 31 gennaio 2005, Jonathan Steele, inviato di The Guardian a Bassora ha scritto: “In un paese dalla disoccupazione immensa, queste forme tipiche di populismo [quello di Allawi che sembrerebbe stia facendo delle concessioni sociali] possono essere tanto importanti quanto la sua immagine di “uomo forte per un paese sicuro”, come recitava il suo slogan elettorale. Il premier è stato anche aiutato dal fatto che il suo nome fosse ben noto, in una competizione nella quale gli altri candidati non hanno avuto molte, se pure ne hanno avuta alcuna, possibilità di fare campagna elettorale”.
Nella misura in cui la grande maggioranza dei 111 partiti che si sono contesi i seggi elettorali sono stati costretti, per ragioni di sicurezza, a tener segreti fino al giorno stesso delle elezioni i nomi di tutti i loro candidati che non fossero particolarmente conosciuti, gli iracheni che sono andati a votare non avevano alcuna idea di chi potessero essere i 275 membri che andavano ad eleggere al parlamento e nei 18 consigli provinciali. Solo un candidato era ben noto e pubblicizzato: il premier in carica, Allawi, lautamente finanziato dagli americani e con il sostanziale monopolio dei media.
Scrive ancora Steele:“La copertura televisiva è lo strumento chiave. Il signor Allawi è stato onnipresente nei telegiornali, nelle pubblicità a pagamento e sul satellite. Non è chiaro che tipo di finanziamento, ufficiale o meno, e quanto, abbia ricevuto, ma egli è senza dubbio alcuno il pupillo di Washington”.
In un paese occupato da una nazione straniera e completamente dipendente dagli USA per ogni forma di finanziamento pubblico, il “pupillo di Washington” ha senz’altro delle ottime possibilità di spuntarla! Tuttavia, data la complicata struttura etnico-religiosa, non è escluso che Allawi possa non essere l’uomo di fronte, ma si limiti a tirare le fila da dietro la scena politica. Tuttavia non è questa la questione principale: il punto chiave è che le elezioni in Iraq sono state una gigantesca e spietata truffa ai danni del popolo iracheno. Gli iracheni che hanno votato l’hanno fatto perché vogliono pace, lavoro e case, vogliono governarsi da sé e liberarsi degli odiati occupanti stranieri. Non se ne libereranno tanto facilmente, perché chiunque sia formalmente nominato primo ministro dell’Iraq, tutto il potere sarà ancora a Washington.
Questa è democrazia?
“Dobbiamo dare una possibilità alla democrazia, ancorché imperfetta” recita la litania che si sta ripetendo di continuo, e che non regge minimamente. Democrazia significa che il popolo può liberamente decidere da chi sarà governato, quale sarà il proprio destino. Non ci sembra che questo sia compatibile con un paese occupato militarmente da potenze straniere. L’essenza dello stato resta quella di essere un insieme di corpi armati, e gli unici corpi ad essere armati in questo momento sono le truppe americane ed i loro alleati. Di quale potere potrà mai disporre un governo iracheno finché sarà seduto sulle baionette americane?
L’esercito e le forze dell’ordine sono due pilastri su cui si regge ogni governo. Pertanto, come si può sostenere che sia libero un governo che non li abbia a disposizione per difendersi o per far rispettare la propria volontà? Gli americani hanno più volte ribadito che terranno saldamente in mano la questione “sicurezza”: questo implica che il potere statale sarà nelle mani del governo americano, non certo di quello iracheno, nonostante tutti i milioni di voti che possa aver ottenuto.
Gli imperialisti USA hanno giocato fin dall’inizio sulle differenze religiose e di nazionalità che esistono da sempre in Iraq. Gli USA hanno scelto di basarsi su curdi e sciiti contro i sunniti, che erano il principale bacino di sostegno al regime di Saddam Hussein. Tuttavia, nonostante curdi e sciiti siano stati brutalmente perseguitati dal regime di Saddam, questo non implica che gli americani siano loro amici, e la storia ce lo ha dimostrato.
I governi britannico e statunitense, infatti, sono stati candidamente indifferenti alle sofferenze inflitte a curdi e sciiti nel passato. Ora li stanno usando strumentalmente, perché hanno bisogno di fomentare cinicamente la divisione del movimento di liberazione nazionale, in modo da rendere più agevole il controllo su tutti gli iracheni, separatamente, ma tutti: sciiti, sunniti e curdi allo stesso modo. E’ chiaro che molti sciiti hanno votato, spinti a farlo dai loro leader, per far sentire la loro voce dopo decenni di silenzio imposto, ma le loro speranze sono destinate ad essere disilluse.
Gli americani hanno voluto le elezioni per insediare un governo fantoccio che, come primo atto politico, gli chiedesse ufficialmente di rimanere. Tuttavia, la stragrande maggioranza di quelli che hanno votato domenica 30 gennaio la pensa diversamente. Nel commento di Robert Fisk, corrispondente di The Independent: “Nessuno di quelli che ho incontrato domenica crede minimamente che l’insurrezione si fermerà: al contrario molti credono che sarà ancora più violenta, mentre gli sciiti che incontravo ai seggi mi dicevano, come un sol uomo, che stavano votando anche per liberare l’Iraq dagli americani, non certo per legittimare la loro presenza”.
Questo è il bacio della morte per gli americani ed i loro complici iracheni. Il punto è che essi hanno dato al popolo iracheno l’illusione di poter gestire autonomamente il potere statale, ed a questo punto il popolo iracheno non si accontenterà più di una illusione. In particolare, saranno gli sciiti ad essere i meno soddisfatti da una sorta di protettorato permanente, perché di loro si sono serviti maggiormente gli americani per cercare d’indebolire la resistenza sannita. Senza dubbio gran parte degli sciiti aveva forti illusioni nelle elezioni e nei suoi risultati, illusioni sistematicamente incoraggiate da alcuni dei loro leader.
Robert Fisk riporta i ragionamenti di alcuni elettori sciiti: “Sono venuto a votare – dice un elettore del seggio di Jadriya – perchè il nostro marja [il supremo consiglio dei dotti sciiti, Ndt] ci ha detto che votare oggi è più importante che pregare o digiunare”; un anziano raggiante: “mi chiamo Abdul-Rudha Abu Mohamed e sono così felice perché oggi uno dei nostri sarà eletto presidente, e sarà amico di tutti gli iracheni, e noi avremo giustizia”. Tutto tranne la giustizia otterranno, purtroppo, gli iracheni da queste elezioni.
Chiarisce, infine, Jonathan Steele: “Anche se i partiti religiosi sciiti dovessero ottenere più seggi di Allawi, molto probabilmente daranno il loro sostegno ad Allawi in segno d’amicizia verso gli americani. Allawi è sciita, e tanto basta a renderlo ben accetto alle autorità religiose sciite. Nessuno dei partiti religiosi importanti ha voglia di mettersi contro gli americani, ed il più noto e radicale sciita, Moqtada al-Sadr, non si è candidato”.
Il potere dietro le quinte
Il nuovo governo dovrebbe scrivere una nuova costituzione. I 275 membri eletti all’assemblea nazionale dovrebbero, in teoria, farsene carico. In realtà, la faccenda sarà sbrigata dagli americani e, comunque, per un governo che non controlli né le forze armate, né la polizia, né le finanze, la costituzione non sarebbe altro che un pezzo di carta, smascherando così un’altra grande menzogna spudorata, un’altra tra le tante che contornano la questione irachena come una grande e densa nube tossica.
Sebbene, dunque, Allawi sarà il vero detentore del potere, dietro le quinte, sembrerebbe che il suo gruppo sarà battuto dall’Alleanza Irachena Unita (UIA), una coalizione sciita che vanta l’appoggio di Sistani (sebbene questi non l’abbia sostenuto pubblicamente). Per fugare ogni sospetto che la coalizione abbia in mente uno stato teocratico in stile iraniano, uno dei leader dell’UIA, Adnan Ali, ripeteva in un’intervista rilasciata al New York Times, apparsa lunedì 31 gennaio, che la loro intenzione sarebbe quella di un’amministrazione secolare nella quale i religiosi non avrebbero avuto alcun incarico ministeriale, nelle sue parole: “non ci saranno turbanti nel governo”.
Questo potrebbe creare immediatamente una frattura con un altro leader chiave della coalizione, Abdelaziz al-Hakim, un religioso che ad oggi sembrerebbe il più accreditato alla poltrona di primo ministro. Se vince la UIA è probabile, invece, che il posto vada ad un laico sciita, come ad esempio Adil Abdul Mahdi, l’attuale ministro delle finanze o Ahmed Chalabi, tempo fa il preferito dagli americani, ora un po’ fuori dalle loro grazie. Sembrerebbe tutto pronto, dunque, per una successione continua di crisi di governo. Le crescenti tensioni all’interno della società irachena si rifletteranno su un parlamento molto diviso su tutto, e su un governo perennemente in crisi. Su questa strada, evidentemente, non si vede alcuna stabilità.
Il frutto dell’attuale situazione non potrà certamente essere una democrazia sana. Allawi sta studiando da dittatore bonapartista, il cui dispotismo sarà camuffato dall’esistenza di un parlamento impotente ed un governo obbediente agli americani, tenuto in piedi dai loro soldi e dalle loro armi. E’ significativo, per quanto andiamo dicendo, che Allawi si sia candidato da solo, senza allearsi con i curdi o con gli sciiti, pur presenti nel suo attuale governo. Il suo obiettivo è quello di presentarsi come l’uomo forte, un Bonaparte, manovrando e tirando le fila degli intrighi tra le diverse fazioni religiose ed etniche, tenendosi ben saldo sulla forza delle truppe occupanti e distribuendo copiosamente il denaro dello zio d’oltreoceano per pagare e corrompere i suoi compari “democratici”. I dollari e le armi sono argomenti molto potenti! Ora, a suon di dollari ed armi si potrà certo formare qualche tipo di governo, ma per quanto tempo?
Il collante di tutto è il groviglio di promesse ed affari segreti. Dopo le elezioni, però, questo non terrà a lungo e tutte le contraddizioni verranno al pettine. L’assemblea avrà il compito di eleggere una presidenza di tre membri, che a sua volta sceglierà il primo ministro, che sarà quasi certamente Allawi o qualche altra marionetta americana. Tuttavia nel mercato delle vacche che comincia oggi, con tutta la complessità ed i sofismi di una corte bizantina, si apriranno nuove contraddizioni, che causeranno ulteriore, pericolosa, instabilità.
Nessuno sarà soddisfatto
Nel perseverare nel loro manovrio perverso di intrighi e di promesse, e nell’ansia di nascondere la natura truffaldina delle elezioni, gli americani hanno garantito di tutto a tutti, sollevando aspettative che non riusciranno a soddisfare. Gli sciiti sono il 60% della popolazione, pertanto chiederanno la maggioranza dei posti nel nuovo governo, così da irritare ancor più i sunniti, messi in disparte in questo processo elettorale, e far suonare tutta una serie di campanelli d’allarme ai curdi. Alla fine, nessuno sarà soddisfatto.
Chi scherza con la questione nazionale scherza sempre col fuoco, e gli USA lo stanno facendo abbondantemente in Iraq. Ad esempio, se nella costituzione non sarà previsto un sostanziale livello di autonomia per i curdi, nulla esclude che questi non possano sbattere la porte e tentare la secessione, aprendo così ad una serie infinita di rivendicazioni e scontri sanguinosi che potrebbero certamente portare alla frammentazione più totale dell’Iraq con le prevedibili tragiche conseguenze che abbiamo già visto in situazioni analoghe.
The Economist mette chiaramente in guardia contro questo rischio: “A meno che non si compiano grandi passi per fare in modo che [i sunniti] si sentano parte del gioco, la costituzione potrebbe gettare altra benzina sul fuoco, fino a scatenare una tremenda guerra civile. Potrebbe, inoltre, fare in modo che la situazione di caos continuo nel resto del paese spinga i curdi iracheni, che abitano le province del nord, relativamente tranquille, a chiedere la piena indipendenza dal resto del paese, il che, con tutta probabilità, scatenerebbe scontri sanguinosissimi per il controllo delle fonti petrolifere di Kirkuk. Cercare di mantenere il coperchio a tutte queste potenziali tensioni, e possibilmente senza tornare ai metodi repressive dell’epoca di Saddam, sarà la vera grande sfida del nuovo governo che gli iracheni, o almeno quelli che sono stati così coraggiosi da andare a votare, hanno scelto”.
A prescindere da elezioni e costituzioni, la questione cruciale nella situazione irachena nei prossimi mesi sarà lo sviluppo dell’insurrezione e la permanenza delle truppe occupanti sul suolo iracheno. A fronte di questi due punti nodali, tutto il resto passa in secondo piano, non si può non rilevare, infatti, come invece di rientrare, l’insurrezione si sia facendo più combattiva giorno dopo giorno.
Abbiamo già detto di come la rabbia delle masse tenderà a montare nei prossimi periodi, giacché nessuna delle promesse dispensate in “campagna elettorale” dagli americani sarà mantenuta. La delusione sarà maggiore proprio tra gli sciiti, che in maggior misura sono andati a votare ed ai quali è stato promesso di più. Allawi (con i soldi americani) ha cercato di comprarsi l’elettorato aumentando le pensioni, i salari agl’insegnanti, ai funzionari statali ed alla polizia. “Eleggetemi ed avrete il resto!” era il suo messaggio politico, un messaggio che non possiamo dubitare sia stato ben accolto da ampi settori di questo paese allo stremo, affamato, esangue dal prolungato conflitto. Purtroppo anche questa promessa non contiene un briciolo di realtà più del miraggio di un chiosco di bibite nel deserto.
L’Iraq soffre in questo momento una spaventosa disoccupazione, specialmente tra i giovani, pertanto non stupisce come le promesse di lavoro fatte da Allawi abbiano sortito una certa eco. Tuttavia non c’è alcun modo di dar seguito a queste promesse a meno che non si riesca a garantire un minimo di stabilità economica e sociale, cosa che, a sua volta, non può aver alcuna possibilità di riuscita a meno che le truppe occupanti non siano ritirate. Lo slogan di Allawi di cui riferivamo in precedenza è aria fritta: Allawi, il compariello degli americani, non può nemmeno sognarsi di riuscire a portare pace e sicurezza, così come il nuovo governo dovrà immediatamente affrontare nuove rivolte, caos ed instabilità diffusa.
C’è Al Qaeda dietro l’insurrezione?
I media occidentali stanno pompando il ruolo di Al Qaeda in Iraq. La feroce ironia della storia impone la considerazione del fatto che prima che arrivassero gli USA, in Iraq Al Qaeda non c’era. Tutte le sciocchezze su una sua possibile presenza prima della guerra sono da ascriversi alla pletora di disinformazione sparsa ad arte per cercare di far aumentare il sostegno dell’opinione pubblica alla guerra. Oggi, proprio a causa della criminale occupazione e della ferocia delle truppe occupanti, al Qaeda è ben installata in Iraq, e questo grazie a George W. Bush! Tuttavia non si tratta che di una minoranza del movimento di liberazione nazionale, molto probabilmente meno del 10%.
I giornali esagerano il ruolo di uomini come l’ormai tristemente noto Abu Musab al-Zarqawi, giordano, boia fanatico, alleato di Al Qaeda che ha recentemente dichiarato “guerra senza quartiere ai principi della democrazia ed a tutti quelli che cercheranno di metterli in pratica”, chiamando i fedeli sunniti all’attacco contro gli “infedeli elettori”. Di fatto, però, la stragrande maggioranza degli insorti in Iraq non sono affatto contrari alla democrazia e combattono per l’autodeterminazione de loro popolo, per liberarlo dall’odiato oppressore straniero e perché il popolo iracheno possa finalmente decidere da sé, liberamente, il proprio futuro.
I media occidentali, inoltre, enfatizzano il grado di divisione tra i diversi gruppi religiosi e nazionali in Iraq. Non c’è dubbio che, al momento, i sunniti, hanno pagato più di altri. Tuttavia, le recenti elezioni si sono svolte sulla base di un sistema elettorale proporzionale puro, utilizzando l’intero paese come collegio elettorale unico. Questo meccanismo non riflette il complesso mosaico di popolazioni che compone l’Iraq. I sunniti sono i grandi sconfitti di queste elezioni, essendo chiaro che saranno ampiamente sottorappresentati nella neoeletta assemblea. Questo darà ulteriore impulso all’insurrezione nelle aree sunnite, dove gli scontri sono già molto aspri a causa della spregiudicatezza e della brutalità delle forze di occupazione.
Robert Fisk ha intervistato una guardia private sunnita che riferiva di non aver votato (del resto nelle aree sunnite almeno i due terzi dei seggi elettorali non sono stati nemmeno aperti) dopo aver ponderato a lungo la questione: “Non potete venire qui e portarci ‘la democrazia’ così: questa è solo un’illusione di voi stranieri occidentali. Prima avevamo Saddam, un uomo spietato che ci trattava in maniera infame. Oggi, con le vostre elezioni, quello che avremo non sarà altro che tanti piccoli Saddam”.
Queste preoccupazioni sono piuttosto indicative di quello che ci si attende in Iraq dalla situazione post-elettorale. Il prossimo governo iracheno sarà sostanzialmente simile a quello uscente, più o meno la stessa coalizione di gruppi laici e religiosi, con una presenza dominante di ex esuli. Secondo la costituzione provvisoria, il primo ministro sceglie i componenti del governo, il quale sarà sottoposto, poi, ad un voto di fiducia da parte della neoeleletta assemblea. E’ facile prevedere che tutti i gruppi si daranno aspra battaglia per avere i propri interessi particolari meglio rappresentati nella nuova costituzione. Il grande ayatollah Ali al-Sistani, il più influente religioso sciita in Iraq, è stato talmente favorevole a queste elezioni da emanare una fatwa per obbligare i credenti sciiti ad andare a votare.
Come Sistani, certamente anche altri suoi correligionari stanno manovrando per aumentare il loro potere a spese degli altri gruppi religiosi. Tuttavia la questione del dominio sciita viene spesso esagerata, nella misura in cui il fatto che siano maggioritari nel paese, non implica automaticamente che vogliano imporre il loro dominio assoluto su tutto il paese. Quello che la maggior parte degli sciiti vogliono non è nient’altro che il diritto di essere riconosciuti cittadini come tutti gli altri in un Iraq nuovo, libero e democratico: un’aspirazione che condividono con tutti i sinceri democratici iracheni.
Al momento sembrerebbe che gli insorti siano principalmente sunniti, ma non sarà sempre così. Ovviamente gli sciiti vorrebbero avere un presidente sciita, dopo decenni di oppressione da parte della minoranza sunnita, prima con il re imposto dalla Gran Bretagna, poi con Saddam Hussein. Tuttavia, la comunità sciita non è un blocco monolitico, come non lo è nessuno dei gruppi nazionali o religiosi in Iraq. Come è ovvio, ci sono sciiti ricchi e sciiti poveri; così come ci sono sciiti più inclini al collaborazionismo, ma rappresentano un’esigua minoranza, giacché la maggioranza di loro detestano gli occupanti, tanto quanto i loro fratelli e sorelle sunniti.
Questo vuol dire che sorgeranno presto enormi contrasti nel campo sciita, anzi, in verità si sono già ampiamente manifestati. L’ala più radicale, infatti, che rappresenta la maggioranza degli sciiti più poveri ed emarginati, si unirà alla resistenza nel giro di pochi mesi, lottando fianco a fianco con gli insorti delle aree sunnite. Ancora Robert fisk scrive cose assolutamente sensate in proposito: “se queste elezioni produrranno una maggioranza parlamentare che porterà ad una divisione tra le forze sciite, i partiti maggiori passeranno all’opposizione, trasformando così l’insurrezione sunnita in una sollevazione generalizzata nazionale”.
Gli imperialisti cercano di fomentare le divisioni tra i diversi gruppi religiosi e nazionali, ma i sinceri democratici ed i rivoluzionari lotteranno per l’unità nella lotta e per un fronte comune antimperialista. L’unità militante della lotta di liberazione nazionale è la migliore garanzia per l’unità futura di un Iraq democratico ed indipendente.
L’insurrezione si estende
Qualche giorno fa, il presidente Bush ha avvertito gli americani che, nelle prossime settimane, l’insurrezione probabilmente si rafforzerà. E’ un paradosso, ma è talmente chiaro che solo chi non vorrà vederlo potrà non accorgersene. Le elezioni avrebbero dovuto dare maggiore legittimità al nuovo governo, dal momento che si ritiene che è sempre meglio un governo eletto che non uno nominato dagli americani. Tuttavia, nessun governo potrà mai avere alcuna credibilità finché un solo soldato straniero resterà sul suolo iracheno.
Queste elezioni non risolveranno un bel niente. La verità è che gli americani stanno sprofondando in un pantano da cui non riescono a tirarsi fuori. L’occupazione sta costando una catastrofe di soldi, non meno di un miliardo di dollari a settimana, ed il prezzo in vite umane, di ambo le parti, è sconcertante. Questo genera formidabili pressioni su Bush perché fissi un piano di ritiro ben definito, ma il nostro eroe è tra l’incudine ed il martello. Infatti, se si ritira troppo presto, il governo fantoccio cadrà come un castello di carte e quale che sia quello che ne prenderà il posto non sarà certo tanto sottomesso a Washington come questo. Se così fosse, gli americani avrebbero fatto tutto questo per niente. Agli occhi del mondo sarebbe una sconfitta tremenda, almeno quanto quella in Vietnam. Al contrario, però, se rimane, il prezzo in vite umane, ed in dollari, continuerebbe a crescere, trasformandosi presto in una vera e propria catastrofe economica e politica.
Dunque, resisi conto di essere in un bel guaio, gli imperialisti americani cercano disperatamente una via d’uscita. La loro preferita vedrebbe il governo fantoccio iracheno prendersi carico della situazione e difendersi da solo contro gli insorti. Tanto è vero che gli USA stanno spingendo al massimo sull’addestramento delle forze collaborazioniste irachene, iniziando il processo di cessione delle responsabilità sul campo alle loro unità neocostituite, così che i soldati USA possano starsene al sicuro nei loro accampamenti superprotetti, fuori dalle città, dove sperano di essere al riparo dagli attacchi. Purtroppo per loro, mettere in pratica tale strategia sarà ben più complicato che elaborarla.
Nessuno dubita, oggi, che l’insurrezione andrà avanti in un lungo crescendo, anche molto dopo le elezioni. Il mese prossimo, il presidente Bush dovrebbe chiedere al congresso USA altri 80 miliardi di dollari per le operazioni militari in Iraq ed Afghanistan. Il congresso ne ha già approvati ben 120 per l’Iraq e 60 per l’Afghanistan.
Anche The Economist ammette: “le nuove forze irachene, per quanto riformate e riaddestrate, sono ben lungi da poter far fronte agli insorti senza l’aiuto delle truppe britanniche, americane e degli altri alleati. Agli inizi di questo mese, il pentagono ha inviato in Iraq un generale in pensione, Gary Luck, per fare il punto della situazione delle operazioni militari. Le raccomandazioni prodotte dal generale si sono concentrate sull’accelerazione dell’addestramento delle forze irachene e sul corposo aumento del numero di istruttori americani da affiancare loro, pur rilevando che resta molto probabile che queste rimangano deboli, disorganizzate e suscettibili di diserzioni ed infiltrazioni”.
La correttezza dell’analisi del generale si è confermata sul campo, più volte. Giovani iracheni, affamati e disperati, si arruolano nella guardia nazionale per avere un tozzo di pane per le proprie famiglie (sono ben pagati, in fondo, se sopravvivono) ma, non appena si tratta di combattere, disertano in massa o passano dalla parte degli insorti. Una prova lampante di questo si è data a Mosul, nel nord curdo del paese, quando gli insorti presero la città e la tennero per alcuni giorni, mentre la guardia nazionale irachena si disfaceva in una fuga disordinata, costringendo gli americani a mandare i loro uomini a riprendere la città.
Il governo iracheno è debole, corrotto e senza speranza. In più, fa largo uso degli stessi metodi repressivi di Saddam. Nelle parole dell’Economist: “Preoccupa molto, inoltre, come molti uomini delle nuove forze di sicurezza irachene stiano ripercorrendo i metodi di tortura e gli abusi dei tempi di Saddam. Ne parla un rapporto pubblicato questa settimana da Human Rights Watch, un gruppo americano. Quanto scoperto, e riportato nel rapporto farà inorridire gli osservatori internazionali. Tuttavia, questo non dovrebbe danneggiare più di tanto le prospettive elettorali del primo ministro ad interim Iyad Allawi e la sua coalizione, la Lista Irachena, che ha incentrato tutta la sua campagna elttorale sui temi della sicurezza in termini piuttosto giustizialisti”.
Quanto sono illuminanti queste parole! Esse smascherano la vera natura del regime iracheno, che non è affatto quella sorridente della democrazia che la smielata propaganda ufficiale vorrebbe presentare al mondo, quanto piuttosto quella di un cinico e corrotto dispotismo, qualitativamente non diverso dalla vecchia dittatura che dovrebbe aver spazzato via. Il regime di Allawi mette insieme alcune delle peggiori caratteristiche del regime di Saddam Hussein con gli orrori dell’occupazione straniera e del tracollo generalizzato dal punto di vista economico, sociale e morale. Il regime di Allawi si trova in un vicolo drammaticamente cieco.
Il volto brutale dell’occupazione
Ieri sera (il 30 gennaio 2005) in un documentario intitolato Exit strategy trasmesso dalla BBC nel programma Panorama, John Simpson, un editorialista esperto di questioni internazionali, inviato a Baghdad, ha tracciato un’analisi preoccupante della linea americana in Iraq. Riferendosi a tutta la propaganda sulle elezioni, ha detto con tutta la franchezza di questo mondo: “Non ho ancora trovato un singolo iracheno che mi dicesse che adesso si sta meglio in Iraq, o che veda un bel futuro per il suo paese”.
Il quadro a tinte fosche delineato da Simpson vede i soldati americani immediatamente in pericolo di morte non appena lasciano i loro fortini e la continua espansione dell’insurrezione: la lotta di un popolo stremato, senza speranza e colmo di rabbia.
Secondo fonti della BBC, il numero di civili uccisi dalle truppe della coalizione e da quelle irachene supera di almeno il 60% il dato ascrivibile agli insorti. Il prezzo di morte pagato dai civili iracheni negli ultimi sei mesi, che Panorama ha riportato da fonti confidenziali e rapporti riservati è durissimo.
I civili uccisi dalle forze “ufficiali” ammontano ad oltre 2000, cui si sommano i 1200 uccisi dagli insorti. Il periodo cui questi dati si riferiscono va dal 1 luglio 2004 al 1 gennaio 2005 e comprende le vittime, a seguito di scontri armati, censite dagli ospedali pubblici iracheni. Queste cifre escludono i caduti fra gli insorti, quando accertati. I dati riportano 3274 civili iracheni uccisi e 12567 feriti. Di questi, il 60%, ossia 2041, sono stati uccisi dalle forze occupanti o da quelle irachene, i feriti ammontano a 8542, mentre negli attacchi degli insorti sono morte 1233 persone, e 4115 sono i feriti accertati.
Queste cifre sono solo delle approssimazioni, naturalmente, tuttavia quando John Simpson ha cercato di ottenere una conferma sulle stesse da parte delle autorità USA non ha ottenuto alcuna risposta. Panorama ha intervistato, inoltre, l’ambasciatore americano John Negroponte poco prima di entrare in possesso di quelle cifre. Negroponte aveva appena dichiarato: “A mio avviso il grosso delle vittime civili è dovuto alle autobomba. Vi sarete resi conto anche voi di quante ne piazzano in tutta la città di Baghdad e nei dintorni, e vi sarete resi conto anche che la stragrande maggioranza delle vittime che fanno sono passanti innocenti”.
Le stime ufficiose dei morti civili vanno da 10.000 fino a 100.000, cifra quest’ultima riportata dalla autorevole rivista medica internazionale Lancet. Nessuno può dire quanti siano veramente perché non esiste alcun registro ufficiale delle vittime irachene dall’inizio della guerra. Ovvio! La coalizione è naturalmente interessata solo a fornire dati sul massimo numero delle vittime tra i combattenti iracheni ed il minimo numero di americani uccisi. I morti civili (che da quelle parti di chiamano “danni collaterali”) interessano poco e niente, ancorché le autorità occupanti si sforzino continuamente di ripetere che cercano in tutti i modi di evitare che ci siano vittime civili, ma purtroppo, ogni tanto, “succede”.
A Simpson fu detto che la coalizione non teneva registri delle vittime civili, per le quali fu rimandato al ministero della sanità iracheno. In ogni caso, le cifre in possesso di questo ministero sono senz’altro a disposizione di tutti i membri dell’esecutivo. Il numero degli iracheni innocenti ammazzati in questa guerra lercia e barbara sono un segreto gelosamente custodito! A oggi la coalizione non ha ancora mai parlato di queste cifre.
Quando si vedono le sconcertanti foto di morte e distruzione a Falluja, l’ipocrisia delle assicurazioni di fare il massimo per evitare la morte dei civili di cui le forze della coalizione si sciacquano continuamente la bocca viene fuori in tutta la sua interezza. Nel loro attacco, le forze USA hanno mostrato la più cinica indifferenza nei riguardi della vita umana e delle cose, sparando cannonate su qualunque cosa si muovesse: hanno bombardato le case, raso al suolo quartieri interi, sparato ai profughi che cercavano di scappare mentre, ancora per un feroce paradosso, il grosso dei combattenti non era più in città già da molto tempo prima che il tanto ben pubblicizzato attacco fosse lanciato.
Nessuno saprà mai quanti cadaveri giacciono sepolti dalle macerie di Falluja, la stragrande maggioranza dei quali erano comunissimi uomini, donne e bambini. Un quarto di milione di persone sono state costrette ad abbandonare la loro città, ed anche adesso almeno il 70% della città è del tutto inagibile ai suoi ex abitanti. L’effetto di questa tremenda barbarie era del tutto prevedibile. Gli americani sostengono di aver ucciso 12.000 insorti. Forse, ma senz’altro il martirio di Falluja, ha generato altri dieci, venti, cento resistenti per ognuno dei combattenti uccisi. La masse irachene detestano la parola stessa America, ed anche quelli che in un primo momento erano stati favorevoli all’invasione oggi ne sono nemici giurati. Ecco quanto Bush ed il fido Blair hanno ottenuto dopo quasi due anni in Iraq!
L’America vede la sconfitta davanti a sé
Non c’è altro modo di venirne fuori se non quello di accelerare il ritiro complete delle forze occupanti dall’Iraq. I militari USA uccisi sono circa 1400, al momento. Molti di più sono i feriti e molti di più sono quelli che sono stati trattenuti in ferma prolungata lontano dalle loro case, ben oltre quanto la loro missione prevedesse inizialmente. Il numero degli effettivi è stato rapidamente portato dai circa 138.000 dell’inizio dell’anno a 150.000 in questi ultimi giorni, per garantire la sicurezza delle elezioni. Le speranze dei comandanti militari di riportare il numero alla cifra di inizio anno per giugno sembrano disperato ottimismo.
Un terzo degli effettivi USA in Iraq sono riservisti e soldati della guardia nazionale. Questo è un tremendo errore. Il responsabile delle risorse militari americane ha recentemente ammesso che molti tra questi si stanno rapidamente demoralizzando. Questo spiega le torture e gli abusi nei confronti dei prigionieri di Abu Ghraib ed i maltrattamenti sistematici di tutti gli iracheni con cui gli americani abbiano a che fare. Sia chiaro che ogni maltrattamento, ogni episodio di tortura, ogni casa sventrata da una bomba americana, ogni profugo sparato mentre cerca di mettersi al sicuro, è un chiodo in più per sigillare la bara dell’imperialismo USA in Iraq.
Gli USA sono la nazione più potente del mondo, ma sono stati sconfitti in Vietnam da guerriglieri scalzi, e lo saranno in Iraq da una immensa massa di insorti disorganizzati. Di fronte a questa orribile prospettiva, l’umore delle masse americane sta cambiando e cominciano a sentirsi tradite, e ingannate fin dall’inizio. Diceva Lincoln: puoi fregare qualcuno tutte le volte che vuoi, o puoi fregare tutti qualche volta, ma non puoi fregare tutti tutte le volte che vuoi.
Secondo recenti sondaggi, già oggi, il 70% degli americani ritiene che la guerra in Iraq abbia causato un numero inaccettabile di morti. Per la prima volta dall’inizio della guerra, una sostanziale maggioranza, il 56%, sostiene che la guerra non aveva senso dall’inizio, l’8% in più dall’estate scorsa. I falchi della casa bianca sentono la terra tremare sotto i loro piedi, stanno perdendo il sostegno popolare e, prima o poi, questo sentimento di profonda delusione si trasformerà in una nuova massiccia ondata di proteste che scuoterà l’America nel profondo.
La spiegazione della situazione è piuttosto semplice: dopo due anni passati a tentare di “convincere” gli iracheni della benedizione della civiltà e della democrazia occidentali a furia di ragionamenti convincenti quali i razzi e le granate, gli imperialisti hanno finito gli argomenti. Tenteranno di resistere un altro po’, mesi, forse anni, ma il risultato finale è già chiaro adesso.
Alla fine, l’imperialismo USA sarà costretto ad abbandonare l’Iraq con la coda tra le gambe, lasciandosi alle spalle una scia di sangue, di città distrutte, di vite spezzate ed un risentimento che non morirà mai, contro l’imperialismo. Questo getterà i semi per nuove rivolte, nuove lotte, finché non solo l’Iraq, ma tutto il medio oriente troverà la forza di liberarsi dal giogo dell’imperialismo e del suo mostruoso gemello, il capitalismo. Solo allora la gente comincerà a respirare liberamente.