Occupazione e resistenza
A poche settimane dalla “fine della guerra” proclamata da Bush, emerge uno scontro sempre più aspro fra le truppe di occupazione e la popolazione irachena.
La lista ufficiale delle vittime angloamericane parla di oltre 60 soldati uccisi dalla “fine” del conflitto. Dai rapporti emerge uno stillicidio di assalti, agguati, trappole che sta mettendo a dura prova i nervi degli occupanti.
Ecco alcuni brevi estratti dai rapporti del Dipartimento della difesa Usa e del Ministero della difesa britannico.
7 giugno: un soldato di 19 anni ucciso a Tikrit quando la stazione di polizia è stata colpita da un lanciagranate e da fuoco di armi leggere.
10 giugno: un soldato di 20 anni ucciso a Baghdad mentre riposava su un autobus colpito da una granata sparata da una casa vicina.
12 giugno un elicottero Apache abbattuto “apparentemente da fuoco ostile”.
E via di seguito.
Il morale delle truppe ovviamente ne risente, come spiega il Washington Post (20 giugno): “Ai soldati è proibito lasciare gli accantonamenti senza un’arma, un giubbotto antiproiettile e una missione specifica. (…) ‘Cosa ci facciamo qui? La guerra si suppone sia finita, ma ogni giorno veniamo a sapere di un altro soldato ucciso. Ne vale la pena? Saddam non è più al potere, gli abitanti vogliono che ce ne andiamo. Perché siamo ancora qui?’”
Gli americani rispondono con rastrellamenti e arresti di massa, uso indiscriminato delle armi e pugno di ferro; persino i loro fantocci iracheni come Ahmed Chalabi vengono messi da parte, e la convocazione della fantomatica assemblea costituente è stata rinviata a data da destinarsi.
4mila Usa soldati sono stati impiegati in un rastrellamento su vasta scala poco a nord di Baghdad, dove hanno arrestato 400 persone (oltre mille secondo la Croce rossa internazionale). A Balad sono stati uccisi almeno 27 iracheni, 82 combattenti sono stati uccisi la settimana prima vicino alla città di Rawah, presso il confine siriano. In realtà secondo molti testimoni le forze Usa hanno aperto deliberatamente il fuoco con carri armati ed elicotteri sulle case della cittadina.
L’ultimo episodio (24 giugno) riguarda sei soldati britannici uccisi vicino a Bassora. Attaccati da cecchini, si è detto in un primo momento. Ma successivamente è emerso come si sia trattato di un vero e proprio episodio di rivolta popolare di massa, con centinaia di persone che hanno circondato gli occupanti, cercando vendetta per gli abusi commessi nei giorni precedenti.
Iraq, preda di guerra
Non si tratta quindi di qualche “nostalgico” del regime di Saddam. Il fronte che si schiera contro l’occupazione è composito, e comprende sia organizzazioni sciite, sia ex militari dell’esercito iracheno e soprattutto settori sempre più ampi della popolazione oltraggiati dalla guerra e dall’occupazione.
Oltre 150mila truppe di occupazione non riescono a garantire il controllo del paese, e gli Usa cercano ora di coinvolgere altri 30mila soldati di altri paesi.
La lotta per la liberazione dell’Iraq è una lotta giusta, che merita la solidarietà e il sostegno militante del movimento operaio internazionale, a partire dai partiti comunisti.
Ma questo non significa che non dobbiamo distinguere tra le forze che si oppongono all’occupazione. Non tutti i partiti sono uguali, non tutti i programmi sono da sostenere, non tutti i metodi di lotta possono portare alla vittoria del popolo iracheno.
La storia ci insegna che in un paese occupato, da sempre, il peso maggiore dell’oppressione ricade sulle masse, sui lavoratori, sui contadini, sui poveri, mentre i settori privilegiati della popolazione sono costantemente spinti a cercare un compromesso con l’occupante per raccogliere le briciole della torta. Gli americani perseguono una politica che accanto alla repressione brutale comporterà una spinta alla disgregazione del paese, sia sul piano sociale che su quello istituzionale, secondo il vecchio motto del divide et impera.
Un primo passo in questa politica è stata la scelta di pagare i salari arretrati ai soldati dell’esercito iracheno, che avevano già tenuto numerose manifestazioni di protesta, e di proporre l’arruolamento di una forza di circa 40mila uomini in una nuova forza armata irachena, di fatto un esercito fantoccio paragonabile a quello che hanno messo in piedi in Afghanistan, o a quello che fu l’Esercito del Vietnam del sud, che fiancheggiava gli Usa nella lotta contro la guerriglia.
Un secondo passo riguarda il petrolio. È ovvio che le chiacchiere sulla distribuzione degli utili del petrolio alla popolazione sono solo fumo negli occhi.
E tuttavia è lampante il doppio ricatto: da un lato, tentare di incolpare la resistenza irachena che ha compiuto numerosi sabotaggi agli oleodotti in queste settimane: se non arrivano i soldi, diranno gli americani, la colpa non è nostra ma di questi estremisti e fanatici. Inoltre, seppure il controllo del petrolio rimarrà saldamente in mani americane o dei loro fedeli alleati, destinare qualche briciola dei proventi petroliferi a programmi di “assistenza” permetterebbe di creare una rete di clientelismo e corruzione direttamente legata all’amministrazione americana.
Al vertice del World Economic Forum tenutosi in Giordania il 21-22 giugno il governatore Paul Bremer ha parlato chiaro: privatizzazioni a tappeto, abolizione dei sussidi, leggi antitrust, apertura del paese agli investimenti stranieri. L’Iraq è preda di guerra, nel sud si affacciano gli sceicchi del Kuwait, ai quali la voce popolare attribuisce la colpa di aver armato e alimentato almeno una parte delle bande di saccheggiatori. Le ditte del Kuwait si sono aggiudicate i contratti per la ricostruzione degli oleodotti del sud del paese, gli operai iracheni sono stati esclusi mentre vengono assoldati immigrati filippini o del sudest asiatico. Ora si parla di spartire il porto meridionale di Umm Qasr (porta fondamentale sul Golfo Persico), con il Kuwait che vorrebbe occuparne una parte.
Nell’amministrazione americana si parla ormai apertamente di cinque o dieci anni di occupazione; secondo l’agenzia di informazioni Debka-net, gli Usa stanno progettando due enormi centri per i loro servizi segreti, uno a Baghdad e l’altro a Mosul, dove installare ogni possibile sistema di spionaggio elettronico, e dove a regime lavorerebbero circa 4mila “specialisti”. Il primo di questi complessi servirebbe per lo spionaggio interno, mentre il secondo sarebbe prevalentemente rivolto a sorvegliare le frontiere e i paesi vicini, in primo luogo l’Iran.
Lotta di liberazione, lotta di classe
Un’intervista comparsa sul Manifesto del 22 giugno getta una luce interessante sul ruolo del Partito comunista iracheno. A Nassiriya, culla del movimento comunista nel paese e città natale del fondatore del Pc, le truppe Usa sostennero quello che fu probabilmente lo scontro più duro della guerra. Un notabile cittadino dichiara al Manifesto: “Il partito comunista dovrebbe prendere in mano la situazione, prendere le armi e bloccare questi ladri, invece stanno lì, seduti nella sede del partito. Cosa aspettano?” E all’intervistatrice, che obietta che “se tutti i partiti sono armati, allora potrebbe scoppiare la guerra civile”, risponde severamente: “Non sto parlando di tutti i partiti, sto parlando del partito comunista, se lancia una parola d’ordine tutti lo seguono. Qui nessuno segue gli islamisti”.
Seppure Nassiriya sia una realtà più avanzata, queste parole dimostrano le potenzialità per un movimento rivoluzionario di massa, che basandosi sulla forte tradizione comunista che nonostante tutto continua nel paese, potrebbe rapidamente candidarsi a riempire il vuoto politico e porsi in posizione dirigente nel movimento di lotta contro l’occupazione.
Questo sarebbe interamente possibile se la parola d’ordine della cacciata degli occupanti fosse accompagnata da un programma generale di rivoluzione sociale.
L’Iraq agli iracheni non significa solo liberarsi dell’occupazione, ma anche che i lavoratori e i contadini iracheni possano prendere pieno possesso delle ricchezze fondamentali del paese, a partire dal petrolio e dall’acqua, l’esproprio delle principali risorse economiche private, l’epurazione di una burocrazia statale corrotta e avida che ha saccheggiato il paese quando era al potere e che domani non esiterà a porsi al servizio dei nuovi padroni; significa una prospettiva rivoluzionaria che vada al di là dei confini (largamente artificiali) dell’Iraq, facendo della lotta di liberazione irachena un perno per la lotta di tutto il mondo arabo contro la penetrazione imperialista, contro i regimi arabi succubi dell’imperialismo, contro il fondamentalismo e per una federazione socialista dell’intero Medio Oriente, all’interno della quale possano trovare soluzione i problemi storici delle nazionalità oppresse, la questione palestinese, la questione curda, ecc.
Purtroppo il gruppo dirigente del Pc iracheno sembra molto lontano da questa prospettiva. “Il segretario Said Sahib el Hossuna, è rientrato dalla Siria dove ha passato il suo esilio. C’è molta soddisfazione per la ripresa dell’attività politica, anche se con il rammarico di essere sotto occupazione. ‘Tutti sono contro l’occupazione, ma l’occupazione è un fatto, quando avremo un governo potremo negoziare pacificamente la loro partenza” (il Manifesto, 22 giugno).
Qualsiasi “governo” si formi in Iraq, sarà un governo fantoccio come il governo Karzai in Afghanistan. Qualsiasi forza che vi partecipi si schiererà di fatto contro la lotta per la liberazione dell’Iraq.
Non il negoziato, ma solo una aspra lotta di popolo può liberare l’Iraq. E quanto più sarà audace e radicale, quanto più avrà un carattere di massa, quanto più vedrà al centro i lavoratori, i contadini, le masse più oppresse, tanto più questa lotta dividerà la stessa popolazione irachena su linee di classe. Il nostro compito di comunisti e di internazionalisti è contribuire in primo luogo alla chiarificazione politica e sostenere quelle forze che possono contribuire all’affermarsi della prospettiva rivoluzionaria nella lotta per la liberazione dell’Iraq.