Leggendo le roboanti quanto ipocrite dichiarazioni di Bush alla conferenza di Annapolis sulla necessità di creare uno Stato palestinese, sorge spontaneo chiedersi quali siano le vere ragioni che hanno spinto proprio ora l’amministrazione americana a fare questa scelta. Naturalmente, come scritto su diversi giornali, le opportunità dello “spot” elettorale in vista della scadenza del mandato presidenziale hanno una loro rilevanza. Tuttavia è evidente che vi sono altre e più profonde cause che inducono gli Stati Uniti a mettere le mani nel ginepraio palestinese dopo che per anni si sono limitati ad appoggiare incondizionatamente la brutale repressione dell’imperialismo israeliano.
L’obiettivo principale di questa conferenza è cercare di porre rimedio ai disastri che la politica estera americana ha generato nella regione. Dall’Afghanistan all’Iraq, passando per il Libano e l’Iran, è evidente che ad oggi nessuna delle zone chiave del Medio Oriente può dirsi saldamente sotto il controllo statunitense. Da qui il tentativo di imporvi la pax americana partendo da uno dei suoi snodi chiave, la Palestina appunto.
Rispetto alle ormai numerose (ben sette!) quanto inutili conferenze di pace, quella di Annapolis ha presentato un elemento di novità: la presenza di 16 dei 22 paesi appartenenti alla Lega Araba. Questo fattore, lungi dall’essere un elemento di maggior garanzia di successo della “pace”, è al contrario la dimostrazione di quale polveriera sia oggi il Medio Oriente. Infatti il ribollire ed il fermento delle masse arabe sta a tal punto destabilizzando i regimi reazionari della zona da indurli persino a sedersi al tavolo con Israele pur di garantirsi la stabilità. In questo stesso senso si spiega la presenza della Siria ad Annapolis, nonostante la conferenze avesse il chiaro intento di rinsaldare l’alleanza tra Stati Uniti e paesi arabi “moderati” in chiave anti Iran. La Siria ha legami strategici con il paese di Ahmadinejad. Allo stesso tempo è da sempre considerata l’anello “debole” del cosiddetto asse del male. I suoi importanti legami con paesi come la Turchia (da sempre vicina ad Israele e Usa) la portano ad approcci più prudenti. Inoltre la sempre più instabile situazione libanese, nonché l’irrisolta disputa del ‘67 sulle alture del Golan, hanno indotto Damasco a partecipare al meeting con l’obiettivo di aprire una trattativa in merito.
L’ipocrisia degli impegni di Annapolis
“Un accordo entro il 2008”: questo è l’impegno che Bush, Olmert ed Abu Mazen hanno preso sulla carta. Basta però ascoltare le dichiarazioni dei primi due per capire che non si ha nessuna intenzione di risolvere i problemi del popolo palestinese, anzi li si vuole pure peggiorare. Infatti il presidente americano ha affermato che gli Stati Uniti sono “impegnati a garantire la sicurezza di Israele come stato ebraico e patria degli ebrei”. Il che significa non solo avallare sempre e comunque la criminale repressione dell’imperialismo israeliano sul popolo palestinese, ma anche sancire il divieto per i 4,4 milioni di profughi palestinesi del 1948 di far ritorno nelle proprie case situate all’interno dello Stato di Israele. Olmert ha se possibile rincarato la dose citando come guida per il processo di pace la lettera a Sharon del 14 aprile 2004 ove Bush dava il suo consenso all’annessione di parti della Cisgiordania palestinese ad Israele. Del resto la politica attuata dal governo israeliano proprio in questi mesi dimostra quali siano le sue vere intenzioni. È di solo qualche settimana fa la proclamazione di Gaza come “entità ostile”. Il muro della vergogna sta proseguendo la sua costruzione invadendo ed occupando ben il 46% della Cisgiordania. Sono sorti 40 nuovi check point in due mesi. Da poco è ripresa la costruzione dell’area “E1”, un progetto che sancisce la definitiva annessione di Gerusalemme Est ad Israele e la confisca delle terre a ridosso di Maale Adumim tagliando in due la Cisgiordania. Alla faccia del futuro Stato palestinese!
Di tutta la conferenza di Annapolis l’aspetto più grottesco è il tentativo di ridare legittimità ed autorità come interlocutore ad Abu Mazen, escludendo allo stesso tempo Hamas che ad oggi controlla militarmente e politicamente tutta la striscia di Gaza. Dopo mesi nei quali Israele, rifiutando l’esito delle elezioni palestinesi che hanno visto vincere i fondamentalisti, ha imposto assieme ad Usa e Unione Europea un blocco economico che sta soffocando l’intero popolo palestinese. Dopo aver lasciato per mesi che Fatah ed Hamas si scontrassero all’ultimo sangue nella più classica delle politiche divide et impera. Oggi Olmert, travolto dagli scandali e dal fallimento della guerra in libano nel 2006, riscopre Abu Mazen come burattino di cui aver bisogno. Scopre di aver bisogno di un fantomatico processo di pace per tentar di dipanare i dissidi interni al proprio governo e alla società israeliana. In cambio il presidente dell’Anp si sta dimostrando più realista del re, dichiarando guerra ad Hamas, affermando che eliminerà il fondamentalismo da Gaza (ma non dice come), facendo arrestare decine di manifestanti che nei Territori occupati protestano contro la farsa di Annapolis e disarmando le milizie di Fatah. L’opportunismo e la corruzione dell’Anp e il fondamentalismo reazionario di Hamas hanno creato una situazione di guerra civile in cui “i due campi trasformano i civili in ostaggi e li condannano a morte negli scontri in strada, sacrificando la causa palestinese sull’altare della loro rivalità” (Haaretz, 17 giugno).
La crisi colpisce Palestina e Israele
Le condizioni del popolo palestinese sono a dir poco disastrose a causa dello stritolamento economico compiuto da Israele. Il reddito lordo procapite è sceso in cinque anni del 23%. Il tasso di povertà comprende il 30,8% delle famiglie quando nel 2000 era al 10,4%. Se poi ci soffermiamo su Gaza, vediamo che l’87% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Il 75% delle fabbriche è stato chiuso mentre la disoccupazione ha raggiunto il 35%.
Dall’altra parte del confine vi è una classe lavoratrice che si sta impoverendo in tempi davvero rapidi. La povertà in Israele è tale da collocare il paese al 62° posto nella classifica di quelli con maggior disuguaglianza. Diciotto famiglie controllano il 75% dell’economia mentre quasi un quarto della popolazione vive in condizioni di povertà. Il 46% degli israeliani non riesce a coprire le spese mensili per la casa, il 16% non compra le medicine necessarie, il 45% non ricorre alle cure dentistiche. Un israeliano su due non ha un’assicurazione sanitaria perché non può permettersela.
Lenin diceva che la questione nazionale è innanzitutto una questione di pane. La crisi economica colpisce duramente sia le masse israeliane che quelle palestinesi. Una risposta efficace può arrivare solo da una lotta comune dei lavoratori delle due nazionalità.
“Due popoli, due Stati”?
Sia Bush che Olmert alla conferenza di Annapolis si sono affrettati a brandire lo slogan dei “due popoli, due Stati”. Tuttavia basta guardare la realtà dei fatti per capire cosa intenda Israele con questo termine: uno Stato palestinese frammentato e con un governo fantoccio sotto il proprio diretto controllo. D’altronde è evidente che l’economia palestinese è talmente dipendente e subordinata a quella israeliana da rendere impossibile su basi capitalistiche la creazione di una economia ed uno Stato palestinese “libero ed indipendente”. La riprova l’abbiamo dall’esperienza diretta. L’Anp non ha risolto alcun problema delle masse palestinesi: la povertà è aumentata drammaticamente, si sono applicate politiche di taglio allo stato sociale e di privatizzazioni, mentre Gaza è diventata un enorme campo di concentramento. Esistono nei fatti due amministrazioni separate in Cisgiordania e a Gaza, dove il fondamentalismo islamico ha raggiunto consensi mai visti primi tra i palestinesi.
Una reale indipendenza significherebbe per l’imperialismo israeliano rinunciare a tutti i privilegi che l’attuale situazione gli concede. Mercato dell’acqua, mano d’opera palestinese a basso costo, enormi speculazioni edilizie nelle colonie, ingenti finanziamenti militari da parte Usa. Non ultimo, la possibilità di usare la questione del “nemico esterno” come strumento per distrarre le masse israeliane dai veri responsabili delle proprie miserie.
Per questo il movimento dei lavoratori a livello internazionale deve sostenere la causa del popolo palestinese. Deve essere riconosciuto a questo popolo martoriato il diritto all’autodeterminazione. Sessanta anni di occupazione dimostrano che su basi capitaliste ciò è impossibile. Solo l’unità rivoluzionaria della classe lavoratrice araba ed israeliana, l’abbattimento del capitalismo in Israele come in Palestina e nel resto del mondo arabo e la costituzione di una Federazione socialista in Medio Oriente potrà rendere la giusta libertà a questa popolazione.