Palestina
Settembre è un mese denso di tragedie per i palestinesi. Attorniato da un muro di poliziotti alla fine di settembre del 2000 il futuro primo ministro Ariel Sharon si esibì nella provocatoria “passeggiata” sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme. Una provocazione studiata ad arte. La repressione delle proteste degli arabi israeliani lasciò sul terreno 13 morti e innescò l’esplosione della seconda Intifada.Tre anni di massacri e di repressione non hanno domato la volontà di resistere del popolo palestinese. La reazione palestinese alla provocazione di Sharon era legata alla memoria di un altro evento: il massacro nei campi profughi libanesi di Sabra e Chatila del settembre 1982. Tre giorni dopo la fuga dei caschi blu da Beirut Ovest, dal 16 al 18 settembre di 21 anni fa l’allora ministro della difesa Sharon si godeva dall’alto di un edificio di sette piani, a 200 metri dal campo di Chatila, lo spettacolo della “caccia al palestinese” scatenata dai falangisti di Hadad e Gemayel, organizzati ed assistiti dall’esercito israeliano. Oltre tremila palestinesi, uomini, donne, bambini, vecchi, quasi del tutto inermi dopo l’uscita dal campo delle milizie dell’Olp di Arafat, tentarono una disperata resistenza e vennero massacrati, umiliati, in un’orgia di violenza bestiale.
Settembre è anche il mese passato alla storia palestinese come “Settembre nero” e ricorda ai palestinesi il tradimento dei corrotti regimi borghesi arabi, “amici” per i quali le sofferenze di un popolo non sono altro che moneta di scambio ai tavoli di trattativa internazionali. Il 17 settembre del 1970 re Hussein di Giordania, spaventato dalla rivoluzione incipiente che minacciava di rovesciarlo, con la scusa della lotta al terrorismo (dopo quattro dirottamenti aerei conclusi peraltro senza vittime) fece bombardare da truppe beduine capeggiate dal signore feudale Habes al-Majali i campi palestinesi e la stessa capitale Amman. Duri scontri si protrassero per molti giorni, ma la resistenza palestinese venne spezzata. Il bilancio dei massacri (che colpirono anche la popolazione di Amman sospettata di simpatie per i palestinesi) fu di 4.600 morti e 10.000 feriti.
A dieci anni dagli accordi di Oslo
Da dieci anni, dalla firma degli accordi di Oslo del 1993, tutti i lavoratori del medio oriente, poco importa se palestinesi, arabi o israeliani, sono affratellati dall’inganno a cui sono stati sottoposti dalle loro classi dirigenti.
I palestinesi hanno visto infrangersi la promessa di uno stato indipendente e della pace. La realtà con cui hanno dovuto fare i conti è quella di una rinnovata oppressione; al volto noto del gendarme israeliano si è affiancato quello nuovo del gendarme palestinese cui è stato affidato l’incarico di assicurare la sottomissione delle masse sempre più impoverite ed oppresse alle decisioni prese sopra le loro teste da dirigenti corrotti e traditori.
La ferocia dell’esercito di occupazione israeliano e gli errori della sinistra palestinese, incapace di prendere una posizione indipendente da Arafat, hanno reso quasi impossibile lo sviluppo di una critica alla politica di Arafat da un punto di vista di classe. Il grande intellettuale di origine palestinese Edward Said, recentemente scomparso, era stata una delle poche voci fuori dal coro dei comodi “amici” dei palestinesi a denunciare costantemente il carattere corrotto e collaborazionista del regime di Arafat, fino ad arrivare a definirlo provocatoriamente “il Petain palestinese” (tracciando un parallelo tra l’Autorità nazionale palestinese di Arafat e il regime francese di Vichy collaborazionista con gli occupanti nazisti). A differenza di Petain, Arafat però è sempre stato molto abile ad alternare alla collaborazione momenti in cui cerca l’appoggio delle masse, sfruttando a proprio vantaggio la brutalità dell’oppressione israeliana per trovare nei momenti di crisi l’appoggio popolare e candidarsi così ad unico arbitro nelle “trattative di pace” .
Dieci anni di questa politica hanno portato al disastro. È indispensabile denunciare il ruolo di Arafat e della borghesia palestinese e lottare perché emerga una politica indipendente della classe lavoratrice in Palestina e nei paesi arabi.
Arafat è il principale responsabile della crescita dell’influenza di Hamas, che fin dal primo giorno si è opposta agli accordi di Oslo e rifiuta di partecipare ai governi dell’Anp “finché l’occupazione israeliana continua”. Il fatto che una gran parte delle forze armate dell’Autorità fossero fuggite senza combattere di fronte all’avanzata dei soldati israeliani durante l’operazione “muraglia di difesa” ne ha minato severamente la credibilità fra la popolazione palestinese.
La forza di Hamas è dovuta al contrario alla determinazione dei suoi guerriglieri, ma soprattutto alla capillare rete di welfare (scuole, ospedali, mense, ecc.) costruita inizialmente con il placet delle truppe occupanti e poi potenziata dal 1993, grazie a fondi provenienti da un settore della borghesia islamica all’estero. La rete di assistenza di Hamas riempie la voragine lasciata dall’Autorità, abile a privatizzare anche quello che non si è ancora costruito e foraggiare una ristretta cricca di capitalisti, ma inetta nell’affrontare i problemi della maggioranza della popolazione che vive con meno di due dollari al giorno. La prospettiva di Hamas è quella di una guerra santa permanente fino alla cacciata degli israeliani dal suolo della Palestina, una logica speculare a quella della destra religiosa ebraica. La loro tattica è affidata alle missioni suicide e alla resistenza armata. I militanti di Hamas hanno rappresentato con i Tanzim di Marwan Bargouthi (ora in carcere in Israele) il cuore della resistenza all’operazione “muraglia di difesa” di Sharon.
Tra gli oltre sei milioni di israeliani la maggior parte considera Israele la propria unica patria e non ha altro posto dove andare. La psicologia di popolo assediato viene costantemente alimentata dalla classe dirigente israeliana e trova nelle posizioni di Hamas una comoda conferma. La tattica degli attacchi suicidi inoltre non fa che rafforzare le correnti più reazionarie nella società israeliana, isolando chi, come il movimento dei militari riservisti refusenik (a cui si sono aggiunti recentemente 27 ufficiali dell’aviazione) prende posizione contro il mantenimento dell’occupazione.
Fallimento della Road Map
La tregua di 3 mesi dichiarata il 29 giugno è durata 7 settimane (20 agosto): poco importa chi l’abbia rotta. La ripresa degli attacchi suicidi e delle esecuzioni mirate da parte degli israeliani (per esempio il tentativo fallito di assassinare con un missile il leader spirituale di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin) hanno portato alle dimissioni del premier imposto all’Anp dagli americani, Abu Mazen. Sul fronte israeliano, Sharon ha dimostrato di non aver mai accantonato la prospettiva di tornare ad imporre il controllo diretto israeliano su Gaza e la Cisgiordania senza avere l’intralcio dell’Anp con cui mediare. Per il momento le pressioni di Washington hanno frenato Sharon, ma la classe dirigente israeliana non si è mai contraddistinta per una docile accettazione di cosa sarebbe meglio per il suo ingombrante protettore, conscia anche del fatto di essere uno dei pochi punti d’appoggio reali su cui Bush può contare in Medio oriente.
Questi sviluppi rappresentano un colpo mortale alla Road Map promossa da Bush e dall’imperialismo europeo. Il nuovo premier Ahmed Qureia (ovvero Abu Alaa) è un uomo di Arafat. L’imperialismo si trova di nuovo al punto di partenza, ma ciò vale anche per le masse palestinesi e per i lavoratori israeliani.
Tutta l’esperienza di questi dieci anni dimostra che non esiste soluzione possibile per la sofferenza del popolo palestinese compatibile con gli interessi dell’imperialismo e della borghesia araba ed israeliana. Il peso della crisi capitalista spingerà inevitabilmente nel prossimo periodo i lavoratori israeliani ad entrare in conflitto con i loro padroni. Già negli ultimi mesi uno sciopero generale contro le politiche di lacrime e sangue di Sharon è stato evitato per un soffio, mentre i dipendenti pubblici reagiscono per la prima volta ai licenziamenti previsti dal governo. Se una rottura della pace sociale in Israele non è ancora avvenuta è solo per il vicolo cieco in cui si è ficcata la resistenza palestinese con la tattica terrorista individuale.
Unica prospettiva per uscire da questo stallo sarà quella di coalizzare i lavoratori della regione in una lotta comune contro l’oppressione capitalista per la costruzione di una federazione socialista del medio oriente con il riconoscimento del diritto all’esistenza e all’autodeterminazione di tutti i popoli.