Il doppio terremoto che ha sconvolto il sistema politico israeliano e quello che minaccia l’Autorità nazionale palestinese ha cause profonde.
Si tratta di sviluppi fondamentali per tutto il Medio oriente. Il logoramento del “fronte interno” è la causa profonda del terremoto che ha sconvolto il panorama politico israeliano. L’anello debole della catena è il Partito laburista: indebolito e screditato da anni di subalternità ai governi della destra sionista, il Likud. La collaborazione di classe ha rischiato di spezzare le reni al partito che per decenni ha garantito il controllo della classe lavoratrice e delle organizzazioni sindacali alla classe dominante israeliana.
L’ascesa di Amir Peretz
In poche settimane è esplosa la crisi della vecchia direzione laburista invischiata al governo con lo stesso Sharon. Contro Shimon Peres ha trionfato la candidatura del leader della centrale sindacale Histadrut Amir Peretz nelle elezioni per la leadership del Partito laburista, risvegliando in un vasto settore della classe lavoratrice israeliana la speranza di una svolta politica significativa.
Chi è Amir Peretz? Dal 1995 al vertice della confederazione sindacale Histadrut, Peretz non è l’ultimo arrivato sulla scena politica, anche se è estraneo al blocco politicamente dominante tradizionale della società israeliana per le sue origini di ebreo sefardita ed i suoi umili natali in Marocco. Alla fine degli anni ‘90 ha supervisionato l’opera di privatizzazione delle attività economiche e partecipazioni che erano concentrate nelle mani del sindacato, sovrintendendo ad una vera e propria svendita delle imprese controllate dall’Histadrut.
Proprio il voto della parte reietta - quella maggioranza di origine sefardita della popolazione israeliana - ha spinto Peretz alla vittoria, avendo tutto il malessere accumulato finalmente trovato un canale praticabile per esprimersi.
Peretz nutre ambizioni personali. Nel 1999 aveva lasciato il Partito laburista per dare vita ad una nuova formazione politica “Am Ehad” (Una Nazione) che gli aveva garantito un posto alla Knesset per due legislature durante le quali si è guadagnato una fama da “oppositore”, ma le dimensioni modeste del suo partito lo hanno portato recentemente a confluire di nuovo nel Partito laburista per aumentare le possibilità di raggiungere il premierato.
La grande borghesia di estrazione askhenazita guarda Peretz con un misto di timore e di arrogante disprezzo. Temono giustamente che la rottura della solidarietà al vertice del sistema politico possa preludere ad un’intensificarsi delle pressioni dei lavoratori sugli apparati sindacali. Temono soprattutto il legame tra Peretz e l’apparato sindacale.
La minaccia di uscire dall’Esecutivo di Sharon, il frequente riferimento di Peretz alla questione sociale (alzare il salario minimo a 1000 dollari, riportare l’età pensionabile a 60-65 anni, la promessa di eliminare la povertà infantile entro due anni, ecc.) sta producendo una forte polarizzazione su linee di classe per troppo tempo compressa, mettendo in moto il meccanismo della lotta di classe a lungo represso nella società israeliana. Questi sviluppi dimostrano quanto abbiamo sempre sostenuto sulle pagine di questo giornale, cioè che sarebbe stato un errore caratterizzare la società israeliana come un “unico blocco reazionario”.
Se sotto la direzione di Peretz il Partito laburista continuerà a mantenere un profilo indipendente, questo immancabilmente porterà a rendere più attrattivo il partito per una fascia di giovani e di lavoratori: questo vale - in assenza di valide alternative - persino per il Partito laburista israeliano!
Spaccatura nel Likud
La vittoria di Peretz ha preceduto di pochi giorni l’annuncio della scissione del partito che da 30 anni rappresenta la destra israeliana, il Likud. Lo ha deciso Sharon stesso, che - ritenendo alto il rischio di perdere il controllo del partito a favore della destra dell’ex premier Bibi Nethanyahu - ha annunciato la formazione di un nuovo partito, “Kadima” (Avanti!), la parola ebraica impiegata nel gergo militare per ordinare la carica alle truppe. “Kadima” ha raccolto il sostegno immediato di una settantina di sindaci (anche laburisti) e della destra laburista capitanata da Shimon Peres che dopo 60 anni di militanza si è dimesso dal partito per aderire alla nuova formazione.
Pur godendo la nuova formazione del premier Sharon del favore dei sondaggi, la crescente polarizzazione sociale e politica della società israeliana potrebbe favorire l’ascesa del Partito laburista di Peretz, soprattutto se saprà dar voce alle aspettative di una svolta politica da parte dei lavoratori, differenziarsi dal clima asfissiante di “solidarietà nazionale” che pervade la politica israeliana degli ultimi anni.
Il ritiro da Gaza e la strategia di Sharon
Contrariamente al ritratto di Sharon saggio uomo di Stato anche se dal dubbio passato, il massacratore di Sabra e Chatila non è divenuto un paladino della pace, secondo le stucchevoli versioni da rotocalco che instancabilmente ci vengono propinate. L’intenzione di Sharon è perseguire con altri mezzi la stessa politica di sempre dello Stato isreaeliano, improntata all’espansionismo, all’unilateralismo e ad imporre il fatto compiuto.
“Ma il ritiro da Gaza non rappresenta una novità?” Obietterà qualcuno. Certamente, ma chi legge il ritiro unilaterale israeliano da Gaza e lo sgombero forzato dei coloni oltranzisti (che pure ha comportato tensioni forti anche all’interno dello stesso esercito dove la destra religiosa è in crescita) come un primo passo verso la pace, si sbaglia di grosso.
Non si tratta di fare un processo alle intenzioni di Sharon (che ad ogni modo non sono per nulla segrete, né egli le ha mai nascoste), ma solo di valutare tutti i fatti per quello che valgono realmente, con la stessa misura.
Il ritiro da Gaza è stato preceduto, accompagnato e seguìto da una politica di potenziamento degli insediamenti illegali dei coloni in Cisgiordania e dalla accelerazione delle opere di costruzione del mostruoso muro che separerà Gerusalemme Est da Betlemme e Ramallah e dal resto della Cisgiordania.
Secondo quanto ammette Brent Scowcroft, consigliere per la sicurezza nazionale di Bush: “Per Sharon questa non è la prima mossa, ma l’ultima. Esce da Gaza perché non può schierare metà del suo esercito a protezione di 8mila coloni. Una volta fuori avrà un Israele più controllabile ed uno Stato palestinese talmente disgregato da non essere un problema” (The Guardian, 7 dicembre 2005).
Il ritmo di costruzione di nuove case e nuovi avamposti negli insediamenti illegali in Cisgiordania, è raddoppiato durante il governo Sharon (cfr. il rapporto redatto a marzo su incarico dello stesso Sharon dall’ex procuratore distrettuale Talia Sasson).
I dirigenti del movimento islamico Hamas rivendicano il ritiro da Gaza come la prova della vittoria della lotta armata e del fallimento delle politiche di compromesso seguite dal premier palestinese Abu Mazen e dal suo partito, Al Fatah.
In un certo senso Hamas ha ragione, almeno per il fatto che sono state le crescenti difficoltà a mantenere l’occupazione diretta della striscia di Gaza e a preservare gli insediamenti di 8mila coloni a fronte di quasi due milioni di palestinesi ammassati in uno dei territori più poveri e densamente popolati del mondo che hanno portato Sharon a cambiare tattica: lasciare Gaza al suo destino ben sapendo che Israele potrà facilmente strangolare la popolazione della zona chiudendo le vie d’accesso e compiere incursioni aeree di rappresaglia; contemporaneamente rafforzare l’occupazione della Cisgiordania dove ben più alta è la posta in gioco. Terreni agricoli, acqua, la valle del Giordano e gli insediamenti illegali di 240mila coloni israeliani che mai qualsivoglia governo israeliano - ammesso che volesse - potrebbe rimuovere senza provocare una rivolta sanguinosa dei coloni stessi.
Queste ed altre considerazioni emergono dal rapporto sulla politica israeliana nei territori occupati commissionato dal ministro degli esteri britannico Jack Straw a quel noto covo rivoluzionario ubicato nel consolato britannico di Gerusalemme Est, ma puntualmente cestinato con grande imbarazzo il 12 dicembre da Javier Solana per non urtare la suscettibilità israeliana.
Vittoria di Hamas nelle elezioni amministrative
La pressione crescente dell’occupazione israeliana sta asfissiando la popolazione palestinese schiacciata fra il muro, i check point fissi e mobili che rendono impossibile la circolazione della popolazione e delle merci, i nuovi insediamenti dei coloni, le continue perquisizioni e gli abusi di ogni genere.
Nella prosecuzione di fatto dell’occupazione israeliana che fa da sfondo - oltre 10mila palestinesi incarcerati, il 50% dei quali in detenzione amministrativa, ovvero senza avvocato né processo - e condiziona ogni istante della vita dei palestinesi della Cisgiordania (ma anche di Gaza, visto che gli israeliani hanno ricominciato immediatamente con le esecuzioni mirate e con le rappresaglie a colpi di missile) si svolgeranno le elezioni politiche del 25 gennaio prossimo, che evidenziano uno stato di crisi generale della dirigenza palestinese.
La rabbia delle masse palestinesi per la corruzione e l’incapacità dimostrata dai propri dirigenti storici ha creato le condizioni per un ulteriore terremoto politico: mentre scriviamo filtrano i primi risultati delle elezioni municipali che registrano un’avanzata formidabile delle liste di Hamas. A Nablus - la città più popolosa della Cisgiordania nonché storica roccaforte di Al Fatah - Hamas ha raccolto il 73% dei voti mentre Fatah crolla al 13%. Hamas conquisterebbe anche il grosso sobborgo di Ramallah al-Bireh e la maggioranza dei consiglieri a Jenin. Se i dati saranno confermati Hamas emergerebbe come la principale forza non solo a Gaza, ma in tutta la Cisgiordania.
Si tratta di un voto di protesta, infatti dove esistono liste alternative a quella di Al Fatah credibili, come nel caso del Fronte popolare di liberazione della palestina a Ramallah, la crescita di Hamas è minore (3 consiglieri contro i 6 del Fplp ed i 6 di Al Fatah). La base di appoggio ad Hamas, più che dettata da ragioni religiose sembra essere un referendum di protesta contro la corruzione dell’Anp. Hamas ha saputo conquistarsi un’autorità molto forte su questo terreno negli ultimi anni.
Un bel problema per la diplomazia internazionale perché Hamas ha sempre rifiutato di riconoscere gli accordi di Oslo e Madrid che hanno dato vita all’Anp e per questo, fino ad oggi, il movimento islamico non aveva mai partecipato in modo esplicito alle elezioni.
Crisi e scissione
di Al Fatah
La morte di Arafat poco più di un anno fa ha scatenato una lotta per la successione che ha fatto emergere in un primo momento proprio quel settore della dirigenza palestinese maggiormente legato all’imperialismo Usa. La credibilità di Abu Mazen e del suo entourage tra le masse palestinesi era già piuttosto ridotta quando fu eletto un anno fa sostanzialmente per mancanza di un candidato alternativo (Marwan Barghuti, in carcere, rinunziò alla candidatura).
Proprio Barghuti, a pochi giorni dalle elezioni amministrative ha annunciato la formazione di un nuovo partito “al Mustaqbal” (Il Futuro), ed ha presentato una propria lista per le elezioni politiche. Se si tratterà di scissione o di un braccio di ferro per il controllo di Al Fatah sarà più chiaro nelle prossime settimane, ma di sicuro in questo momento Barghuti è l’unico esponente del movimento nazionalista ad avere l’autorità sufficiente per contrastare la crescita di Hamas.
Un anno di politiche che, nonostante la tregua temporanea a cui hanno aderito tutte le organizazioni armate palestinesi, hanno favorito solo gli affaristi (e i gruppi armati che si sono dedicati al business o alla criminalità, o ad entrambi come spesso succede, magari ponendosi al servizio di questa o quella famiglia di notabili locali per proteggerne gli affari) e non hanno portato che a peggiorare drasticamente le condizioni della massa della popolazione.
Indicativo l’esempio di Nablus, dove l’allentamento della tensione da un punto di vista militare ha fatto letteralmente esplodere la speculazione, senza che l’economia sia realmente ripartita. La borsa è cresciuta del 150% in sei mesi, ma la produzione di un settore chiave come quello tessile è scesa del 70% e la possibilità di varcare il confine israeliano, che dava lavoro a 13mila persone è ancora preclusa. Ciò nonostante non mancano società che realizzano lauti profitti, come Paltel (telecomunicazioni), che nel solo primo trimestre del 2005 ha registrato profitti per 16 milioni di euro.
A fronte di questi arricchimenti insultanti, a Nablus il 55% dei 150mila abitanti vive con meno di due dollari al giorno. Nel resto della Cisgiordania, il 38%. Non sorprende che proprio Nablus sia l’epicentro del terremoto che ha scosso il potere di Al Fatah.
La corruzione dilaga ad ogni livello dell’amministrazione dell’Anp. Ha buon gioco Hamas a presentarsi come la “soluzione a questo tipo di problemi”, potendo presentarsi come una forza sostanzialmente esterna all’amministrazione nata dagli accordi di Oslo e Madrid dodici anni fa, che Hamas ha sempre avversato.
L’antagonismo tra le due principali organizzazioni ha portato a moltissimi incidenti, anche a causa della disgregazione dei vari gruppi armati, dispersi in una moltitudine di cellule allo sbando che si mettono all’asta al miglior offerente o cercano di ritagliarsi uno spazio al sole (magari incarichi ben retribuiti nelle forze di sicurezza dell’Anp) con la forza.
All’interno del principale partito dell’Anp, Al Fatah, le elezioni primarie per i candidati hanno evidenziato grandi divisioni, mettendo a nudo l’inconsistenza dell’autorità della vecchia guardia intorno ad Abu Mazen.
La lotta politica tende sempre più a trasformarsi in lotta tra lobby, clan e famiglie. A Gaza gli uomini del ministro degli affari civili, Mohamed Dahlan, hanno vinto quasi ovunque, anche a Rafah. Alcuni accusano a bassa voce Dahlan che avrebbe spinto i suoi sostenitori in Al Fatah ad attaccare i seggi dove venivano dati per vincenti i candidati dei suoi rivali.
La crisi parallela e in qualche modo simmetrica della leadership politica sia in Israele che in Palestina costituisce un chiaro segnale delle profonde tensioni accumulate in entrambi i campi e anticipa ulteriori svolte. Seppure in un contesto estremamente difficile, le masse cominciano a trarre qualche conclusione dall’esperienza di questi anni e a cercare alternative.