"E’ un dato di fatto, abbiamo ucciso 14 palestinesi a Jenin, Kabatyeh e Tammun e il mondo è rimasto in silenzio. E’ un disastro per Arafat". Con queste parole, pronunciate tre giorni dopo gli attacchi terroristici negli Usa, il ministro della difesa israeliano Benyamin Ben Eliezer ha rivendicato cinicamente l’orientamento di un settore decisivo della classe dominante israeliana di approfittare fino in fondo dei rapporti di forza internazionali favorevoli per intensificare la repressione antipalestinese.
Dall’inizio della seconda Intifada, oltre un anno fa, abbiamo assistito ad una crescente pressione militare israeliana sull’Autorità palestinese (Anp) di Arafat.
I dati statistici di un anno d’Intifada non riescono a rappresentare l’atmosfera di terrore vissuta quotidianamente dalle masse palestinesi. L’esercito di occupazione israeliano ha fatto ricorso ad ogni arma in suo possesso (esclusa la bomba atomica): cacciabombardieri F-16 e F-15, elicotteri da combattimento, carri armati, razzi anti-carro, razzi aria-terra, missili terra-terra, cannoni (anche della marina militare) per finire alle più "modeste" mitragliatrici pesanti. Oltre 60 leader politici palestinesi sono stati assassinati dalle forze speciali israeliane in quella che viene definita dallo stesso governo di Sharon come una "campagna di eliminazioni mirate". I morti fra i palestinesi (escludendo i kamikaze) sono stati oltre 600, 140 avevano meno di 16 anni. 13 arabi israeliani sono stati uccisi dalla polizia, scavando un solco di sangue tra lo stato sionista e gli arabi israeliani, il 18% della popolazione d’Israele. I feriti nei Territori sono stati oltre 15mila, la maggior parte colpita da cecchini addestrati a sparare per uccidere.
L’unico effetto della repressione è stato di alimentare la rivolta. In articoli precedenti avevamo spiegato che la politica della classe dominante israeliana non avrebbe avuto che uno sbocco: accrescere la repressione fino a riprendere in mano il controllo sui Territori. Gli ultimi mesi costituiscono un salto qualitativo in questa direzione: l’equilibrio instabile degli accordi di Oslo, che affidavano ad Arafat il compito di farsi carico della repressione del suo popolo per difendere la "pax americana" e i privilegi di una cricca privilegiata palestinese, si è definitivamente rotto. L’autorità ed il consenso di Arafat si sono erosi in pochi anni ed ora la prospettiva di una crisi dell’Anp che porterebbe al suo collasso, magari con una spinta "amichevole" da parte dell’esercito israeliano, diventa di giorno in giorno più probabile. Una triste fine per la prospettiva utopica e reazionaria di poter risolvere su basi meramente spartitorie la questione palestinese. La promessa di una via d’uscita sulla base "due popoli, due Stati" su basi capitaliste si sta rivelando un incubo senza fine per le masse palestinesi.
La nuova occupazione israeliana
Di fatto, ben prima del 17 ottobre, giorno dell’omicidio del leader dell’estrema destra e ministro del turismo Rehavam Zeevi da parte di militanti del "Fronte popolare per la liberazione della Palestina" (per vendicare l’assassinio, avvenuto alla fine d’agosto per mano israeliana, del loro leader Abu Ali Mustafa), l’assedio militare israeliano sulle città e i villaggi dell’Anp si è rafforzato fino ad assumere i connotati di una nuova occupazione dei Territori. I danni della guerra a "bassa intensità" in atto da oltre un anno sull’economia dell’Anp sono devastanti e quantificabili in almeno 3 miliardi di dollari, cifra spaventosa se si consideri che il Prodotto Interno Lordo dell’Anp nel 2000 era poco meno di 5 miliardi (contro i 105 miliardi di Israele).
Già oggi la Cisgiordania e la striscia di Gaza (soprattutto quest’ultima) sono fra le zone più povere al mondo (il reddito pro-capite annuo era nel 2000 rispettivamente di 2000 e 1000 dollari, contro gli oltre 20mila dollari degli israeliani), ma lo stato d’assedio permanente non fa che peggiorare le cose. Migliaia le abitazioni civili distrutte, demolite o danneggiate dall’esercito israeliano, come la recente demolizione di centinaia e centinaia di case - in pratica un intero quartiere palestinese - a Rafah, sul confine con l’Egitto. Metà Yebna è un ammasso di macerie. I palestinesi che vi abitavano sono diventati profughi per la seconda volta. Molte famiglie, senza più un tetto, vivono nelle tende, a poche decine di metri dalle loro abitazioni distrutte perché non sanno dove andare. Centinaia di ettari di terra, soprattutto a Gaza, spianati dai bulldozer militari israeliani per "ragioni di sicurezza". L’acqua e l’energia sono nelle mani degli israeliani ed un colono ne consuma trenta volte di più che un palestinese. Gli spostamenti sono impediti anche agli studenti che non possono raggiungere le scuole e le università.
Unico obiettivo terrorizzare la popolazione e fiaccarne la resistenza: alla metà di settembre l’artiglieria israeliana impegnata in una chirurgica azione antiterrorismo ha bombardato… il sito dove dovrebbe essere costruito il porto di Gaza. Ridotti in macerie ben 80 uffici amministrativi delle società, anche europee, pronte da mesi ad avviare i lavori per il porto. Il nuovo porto non nascondeva orde di terroristi, era in compenso il pilastro su cui si fondava il futuro sviluppo economico di Cisgiordania e Gaza.
La brutalità delle forze d’occupazione non ha limiti. La rappresaglia contro la popolazione civile è il metodo attraverso cui si esprime. Nella "lotta al terrorismo" tutto è lecito, anche le esecuzioni sommarie o il ricorso alla tortura, ammissibile secondo la corte suprema israeliana.
La classe dominante ha deciso di strumentalizzare in una misura mai vista prima il sentimento nazionalista, xenofobo ed antiarabo. L’incitamento all’odio contro gli arabi potrebbe portare ad una degenerazione del conflitto anche all’interno d’Israele. Il restringimento delle libertà democratiche è un prezzo da pagare anche da parte dei lavoratori israeliani. Per la prima volta da quando esiste Israele un membro della Knesset (il parlamento), Azmi Bishara, deputato arabo-israeliano, è incriminato per reati d’opinione. L’aumento della repressione sul fronte interno con la scusa della lotta al terrorismo svela il reale orientamento della borghesia israeliana. Stanno preparandosi a reprimere possibili movimenti futuri da parte della gioventù o della classe lavoratrice israeliana.
Arafat vacilla
La collaborazione con le forze armate d’occupazione, l’assenza di qualsiasi politica a favore delle masse palestinesi, in particolare degli abitanti dei campi profughi, la dilagante corruzione della cricca borghese che si è raccolta intorno ad Arafat con la nascita dell’Anp, la vorace determinazione a far man bassa delle poche proprietà pubbliche dell’Anp, che ha dato luogo ad un’orgia di privatizzazioni mai vista e il peso della crescente crisi economica, tutti questi fattori hanno portato ad un rapido logoramento della leadership di Arafat, che nelle ultime settimane ha subito una drammatica accelerazione.
Il grottesco tour di Arafat per le capitali europee in cerca di appoggio e le vuote promesse di Berlusconi e di Blair sullo "Stato palestinese" e un preteso "Piano Marshall per il Medio oriente" sono l’ulteriore dimostrazione dell’incapacità del capitalismo di porre una soluzione alla crisi mediorientale.
In cambio di nulla l’imperialismo chiede ad Arafat di cessare ogni resistenza alle truppe d’occupazione e di consegnare ad Israele chi combatte. In altre parole gli chiede di scavare la propria fossa. Il "cessate il fuoco" delle ultime settimane non è stato altro che una farsa in cui gli israeliani erano gli unici a sparare.
Settori sempre più vasti del movimento non accettano più di sottoporsi all’autorità di Arafat. Il rischio di scontri tra palestinesi è altissimo. Un primo caso è avvenuto venerdì notte a Rafah quando una folla inferocita ha dato fuoco a due edifici dei servizi di sicurezza dell’Anp, accusata di non proteggere la popolazione civile dagli attacchi israeliani. I poliziotti hanno sparato in aria per disperdere i manifestanti. Presto nella zona di Rafah, d’intesa con Israele, giungeranno reparti speciali dell’Anp - si dice uomini del servizio di sicurezza preventiva di Mohammed Dahlan e Jibril Rajoub - per riportare "l’ordine" in una città sfuggita al controllo di Arafat. A Rafah le fazioni palestinesi, guidate proprio da Al-Fatah, sono riunite nei "Comitati di resistenza popolare" decisi a non rispettare il cessate il fuoco sino a quando i soldati israeliani non si ritireranno" (Il Manifesto, 30 settembre 2001). Nella Cisgiordania l’insieme di Al Fatah sembra decisa a non accettare il diktat Usa e il suo leader Marwan Barghouti ha sostenuto: "L’Intifada continua finché ci sarà l’occupazione. La tregua deve riguardare gli attacchi in Israele non la resistenza nei territori occupati".
Unico motivo della persistenza in sella del vecchio leader palestinese è da ricercarsi nella sostanziale mancanza di un’alternativa.a