La crisi del "processo di pace" e la svolta di Israele
Il crollo delle torri gemelle del World Trade Center di New York ha sconvolto il mondo. Il fumo denso e tremendo provocato dalla catastrofe non ha oscurato solo il cielo di Manhattan, ma ha imprigionato in una cappa impenetrabile anche il Medio oriente, nel quale da mesi si sta consumando una tragedia apparentemente senza fine, ma che, velocemente, sta ora degenerando in vera guerra.
L’accostamento fra la seconda Intifada e gli atroci attentati terroristici di Washington e New York è del tutto arbitrario ed ha lo scopo di screditare agli occhi dei giovani e dei lavoratori di tutto il mondo la rivolta del popolo palestinese contro l’oppressione israeliana e di criminalizzare ogni tentativo di reagire alla prepotenza dell’imperialismo da parte di qualsiasi popolo o nazione nel mondo.
L’equilibrio complessivo cambia, sbilanciato improvvisamente dall’impatto provocato da queste stragi sulla coscienza di centinaia di milioni di persone, a favore dell’imperialismo americano e della reazione in generale. Il vero ruolo giocato dal terrorismo emerge in modo chiaro quando si consideri che a trarre vantaggio da questa situazione sono proprio i settori più reazionari della classe dominante e dell’imperialismo, che ora potranno strumentalizzare il sentimento di ripulsa per le stragi per avere mano libera nell’imporre con ogni mezzo i propri interessi in ogni parte del mondo. Questo è particolarmente vero nel Medio oriente. Quello che - incredibilmente e non senza una nota di tragica ironia – veniva correntemente chiamato "Processo di pace", stava inesorabilmente scivolando verso una guerra "controllata", che aumentava di scala e di intensità con il passare delle settimane. Ora questo processo potrebbe essere di fronte ad un salto qualitativo. La vera causa della crisi non risiede negli orribili attentati ma nel fatto che nonostante la durissima repressione, (a luglio si contavano 521 vittime palestinesi contro 128 israeliani dall’inizio dell’Intifada) la cui intensità è cresciuta a livelli insopportabili, il giogo imposto alle masse palestinesi non è sufficiente a garantire il controllo della situazione che sfugge dalle mani di Israele.
La vittoria di Sharon
e la crisi della "Pax americana"
La vittoria di Sharon alle ultime elezioni, nel febbraio di quest’anno, e il fallimento di Barak, sanciscono la crisi definitiva della politica dell’imperialismo Usa inaugurata con gli accordi di Oslo. Il tentativo di imporre una "Pax americana" per via diplomatica è naufragato miseramente per l’impossibilità di garantire un futuro alla massa dei palestinesi nel quadro della partizione su basi capitalistiche "Due Stati, due Popoli".
L’imperialismo americano ed un settore importante della classe dominante israeliana avevano tutto l’interesse a cercare un accordo con Arafat. Per l’imperialismo era d’importanza strategica riuscire a disinnescare la bomba ad orologeria mediorientale al suo cuore: la questione palestinese.
Con gli accordi di Oslo e con qualche piccola concessione ai palestinesi, un settore della borghesia israeliana intravedeva a sua volta la possibilità di riconquistare credibilità e raggiungere così nuovi sbocchi di mercato che finora le erano stati preclusi, ma tutto questo sarebbe stato possibile mantenerlo solo garantendo un futuro alla massa dei palestinesi, inclusi i 3,5 milioni di profughi e di loro discendenti espulsi dalla Palestina nel 1948 e nel 1967, nonché trovando una soluzione al problema di Gerusalemme, che su basi puramente spartitorie rappresenta un incubo vero e proprio. L’irruzione dei coloni israeliani, più che raddoppiati dall’accordo di Oslo ad oggi, sulla scena politica interna ha reso impossibile per chi aveva evocato e alimentato il mostro, ricondurlo a più miti consigli. Come risultato la nascita dell’Anp è stata fin da subito un aborto.
La vittoria di Sharon è figlia della crisi di questa prospettiva. Di fronte all’impossibilità di un accordo accettabile per le masse palestinesi che non minacci le basi di potere dello Stato israeliano, il passaggio del testimone a Sharon annuncia il passaggio della classe dominante israeliana ad una politica di scontro frontale con le masse palestinesi.
I "dividendi di pace" israeliani
Con gli accordi di Oslo si è aperto per Israele un periodo di grande espansione economica, salvo una breve parentesi di crisi nel 1999. Nel 1995, a un anno circa dalla firma degli accordi di Oslo, gli investimenti israeliani all’estero hanno fatto registrare un’impennata del 46%: una crescita che si è protratta per tre anni prima di subire una battuta d’arresto, nel corso del terzo anno del mandato di Benyamin Netanyahu. In seguito si è avuto un nuovo aumento, fino a raggiungere nel 2000 il 7% del prodotto interno lordo. Tra il 1993 e il 1998, le esportazioni di prodotti d’alta tecnologia sono aumentate del 15% l’anno. Grazie alla sospensione, nel 1994, del secondo e poi del terzo boicottaggio arabo, numerose porte si sono aperte, soprattutto nel Medio oriente, in Cina e nel sud-est asiatico e i capitalisti israeliani hanno sperimentato un vero boom delle esportazioni.
Varie multinazionali, che negli anni ‘70 e ‘80 avevano preferito lavorare con gli stati arabi, si sono orientati verso Israele, portando nuovi investimenti. L’espansione economica ha permesso ad Israele di assorbire l’enorme afflusso di immigrati dai paesi dell’Est, in particolare dalla Russia, una manodopera particolarmente qualificata che ha dato ossigeno allo sviluppo di un potente settore industriale legato all’alta tecnologia.
Come conseguenza del boom, dal 1995 al 1999, il prodotto interno lordo è aumentato del 50% (da 264 a 410 miliardi di shekel) mentre nello stesso periodo l’aumento della popolazione è stato solo del 10%. Nonostante il considerevole impatto dell’immigrazione proveniente dall’ex Unione sovietica, la disoccupazione è passata dall’11,2% nel 1992 al 6,9% nel 1995.
Il reddito annuo pro capite è passato da 12.600 dollari nel 1992 a 15.600 dollari nel 1995, e dovrebbe raggiungere i 20mila dollari nel 2001.
Questo boom ha prodotto però enormi diseguaglianze nella società israeliana, in particolare è emersa una frattura enorme fra i lavoratori arabi e il resto della popolazione all’interno di una crescente polarizzazione di classe della società israeliana.
Il trattamento discriminatorio nei confronti del 18% della popolazione israeliana araba ha raggiunto, proprio nel contesto del boom, livelli intollerabili. Questo peggioramento di fatto spiega il coinvolgimento degli arabi israeliani a pieno titolo nella seconda intifada.
Ma il periodo di boom è al termine e questo fatto produrrà enormi conseguenze sulla classe operaia israeliana.
Il boom israeliano, basato quasi interamente sulle esportazioni e sul dinamismo del mercato "high-tech" è sicuramente uno dei primi candidati ad essere travolto dalla recessione che sta investendo il mondo a partire dagli Stati Uniti.
L’altra faccia della medaglia
La borghesia israeliana non era però disposta a rinunciare al controllo dei Territori occupati. La posizione espressa nel 1970 dal ministro della difesa dell’epoca, che i territori occupati dovevano essere "un mercato supplementare per i prodotti israeliani e fonte di fattori di produzione, soprattutto lavoro non qualificato, per l’economia israeliana" è sorprendentemente vicina all’orientamento attuale della borghesia israeliana rispetto ai Territori, ora formalmente sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese, con una differenza. Molti industriali israeliani hanno trovato conveniente in questi ultimi otto anni trasferire parte della produzione in stabilimenti localizzati all’interno dell’Anp. Il fenomeno del pendolarismo dei lavoratori (che ha toccato, al suo apice, cifre superiori ai 120mila lavoratori) è stato in parte sostituito da un modello fondato su sedi in Cisgiordania e nella striscia di Gaza di gruppi israeliani con una vasta rete di subappaltatori, ufficiali e clandestini, che hanno contribuito a soddisfare la domanda del mercato israeliano sfruttando i bassi salari dei lavoratori palestinesi senza costringerli ad attraversare la "linea verde" (frontiera del giugno 1967) per recarsi a lavorare in Israele.
Il progetto israeliano prevedeva un’economia palestinese totalmente dipendente, e comportava l’eliminazione delle imprese palestinesi autonome. Secondo il modello dei "parchi industriali" (comparabili alle maquilladoras al confine tra Stati uniti e Messico) proposto dall’economista israeliano Ezra Sadan, Israele doveva migliorare il proprio sistema di subappalti, sviluppando un certo numero di zone industriali tra le popolazioni povere e sottosviluppate, a priori più produttive e adattabili alle esigenze delle industrie israeliane.
Così, la nascita dell’Anp, pur non migliorando in nulla la situazione delle masse palestinesi, ha portato alla ribalta uno strato di notabili palestinesi e di nuovi affaristi.
Diversi esperti e consiglieri palestinesi si sono associati ai piani israeliani. Si tratta di alcune migliaia di privilegiati, che hanno costituito un nuovo ceto di profittatori del "processo di pace", ben poco interessati alla giustizia e all’equità delle sue varie fasi. Sono stati autorizzati a viaggiare abbastanza liberamente e hanno tratto grandi vantaggi dall’economia e dall’industria di pace, dominate dagli israeliani sotto gli auspici della Banca mondiale e della Comunità Europea.
Ne ha approfittato anche una nuova rete di responsabili della sicurezza e di funzionari, con la loro clientela di operatori economici, che hanno fatto affari con gli israeliani subappaltando la manodopera a basso costo e intrattenendo contratti esclusivi con le organizzazioni finanziarie internazionali. Solo pochissimi sono intervenuti attivamente nell’economia produttiva palestinese; in maggioranza si sono accontentati di un ruolo di intermediari tra le industrie israeliane e i lavoratori e consumatori palestinesi, in maggioranza poveri.
Al loro fianco l’Anp, garante degli accordi con Israele e dei privilegi della borghesia palestinese, ha dimostrato la sua più completa incapacità di portare avanti un’alternativa credibile per le masse. La continua oscillazione di Arafat fra radicalismo anti-israeliano di facciata e irresponsabile collaborazionismo con la classe dominante israeliana ha minato dalle fondamenta l’autorità dei dirigenti storici dell’Olp, lasciando spazio crescente all’esasperazione e alla disperazione, il terreno ideale per la crescita di movimenti terroristi con appoggio di massa in sostituzione della lotta collettiva. Lo spostamento dell’orientamento delle masse palestinesi dal piano della lotta di massa al piano militare-terroristico rappresenta un arretramento ed una tragedia di cui sono responsabili i dirigenti dell’Olp e non può che favorire l’imperialismo e lo Stato israeliano.
Esasperazione di massa
L’inasprimento del conflitto, lo stillicidio di espropri e abbattimenti di case, la prepotenza dei posti di blocco israeliani, gli attacchi da parte delle bande armate di coloni alle abitazioni palestinesi gli omicidi di intere famiglie, gli attacchi quotidiani dell’esercito israeliano, che ora vengono portati dagli elicotteri persino con il lancio di missili, l’accesso diseguale all’acqua di cui i coloni hanno piena disponibilità, l’abbattimento delle colture e dei frutteti palestinesi per rappresaglia, in generale le condizioni di vita sempre peggiori hanno provocato una generale esasperazione di massa tra la popolazione palestinese.
In questo contesto gli attacchi terroristici contro Israele e gli Stati Uniti sono festeggiati oggi da una minoranza della popolazione, ma questa minoranza cresce. Le scene di gioia trasmesse dalle televisioni di tutto il mondo all’annuncio dell’attacco al World Trade Center hanno coinvolto solo una minoranza della popolazione dei territori occupati, ma può essere compresa solo in questo contesto. Purtroppo queste scene verranno usate dall’imperialismo per creare un ambiente ostile nei confronti delle rivendicazioni dei palestinesi in lotta.
Paradossalmente il falco Sharon, proprio per effetto della crisi militare in corso, in cui non si risolve a passare all’offensiva nei confronti dell’Anp, viene attaccato da destra in modo feroce dall’ex-premier Netanyahu, che si fa portavoce della destra più reazionaria, favorevole ad una nuova occupazione militare dei territori.
Questo settore della classe dominante preme per una soluzione "definitiva" del problema palestinese. La prospettiva che Israele, facendosi forte della bandiera della "lotta al terrorismo" possa portare a fondo l’attacco e spazzare via l’Anp sta diventando sempre più probabile. La prospettiva di una guerra in Medio Oriente non è certo gradita all’imperialismo americano, e non è da escludere un nuovo intervento da parte di Bush nei confronti di Israele, ma l’aumento esponenziale della repressione non ha sortito alcun effetto sulla rivolta palestinese e Israele potrebbe non avere alternative. Israele potrebbe vincere ancora una volta un conflitto in cui siano coinvolti anche alcuni o tutti i paesi arabi, ma di sicuro molti dei regimi arabi non sopravviveranno ad una nuova sconfitta. Ad una guerra seguiranno processi rivoluzionari di portata enorme che scuoteranno da cima a fondo il mondo arabo e quindi anche il ricco occidente.