Bologna - L’otto di aprile due articoli hanno catalizzato l’attenzione dei lavoratori di IMA S.p.A. (Bologna) ed entro le prime ore della giornata sono stati fotocopiati e diffusi in tutti i reparti e uffici, nonché affissi ad alcune delle bacheche aziendali.
Il primo (Marco Vacchi, presidente dell’IMA, racconta come è cambiato il mestiere di imprenditore), pubblicato nella cronaca regionale de Il Resto del Carlino, È un intervista sulle gioie e i sacrifici di una lunga carriera imprenditoriale.
Era corredato da una tabella che sintetizzava la situazione economica di IMA S.p.A. i cui dati salienti erano: 1.700 dipendenti, fatturato 1998 pari a 432 miliardi (+10% rispetto al ‘97), utile netto ‘98 pari a 23,1 miliardi (+58% rispetto al ‘97).
Questo a una sola settimana dalla firma del contratto aziendale che ha stabilito l’erogazione ai lavoratori di un premio una tantum per il 1998 di 690mila lire nette in media (5° livello), che moltiplicate per 1.700 lavoratori fanno 1,2 miliardi. Ancora una volta si finisce con il raccogliere le briciole di quanto si è prodotto!
Il secondo articolo uscito sulle pagine locali di Bologna de La Repubblica (Macchinari da 2,5 miliardi per un azienda ora distrutta. l’IMA perde un affare causa guerra) ha reso noto a tutti i lavoratori un fatto la cui notizia già da alcuni giorni si era sparsa nei reparti più direttamente interessati ma con una sostanziale e tragica differenza: mentre prima il problema era l’impossibilità di consegnare macchine in Serbia, oggi si parlava dei danni che i bombardamenti umanitari della Nato avevano arrecato all’industria farmaceutica Galenica di Belgrado, a cui era stata da poco fornita una linea di confezionamento di antibiotici uguale a quella rimasta in IMA.
Questo ha reso per tutti la guerra meno lontana significando minore fatturato e valore dei magazzini aumentato di 2,5 miliardi, fattori che andranno entrambi ad incidere negativamente sugli aumenti salariali derivanti dal contratto aziendale (in base al meccanismo di calcolo del premio di risultato dei famigerati accordi di livello).
Secondo il giornalista de La Repubblica non si tratterebbe di un danno gravissimo per un’azienda che fattura ben oltre 400 miliardi all’anno; inoltre (aggiunge) i macchinari rimasti in magazzino potrebbero essere girati su un’altra commessa.
In merito a queste affermazioni bisogna fare chiarezza: prima di tutto è chiaro che qualsiasi entità abbia il danno per IMA, lo pagheranno di tasca propria i lavoratori, così come i danni dei bombardamenti li stanno pagando innanzitutto i lavoratori serbi, come quelli della Galenica e tutte quelle persone la cui salute poteva dipendere dai medicinali da loro prodotti (e quanto ciò sia vero in tempo di guerra non può sfuggire a nessuno). Inoltre il giornalista si dimentica di far presente che se da un lato il 1998 è stato un anno record per IMA, oggi la crisi economica mondiale si sta facendo sentire in tutto il suo peso: i primi tre mesi del ‘99 hanno fatto segnare un drastico e preoccupante calo degli ordini.
A tutt’oggi (15 aprile per chi scrive) in alcune divisioni aziendali non sono stati fatti lanci in produzione di macchine nel 1999. Le officine sono occupate dagli ultimi ordinativi dell’anno scorso.
Se consideriamo che alcuni dei mercati tradizionali sono, o per meglio dire erano, l’estremo Oriente (per il tè) e il Brasile (per il settore farmaceutico), mercati tra i più pesantemente colpiti dalla crisi economica, quali possibilità reali ci sono per riutilizzare i macchinari che erano destinati alla Jugoslavia?
Tutto questo mentre gli aerei Nato continuano a sganciare bombe per ricacciare la Serbia nell’età della pietra e il padronato nostrano continua senza soste la sua personale crociata contro i contratti dei lavoratori e lo Stato sociale.