Reggio Emilia – 20 novembre 2014 - 3 marzo 2015: 104 giorni di sciopero ad oltranza. È durata oltre 3 mesi la lotta alla Paterlini s.r.l., azienda di San Martino in Rio (Re) che produceva da oltre trent’ anni attrezzature per l’agricoltura.
La vertenza ha inizio a settembre 2013 quando i dipendenti cominciano a non ricevere alcuni stipendi. Nonostante i numerosi tentativi fatti dagli allora 32 lavoratori per salvare l’occupazione (richiesta di contratto di solidarietà, e rateizzazione semestrale delle mensilità di stipendi non pagati) andando incontro alle esigenze aziendali dovute alla crisi economica (e ad una cattiva gestione?), l’atteggiamento padronale si commenta da solo: disdette unilaterali degli accordi siglati e continue provocazioni nei confronti dei dipendenti, ai quali nella primavera 2014 veniva addirittura negata l’agibilità sindacale in fabbrica, non potendo fare assemblee per diversi mesi!
A novembre 2014, dopo l’ennesima disdetta di un accordo da parte del padrone, i lavoratori, stanchi delle continue promesse mai mantenute, decidono che la misura è colma proclamando lo sciopero ad oltranza accompagnato da decreti ingiuntivi per il pagamento delle 6 mensilità arretrate.
Il simbolo di quella lotta è stato “il gazebo” montato davanti alla fabbrica, diventato il punto di ritrovo e di presidio permanente per tutti i 104 giorni di lotta.
Non sono mancati momenti di sconforto e paura soprattutto quando, durante il presidio, l’azienda assumeva quattro persone (a tutti gli effetti sostituzione del personale in sciopero) per continuare a vendere giacenze di magazzino ai clienti che passavano indisturbati davanti al gazebo. Ecco perché chi scrive ritiene che la Fiom avrebbe dovuto quanto meno suggerire metodi di lotta più incisivi, ad esempio il picchetto con il blocco di cancelli per impedire al padrone di fare i suoi porci comodi. Allo stesso tempo la vertenza avrebbe potuto chiudersi con largo anticipo e probabilmente con risultati diversi.
Ad ogni modo la tenacia e la combattività mostrata dai lavoratori è stata in parte premiata ottenendo un accordo che prevede: la mobilità volontaria per gli otto rimasti (gli altri, strada facendo, si sono licenziati per giusta causa trovando una nuova occupazione), un anticipo delle mensilità arretrate ed un accordo di rateizzazione del rimanente credito verso l’azienda, con la sospensione momentanea dei decreti ingiuntivi.
Potremmo definirla una “mezza vittoria” visto che il posto di lavoro è stato perso, ma dopo una lotta così radicale non c’erano più i presupposti per tornare a lavorare fianco a fianco con chi ha fatto loro la guerra per così tanto tempo. Inoltre, a causa dell’enorme indebitamento, il futuro della fabbrica stessa è in forte discussione. Tuttavia questi lavoratori ci insegnano che si può resistere un minuto in più del padrone e che la lotta paga!
Quanto accaduto alla Paterlini non è certamente un episodio isolato nel contesto di crisi del capitalismo. Un sistema in cui persino l’essere pagati per il lavoro svolto diventa un privilegio per il quale bisogna lottare.
In Italia dal 2008 sono fallite 82mila aziende causando la perdita di un milione di posti di lavoro. I problemi sono dunque comuni.
Come sarebbe andata la lotta alla Paterlini se contemporaneamente in Italia ci fossero state centinaia di fabbriche occupate? Altro che mobilità volontaria! Fabbrica chiusa, fabbrica occupata!
* direttivo provinciale Fiom-Cgil