Il 23 aprile sono iniziate le procedure di spegnimento dell’altoforno della Lucchini di Piombino, il secondo stabilimento siderurgico per grandezza dopo quello di Taranto, il più longevo come anni operativi in Italia.
Lo spegnimento dell’altoforno è scritto da oltre due anni, cioè da quando l’azienda (di propietà di una cordata russa) è in amministrazione straordinaria, fallita sotto il peso di 800 milioni di euro di debito. Oltre 4mila lavoratori rischiano di rimanere in mezzo alla strada.
La chiusura dello stabilimento sarebbe dovuta avvenire nel più completo silenzio se non fosse stato per lo sciopero della fame portato avanti da un operaio a ridosso dello spegnimento e per una lettera scritta dagli operai mossi da disperazione al Papa.
Apriti cielo: ecco che all’improvviso regione Toscana e Ministero dello sviluppo firmano un accordo di programma nella notte tra il 23 e il 24 aprile per la riconversione del polo siderurgico di Piombino.
L’accordo, ambizioso come tutti gli accordi che servono per prendere tempo, prevede 250 milioni di investimenti per rilanciare l’area a caldo, mantenere l’occupazione con l’utilizzo dei contratti di solidarietà, cassa integrazione ordinaria, e per le aziende dell’indotto anche quella in deroga. Intanto si procederà alla bonifica del terreno dell’altoforno, per rilanciare da un lato un nuovo settore, quello dello smantellamento delle navi in disuso, e dall’altro rilanciare la produzione d’acciaio con uno stabilimento all’avanguardia, competitivo ed ecologico.
Insomma, tutto bene quello che finisce bene. Fim, Fiom e Uilm sono entusiasti.
Purtroppo c’è poco da festeggiare. A meno che un nuovo acquirente, si mormora un magnate dell’acciaio indiano, non faccia un offerta credibile entro trenta giorni (i giorni necessari per lo spegnimento dell’alto forno), l’unica cosa che rimarrà concretamente sul terreno sarà che alcuni operai della Lucchini lavoreranno per demolire la vecchia acciaieria, gli altri resteranno a casa.
I lavoratori, nell’assemblea del 24 aprile hanno accettato l’accordo. Il motivo è semplice; non c’erano alternative. Una volta approvato l’accordo l’assemblea permanente degli operai Lucchini è stata prontamente sciolta, si sa mai che se i lavoratori in presidio poi vogliano anche monitorare l’accordo passo passo.
Ma se gli operai non avevano alternative, altrettanto non si può dire riguardo ai sindacati. Come per l’Ilva di Taranto, come per gli altri stabilimenti in giro per il paese, i sindacati non prendono mai l’iniziativa, aspettano che qualcuno risolva la situazione sperando che ci siano meno esuberi possibili e un po’ di ammortizzatori da distribuire. In quello di Genova a settembre scadranno i contratti di solidarietà, a Servola (Trieste) il 18 aprile è scaduto il termine per rilevare lo stabilimento messo in vendita dall’amministratore straordinario, a Lecco il destino è ancora tutto da scrivere.
I vertici sindacali cercano sempre, affannosamente, un nuovo proprietario. Proprietario, l’esperienza ci insegna, che sarà interessato a prendersi solo quanto c’è di renumerativo. È la storia di tutto il tessuto produttivo italiano e internazionale.
Il segretario della Fiom Landini recentemente ha riaffermato la necessità di una mobilitazione nazionale aggiungendo anche che a suo avviso all’Ilva ci “vuole un cambio assoluto di proprietà per dare garanzie agli investitori. Riva non è in grado di garantire gli investimenti necessari a rilanciare il settore, serve un intervento del pubblico, compreso l’esproprio.” (Il sole 24 ore 24/04/ 2014)
Siamo perfettamente d’accordo, ma se dalle dichiarazioni non si passerà ad azioni concrete, gli stabilimenti continueranno a chiudere. Il segretario della Fiom già parlò di esproprio dell’Ilva nel momento in cui la protesta dei lavoratori culminò davanti al rischio di chiusura la scorsa estate, ma poi tornò ad essere lettera morta. La Fiom, i metalmeccanici hanno la forza, la capacità per mettere questa parola d’ordine come principale rivendicazione per la mobilitazione nazionale che sarebbe necessaria. La parola passi dunque alla lotta, altrimenti resteremo in balia dell’ultimo escamotage del governo o dell’ultimo assessore preoccupato per la campagna elettorale alle porte.