Testo a sostegno della MOZIONE DUE “Per il Partito di Classe” all'VIII Congresso di Rifondazione Comunista
Sotto un sistema socialista ogni nazione sarà arbitra su-prema dei propri destini, nazionali e internazionali; non sarà costretta da alcuna alleanza contro la pro-pria volontà, ma avrà la sua indipendenza garantita e la sua libertà rispettata dall'illuminato interesse della democrazia socialista del mondo.
James Connolly (marxista irlandese)
Anche questo congresso affronterà la questione sarda attraverso un trafiletto che i compagni della maggioranza del partito ci propongono nel loro documento congressuale. Noi che sosteniamo la mozione 2 “Per il partito di classe”, riconosciamo la questione sarda in quanto “questione nazionale” e indi-chiamo l’obiettivo della liberazione nazionale e sociale del popolo sardo all’interno di una “libera e volontaria federazione socialista dei popoli europei”. Lungi quindi da essere una questione esclusiva dei compagni del primo documento, l’obiettivo da essi propostoci, ovvero quello di “giocare un ruolo propulsivo per coniugare le esigenze di autogoverno e sovranità del popolo sardo con quelle di una profonda riforma intellettuale e morale che sia economica, sociale e istituzionale”, risulta per noi limitato in quanto, parlando di riforma, non esce dalle compatibilità del capitalismo.
Questione nazionale e questione di classe
Esiste per noi una questione nazionale dato che la Sardegna è una nazione a tutti gli effetti: ha una lingua, un territorio comune, una storia e una cultura condivise ed è unita da legami economici. Non pensiamo che tali elementi siano superati, come sostenne il dirigente sardo del Pci Velio Spano già nel lontano 1953 dalla colonne di Rinascita: “col costituirsi del Regno d’Italia, i sardi furono profondamente e durevolmente assimilati come non mai nel passato, sicché una vera e propria questione nazionale sarda cessò definitivamente di esistere, i sardi sono diventati italiani”. Sosteniamo perciò che lo stato italiano sia pluri-nazionale. Al tempo stesso è chiara a tutti noi la natura capitalista di uno stato che non può essere investito da profonde riforme morali e istituzionali. La morale e le istituzioni attuali sono un riflesso del sistema di sfruttamento dei lavoratori, delle risorse, di interi territori come la Sardegna. Una terra dove l’industria di guerra ha distrutto intere generazioni di sardi (pensiamo ai 13 mila sardi - su 800 mila abitanti - morti “per la grandezza d’Italia” nella Grande guerra); dove sempre quell’industria ha fatto dell’isola la più grande piattaforma di servitù militari; dove il capitale ha fatto i suoi profitti a discapito dei lavoratori e dell’ambiente. Per questo la liberazione nazionale del popolo sardo non può essere scissa dalla liberazione sociale delle sue classi subalterne, così come di quelle dell’intero stato italiano.
L’approccio rivoluzionario alla questione nazionale
L’autogoverno per come viene sbandierato dai partiti “autonomisti” sardi, sia di destra che di “sinistra”, è solo una vuota chiacchiera a uso dei politicanti nostrani. Per cui l’autogoverno è la loro attività farraginosa e di piccolo cabotaggio nel consiglio regionale, dove spaccano il capello in quattro per applicare leggi che non risolvono nessuno dei problemi strutturali e storici della Sardegna.
L’autogoverno che noi sosteniamo invece si rifà all’internazio-nalismo che è fondativo dello stesso movimento comunista, riconoscendo il diritto all’autodecisione di tutti i popoli e al tempo stesso la massima unità dei lavoratori al di là delle frontiere nazionali. La più grande rivoluzione della storia ebbe successo anche grazie all’elastica politica delle nazionalità di Lenin, che lottò con tutte le forze per il di-ritto alla secessione dei popoli sotto il dominio zarista e, addirittura, dallo stesso stato sovietico.
La sua lotta per l’autodeterminazione fu cosi determinante nel plasmare la repubblica federativa sovietica. Nonostante la successi-va usurpazione del potere da parte della dittatura stalinista, in URSS si insegnavano nelle scuole circa 80 lingue differenti, delle varie etnie dell’Unione. Questo straordinario rispetto per l’identità e le peculiarità nazionali era però inseparabile dalla netta affermazione dell’unità dei lavoratori di un stesso stato territoriale. Per questo, in Sardegna, la trasformazione della società non può prescindere dall’unione organizzativa con i lavoratori della penisola contro la borghesia, sia essa tricolore che compradora. E’ un episodio poco noto l’appello dell’ Internazionale Comunista al V congresso del Psd’Az, in cui si lanciava la parola d’ordine della “Repubblica Sarda degli operai e contadini nella federa-zione soviettista d’Italia” che nel Partito comunista d’Italia sopravvisse fino al 1931. Ispirata da Gramsci questa parola d’ordine dimostrava che non si aveva alcun attacca-mento al feticcio dell'"unità nazionale” italiana, anche se in seguito, con la sua svolta moderata, di compatibilità col capitalismo italiano, il PCI si inserì nella politica di piccolo cabotaggio (per usare un eufemismo) che ha caratterizzato la storia dell'"autonomismo”.
Il separatismo organizzativo come maschera del riformismo
Le vicende del nostro partito in Sardegna, che si è spesso diviso tra correnti e correntine senza reale base politica, non son dovute alla sudditanza ai leader italiani, ma appunto alla carenza di formazione politica e attività militante: unici elementi che possono permettere ai compagni di valutare criticamente questa o quella linea. Se persisterà questa carenza le divisioni su basi poco più che personalistiche continueranno, al di là che ci sia il partito comunista sardo o italiano. Le particolarità locali e nazionali che fanno della Sardegna un teatro della lotta di classe assai diverso dal resto d’Italia, sono il frutto dello sviluppo ineguale che il capitalismo e il suo stato hanno imposto alla società, un tempo prevalentemente agro-pastorale, sarda. I rapporti di produzione dominanti, anche in Sardegna, sono quelli capitalistici e la maggior parte dei lavoratori sono salariati o piccoli produttori e commercianti che devono fare i conti con le cieche leggi della produzione e distribuzione capitalistica. Le forme di lotta e l’esigenza della massima indipendenza politica dai partiti borghesi sono quindi comuni ai lavoratori sardi come quelli di tutto il mondo.
Lottiamo per il partito di classe, in Sardegna e in tutto lo stato italiano!
Crediamo sia chiaro a questo punto che la questione sarda è una questione di classe. Noi non dobbiamo lottare per la “libertà” e “l’autonomia” dei sardi, ma per la libertà e l’emancipazione dei lavoratori sardi, su una prospettiva politica socialista di rovesciamento del capitalismo in quest’epoca, e non in un lontano avvenire. Il difetto di tutti i partiti indipendentisti è l’assenza della comprensione che le vicende dello stato italiano riguardano direttamente noi, e le nostre vicende riguardano direttamente l’assetto dello stato italiano. La lotta per lo sviluppo dell’economia sarda, contro la disoccupazione, contro la servitù militare, ecc. non può che essere la lotta per una società socialista. A chiunque dica che questa è un’ utopia noi diciamo che è utopico pensare di poter ricavare qualcosa dalle maglie della legislazione borghese dello stato italiano, dalla sua lentezza e farraginosità, dall’umiliante impotenza del meccanismo legislativo ed esecutivo vigente, cioè dalle istituzioni della Regione Sardegna.
60 anni di storia devono avere insegnato anche ai più fedeli assertori della politica “ragionevole” dell’autonomismo togliattiano che le mezze misure e la lotta per “un nuovo modello di svi-luppo”, altro non sono che un “arrangiamoci con quel che ci lasciano”. Ebbene questo tipo di politica è in palese contrasto con la realtà del capitalismo e del suo stato, che non permette soluzione reali ai problemi, poiché quegli stessi problemi son le condizioni della sua esistenza, e della sua riproduzione come sistema.