Crisi di un assetto
La precipitosa ritirata dell’esercito israeliano dal Libano meridionale e il fallimento dei colloqui di Camp David tra Barak ed Arafat stanno segnando la crisi della "pax americana" nel Medio Oriente, inaugurata con gli accordi di Oslo del 1993 e la nascita dell’Autorità Palestinese (Anp).
Già all’epoca delle trattative di Oslo avevamo spiegato che l’eventuale nascita di uno Stato palestinese non avrebbe risolto nessuno dei problemi vitali delle masse palestinesi. L’illusione che una separazione da Israele su basi capitaliste avrebbe assicurato un futuro di pace e prosperità, o perlomeno di maggiore libertà al popolo palestinese, si sarebbe scontrata con la dipendenza economica da Israele. I frutti avvelenati della politica dell’imperialismo stanno mettendo a dura prova l’autorità di Arafat mentre hanno scoperchiato il vaso di Pandora della società israeliana. La contrapposizione violenta fra sostenitori di un accordo con Arafat e chi l’avversa sta esasperando la tensione ai livelli del periodo dell’assassinio di Rabin.
L’assetto mediorientale è scosso da cima a fondo da una crisi che pare improvvisa, ma che viene da lontano e ha radici profonde, sia interne, sia internazionali.
La formazione dello Stato d’Israele, contrabbandata dall’imperialismo come un risarcimento agli ebrei per la Shoah (l’olocausto), si è trasformata per i coloni in una trappola infernale. L’aspirazione del movimento sionista di far fiorire nel deserto la patria di tutti gli ebrei si scontrò fin dal principio con la resistenza delle popolazioni arabe.
La proclamazione d’Israele nel 1948 scatenò la guerra con le nazioni arabe confinanti, la prima di una lunga serie, e si concluse con la vittoria d’Israele e la diaspora di 800mila palestinesi.
Il risentimento delle popolazioni arabe contro Israele è stato strumentalizzato dall’élite dominante araba per mascherare il carattere reazionario dei propri regimi, monarchie autocratiche e dittature disegnate dall’imperialismo britannico in ritirata.
Gli antagonismi fra gli stessi regimi arabi e fra questi ed Israele sono stati per decenni la leva per assicurare la dominazione imperialista su una zona del mondo che concentrava i tre quarti delle riserve petrolifere conosciute.
LE BASI SOCIALI DELL’IMPERIALISMO ISRAELIANO
Quello che per i palestinesi rappresentava un regime ostile, usurpatore delle loro terre, responsabile di genocidio e di deportazioni di massa, era per la borghesia ebrea un porto da rendere sicuro per far prosperare i propri affari. Per i lavoratori israeliani approdati ad Israele, la nuova patria rappresentava forse l’unica possibilità per ricostruire vite distrutte dalla guerra e dalle persecuzioni. La borghesia israeliana e l’imperialismo seppero sfruttare al meglio la determinazione dei coloni ebrei, costruendo una società in stato permanente di guerra ed impiegando la massa dei profughi ebrei come comoda e sempre rinnovabile forza lavoro per le proprie industrie e, all’occorrenza, carne da macello per assicurarsi la supremazia sulla zona.
I lavoratori ebrei erano impermeabili alla propaganda nazionalista araba che li rappresentava come nemici, non distinguendo fra coloni, classe dominante e stato israeliano. La tattica terroristica delle organizzazioni palestinesi li spingeva nelle braccia dello stato sionista. La stabilizzazione, e il boom economico degli anni ’50 -’70, amplificato dal continuo flusso di nuovi immigrati e dall’aiuto degli Stati Uniti, portarono ai lavoratori israeliani un tenore di vita notevolmente più alto rispetto alle masse arabe.
Mentre la società israeliana era ed è tutt’altro che omogenea - nel 1992, il 10% della popolazione più ricco si appropriava del 27% del reddito nazionale, mentre il 10% più povero aveva solo il 2,8 - la polarizzazione sociale negli stati arabi era infinitamente più marcata. In Giordania le proporzioni erano, nel 1991, rispettivamente del 34,7% e del 2,4%, con oltre il 30% della popolazione sotto il livello ufficiale di povertà (Fonte: CIA – The World Factbook 1999).
Agli occhi degli ebrei le conquiste materiali, strappate con il lavoro e la lotta, e il carattere democratico e laico dello stato d’Israele rappresentavano un capitale da difendere con le unghie. Perfino le centinaia di migliaia d’arabi d’Israele, pur discriminati, erano consapevoli del desolante panorama offerto dai regimi arabi autocratici e reazionari, molti dei quali non riconoscono ancora oggi diritti politici o sindacali.
Altrettanto chiaro agli ebrei era il carattere ipocrita della solidarietà tributata ai palestinesi dai regimi arabi. Il paladino della causa palestinese, re Hussein di Giordania, non si fece alcuno scrupolo nel settembre del 1970 (passato alla storia come "Settembre nero") di massacrare migliaia di palestinesi bombardando i campi profughi, in cui stavano crescendo correnti rivoluzionarie, per prevenire la loro ingerenza negli affari interni del suo Stato.
I monarchi sauditi e gli emiri dei ricchi paesi del petrolio, "amici" dei palestinesi, ne accolsero migliaia per farli lavorare nei pozzi e come servi, in condizioni di semi-schiavitù, ma si guardarono bene dal concedergli diritti politici o sindacali, non parliamo della cittadinanza. Nel 1999 i lavoratori stranieri privi d’alcun diritto, palestinesi, yemeniti, indiani, srilankesi e pakistani, erano il 25% della popolazione in Arabia Saudita, il 35% nel Bahrain, il 60% in Kuwait e oltre il 70% negli Emirati Arabi Uniti.
Quest’insieme di fattori ha assicurato per oltre 50 anni una certa stabilità interna dell’imperialismo israeliano, ma non ha potuto impedire l’esplosione di movimenti imponenti della gioventù e della classe lavoratrice israeliana, come quello dell’autunno del 1982, contro i massacri di Sabra e Chatila, che costrinse Israele a ritirarsi dalla seconda occupazione del Libano.
LA "RIVOLTA DELLE PIETRE"
La "soluzione" su basi capitaliste della questione ebraica generò a sua volta la questione palestinese. Ai profughi palestinesi del 1948 si aggiunsero quelli altrettanto numerosi del 1967. I regimi arabi non hanno saputo offrire loro nulla di meglio che campi profughi e povertà. Un accordo a Rabat fra i regimi arabi sancì nel 1974 la nomina dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) ad unica rappresentante del popolo palestinese. La decisione fu presa in modo antidemocratico sulla testa dei palestinesi. Con il finanziamento delle nazioni arabe, l’Olp riuscì a conquistare l’egemonia nei campi profughi e tra gli emigrati.
Per 25 anni la politica schizofrenica d’appelli alla trattativa internazionale e lotta terroristica contro Israele dell’Olp e delle altre formazioni palestinesi non ha fatto avanzare di un centimetro le posizioni palestinesi, ottenendo invece il risultato di rafforzare la coesione dello stato israeliano.
Nel dicembre 1987 accadde qualcosa di assolutamente imprevisto dai dirigenti dell’Olp: decine di migliaia di giovani e di lavoratori innescarono una rivolta spontanea contro l’occupazione israeliana che coinvolse tutta la popolazione araba. Proprio là – nei territori occupati – smentendo gli scettici dirigenti palestinesi che sostenevano che, a causa dell’esercito d’occupazione, non ci sarebbe stata possibilità di lottare all’interno della Palestina e che quindi occorreva una campagna "militare", lanciata dall’esterno.
L’Intifadah sconvolse in pochi mesi tutti gli equilibri, mettendo a dura prova la resistenza delle forze d’occupazione e provocando divisioni ai vertici dello Stato e dell’esercito israeliano su come affrontare un’intera popolazione in rivolta a mani nude. La repressione era inefficace. Arresti (oltre 9.000 in pochi mesi), uccisioni, demolizioni di case d’attivisti della rivolta, incremento della brutalità dell’esercito, a nulla servivano, se non ad alimentare il movimento.
La lotta eroica dei palestinesi riuscì a conquistare la simpatia degli arabi d’Israele e a scuotere la fiducia dei giovani soldati ebrei, impreparati a combattere gente inerme ma determinata.
LA FONDAZIONE DELL’AUTORITÀ PALESTINESE
La direzione dell’Olp non seppe sfruttare l’occasione. La borghesia israeliana e il governo americano imboccarono la via dei negoziati, nell’intento di guadagnare tempo e di ottenere, in cambio di concessioni, la collaborazione della direzione dell’Olp
La nascita dell’Autorità Palestinese ha liberato le enormi aspirazioni delle masse palestinesi, ma sono presto state frustrate, conferendo maggiore forza a chi si era opposto agli accordi. Hamas, sostenitrice di una guerra fino alla distruzione d’Israele, dà il via ad una campagna terroristica d’attentati suicidi su obiettivi civili dentro Israele.
Il ritiro delle truppe israeliane dalla Cisgiordania fu congelato dal governo israeliano, che alla fine di maggio del 1998 procedette all’annessione formale di Gerusalemme Est e impose limitazioni sempre maggiori, fino a giungere ad un blocco totale della circolazione di merci e persone con Israele. L’impatto disastroso di queste misure, che tra il 1992 e il 1996 hanno provocato il crollo del 36,1% del Prodotto Interno Lordo dell’Anp, conferma la sua totale dipendenza economica da Israele.
Il nuovo Stato ha assunto fin dal principio i connotati dello Stato di polizia, cui ricorrere per consolidare il potere del suo leader, Yasser Arafat. Divergenze risolte con l’arresto degli avversari politici e censura sugli organi d’informazione diventano strumenti di lotta politica, come testimonia il caso del recente arresto di Abdel Fatah Ghenem, del dipartimento profughi dell’Olp, reo di aver invitato i profughi palestinesi in Giordania a tenere "gli occhi aperti" perché a suo dire la direzione dell’Anp "non farebbe quanto dovrebbe" per garantire in futuro il rientro dei profughi del 1948 e del 1967 nelle loro terre (Il Manifesto, 12 luglio 2000).
Sotto l’ombrello del dominio incontrastato di Arafat cresce una nuova borghesia palestinese, generosamente rappresentata nell’entourage del leader. Per accudire alle loro case, negli ultimi anni, è aumentata la richiesta di domestiche cingalesi, pagate 100 dollari al mese, una cifra modesta, ma che solo pochi possono permettersi, considerando che il reddito annuale pro-capite nel 1998 era di 2000 dollari in Cisgiordania e di 1000 nella striscia di Gaza.
Ancor prima di essere autonoma, l’Anp ha già deciso di privatizzare quanto possibile: la compagnia aerea, l’aeroporto internazionale, il servizio postale, la telefonia mobile e perfino il porto di Gaza, non ancora costruito.
Ogni cosa di valore è preda del capitale straniero, salvo la telefonia mobile, assegnata ad una cordata di finanzieri palestinesi.
Le privatizzazioni - secondo Mohamed Rashid, consigliere economico di Arafat e socio del Casinò di Gerico - sono necessarie "perché dobbiamo evitare che il governo vada in deficit". La Banca Mondiale applaude. Il governo dell’Anp rinuncia quindi ad esercitare un ruolo diretto nell’economia, delegando tutto al mercato e ai privati, nonostante la leva statale sia l’unica in grado di sollevare la condizione di quel 20% degli abitanti della Cisgior-dania, il 36% a Gaza, che vivono sotto il livello ufficiale di povertà.
CRISI ECONOMICA E RISVEGLIO DELLA CLASSE LAVORATRICE
Il governo Netanyahu dovette registrare un continuo calo di consensi, per la diffusa e crescente reazione della classe lavoratrice israeliana alla situazione economica e alle sue politiche liberiste. Dopo tre anni di recessione il governo Netanyahu si è trovato a fronteggiare un’ondata di lotte sindacali, culminata nel marzo del 1999 con uno sciopero generale del pubblico impiego che coinvolse 400.000 lavoratori. Gli scioperi sono continuati, interessando i lavoratori della sanità (medici, infermieri, tecnici e personale amministrativo), dell’istituto della Previdenza, i portuali, i lavoratori di Bezeq (la compagnia telefonica), delle raffinerie e dell’Autorità per la ricerca e lo sviluppo militare, e degli insegnanti e dei lavoratori della Compagnia dell’acqua. Tutte vertenze sfociate in aumenti del salario reale, seppur modesti. Il risultato più notevole di questo risveglio della classe lavoratrice è stata però la sconfitta elettorale di Netanyahu alle elezioni del luglio 1999.
La vittoria laburista e le promesse di Barak hanno fermato, almeno temporaneamente, la spinta propulsiva di questo movimento.
IL GOVERNO BARAK E LE TRATTATIVE DI CAMP DAVID
La vittoria del laburista Barak, ex-generale dell’esercito israeliano, festeggiata da una manifestazione di 300.000 israeliani, fu salutata dall’opinione pubblica internazionale come un ritorno all’epoca mitica di Ben-Gurion, fondatore dello Stato israeliano.
Un anno dopo, nonostante la tregua concessagli dalla crescita economica, Barak sta faticosamente tentando d‘incollare i cocci della sua "solida" maggioranza e deve affidarsi alla chiusura del parlamento per le vacanze estive per mantenersi in sella.
Sia Barak che Arafat hanno preferito un nulla di fatto nei colloqui, piuttosto che provocare una rottura irreparabile dell’equilibrio instabile fin qui conseguito. I temi fondamentali su cui si è consumata formalmente la rottura sono: la sovranità su Gerusalemme, i confini dell’Anp, la sorte degli insediamenti di coloni e quella dei profughi del 1948 che Israele non vuole accollarsi. Indipendentemente dalla probabilità effettiva che sia possibile riprendere le trattative e raggiungere un accordo, la situazione sta diventando ingestibile, non esistendo mediazione che non ottenga il risultato di esasperare una parte o entrambe.
Dopo aver subito la defezione dei ministri dello Shas, il partito ortodosso dei guardiani sefarditi della Torah e del ministro degli esteri Levy, Barak ha dovuto incassare l’affronto di una fronda alla Knesset che ha silurato Simon Peres, dato per sicuro vincente, eleggendo lo sconosciuto Katzav alla carica di Presidente della Repubblica.
L’atteggiamento di Barak è di rilanciare e di appellarsi al popolo contro il parlamento, annunciando un grandioso piano di riforme a contenuto laico e sociale e una nuova Costituzione (che Israele ha atteso invano per oltre 50 anni). La mossa populista non ha sortito per il momento alcun effetto. Arafat ha posto l’ultimatum che entro il 15 di settembre (poi prorogato a metà novembre) avrebbe proclamato l’indipendenza dell’Anp.
Mentre si parla di pace, negli insediamenti si prepara la guerra. Barak per mantenere lo Shas al governo ha sostenuto il movimento a favore di nuovi insediamenti, che ora non può permettersi di arrestare.
Nel primo trimestre del 2000 l’attività edilizia negli insediamenti è cresciuta dell’81% e i coloni aumentano: dalla firma del primo accordo di Oslo del 1993 la popolazione degli insediamenti è quasi raddoppiata!
I coloni si sentono minacciati da un accordo che ne escluderebbe dalla sovranità israeliana 50.000, su 180.000, nella sola Cisgiordania. Gli scontri sono ormai quotidiani. Hanno formato milizie, a cui hanno aderito anche centinaia di donne e si stanno armando in previsione di un conflitto che, sono convinti, scoppierà allo scadere della dichiarazione d’indipendenza dello Stato palestinese. Gli estremisti di destra israeliani si sono lanciati in una feroce campagna contro l’accordo. Il rabbino Yossef, capo spirituale dello Shas, ha lanciato un anatema contro Barak e i palestinesi "Barak non ha intelligenza e vuole la pace con i serpenti. Dov’è la sicurezza dello Stato d’Israele? Che pace si può fare con i serpenti palestinesi? Gli ismaeliti sono tutti cattivi e perfidi, odiano Israele" (La Repubblica, 7 agosto).
Alcuni, raccolti attorno alla rivista The Maccabean sostengono la proclamazione di un secondo Stato ebraico, lo stato di Giudea, da parte delle autorità locali degli insediamenti, sostenendo che di fronte al fatto compiuto le autorità israeliane appoggerebbero il nuovo stato.
L’AUTORITÀ DI ARAFAT MESSA IN DISCUSSIONE
La crescita dell’appoggio ad Hamas tra i palestinesi è il fenomeno speculare di quanto avviene fra i coloni. Uno dei capisaldi dell’accordo di Oslo è la collaborazione della polizia di Arafat con l’esercito israeliano nella lotta al terrorismo.
I frequenti blitz "contro il terrorismo" delle unità speciali "Duvdevan" dell’esercito israeliano stanno facendo crescere la tensione tra i palestinesi.
Il 17 agosto, l’uccisione di un "pericoloso terrorista" settantaduenne, Mahmoud Abdullah, che cercava di difendere con una scacciacani la sua casa dall’assalto di un commando di teste di cuoio, è stata aggravata dal fatto che i militari hanno impedito all’ambulanza, sopraggiunta pochi minuti dopo la sparatoria, di varcare il posto di blocco.
I negoziati inoltre hanno accresciuto la diffidenza tra i palestinesi dei campi profughi, che temono di essere utilizzati come moneta di scambio da Arafat sul tavolo delle trattative. Molti profughi non riconoscono più l’autorità di Arafat e lo accusano di collaborazionismo.
Ai primi di luglio l’arresto di un giovane palestinese proveniente da un campo profughi, poi condannato per l’uccisione di una donna, ha scatenato per le vie di Ramallah la rabbia dei parenti della donna. Per rappresaglia decine di giovani attivisti di "Tanzim", l’organizzazione giovanile di Al-Fatah, provenienti dai campi profughi di Qaddura e Al-Amari, non hanno esitato a devastare decine di locali e ristoranti dove, affermano, si riunisce per divertirsi la borghesia ricca palestinese che da tempo ha dimenticato l’esistenza dei campi profughi (Il Manifesto, 4 luglio 2000).
L’eventuale ripresa delle trattative non potrà che inasprire queste contraddizioni, rischiando di rompere nelle mani dell’imperialismo il complesso meccanismo della "Pax americana" in Palestina.
Neppure lo scoppio di una nuova Intifadah potrebbe però assicurare una soluzione, se non si ponesse in modo cosciente il compito di innescare un processo rivoluzionario che unisca tutti i popoli del Medio Oriente contro i comuni sfruttatori, per porre finalmente all’ordine del giorno la lotta unita dei lavoratori palestinesi ed israeliani contro il capitalismo.