Dagli anni ottanta il capitalismo ed i suoi dogmi ideologici sono stati trionfanti. Profitto, competitività, flessibilità e libero mercato parole da onorare. Ma a fine anni ’90 settori significativi di giovani, lavoratori e anche di classi medie misero in discussione il capitalismo.
Ciò avvenne non solo nel sud del mondo, ma proprio a partire dagli Stati Uniti, paese simbolo delle multinazionali e della “new economy”. Con la contestazione, nel 1999 a Seattle, del vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio, iniziarono due anni di intense mobilitazioni contro le riunioni delle istituzioni internazionali del capitale. Il culmine fu Genova, quando a centinaia di migliaia contestammo il G8. La risposta violenta dello Stato è una ferita ancora aperta. Dieci anni dopo crediamo che ricordare quei fatti significhi non lasciare nessuno spazio alla retorica
Come marxisti partecipiamo alle giornate di Genova 2011 come partecipammo a quel movimento del 2001. Era l’ingresso di una nuova generazione nella lotta per il cambiamento del mondo in cui viviamo. Cosa ne è stato di quell’ondata?
Dietro il “nuovismo” la vecchia miseria politica
Decenni di falsificazione stalinista del marxismo, oltre al crollo del Muro di Berlino, non crearono un ambiente semplice per l’intervento dei comunisti. Dietro la retorica nuovista e spontaneista di chi tirava le fila e “rappresentava” le mobilitazioni noglobal (centri sociali disobbedienti di Casarini e maggioranza dei Giovani comunisti), non mancava una lotta di idee per l’egemonia nel movimento. I settori prevalenti ritenevano che la classe operaia, almeno nei paesi occidentali, non avesse più un ruolo centrale nel conflitto perché integrata nel sistema, e che il mondo del lavoro fosse residuale e annientato da flessibilità e precarizzazione.
Per tutti questi compagni, finita nei paesi capitalisti avanzati l’epoca del fordismo e dell’operaio-massa, le lotte della classe operaia non avrebbero potuto più essere l’asse centrale di una strategia poiché non potevano più “ inceppare il meccanismo di accumulazione” (A. Fumagalli, Sul reddito di cittadinanza). Le idee sono dure a morire. Nello scetticismo diffuso verso la capacità della classe lavoratrice di cambiare la società trovavamo l’eco delle idee di Marcuse e dei “teorici critici” della scuola di Francoforte sull’integrazione della classe operaia nel consumismo “occidentale” e sulla conseguente necessità di ricercare un nuovo soggetto sociale come perno del conflitto. Ecco perché apparivano ad ogni dibattito pubblico o riunione di Social Forum astrazioni individualiste come il cittadino, il consumatore critico o le moltitudini insorgenti. Addirittura, durante le mobilitazioni anti-Ocse a Bologna del giugno 2000, “Contropiani”, il coordinamento creato in occasione del convegno, si schierò contro la proposta di uno sciopero generale per bloccare il vertice, abbracciando invece lo slogan di uno “sciopero di cittadinanza”.
Il tendenziale ed enfatizzato abbandono dell’organizzazione del lavoro fordista, facilitato dal tradimento politico delle lotte degli anni ’70, era divenuto, in un ribaltamento di causa ed effetto, la “mossa del cavallo” della borghesia che il “vecchio” movimento operaio non aveva capito condannandosi alla sconfitta. Il risultato finale? Col just in time la lotta di classe era fuori agenda. Anche in questo caso gli anni di riflusso avevano lasciato un’eredità pesante: serviva a poco argomentare che col sistema just in time, ad esempio, uno sciopero a scacchiera ha un’efficacia fulminante e profonda, più che in una fabbrica “fordista”. Gli operai della Maserati lo hanno toccato con mano nei loro scioperi del giugno 2011. Non sono certo gli unici.
La ristrutturazione allora in atto da circa vent’anni nell’industria, lungi dall’essere una rivoluzione (non centra un’acca neanche il concetto di rivoluzione passiva di Gramsci spesso invocato), era una risposta alla fase di stagnazione generale del capitalismo. I mercati non mantenevano la crescita del periodo precedente e per non ridurre i loro margini di profitto i borghesi, anche attraverso le nuove tecnologie, tagliavano il possibile: la forza lavoro, i salari, le pause, le scorte di magazzino ecc. con un gigantesco aumento dello sfruttamento.
La ristrutturazione capitalistica degli anni ’80 e ’90 poneva – e pone – problemi all’organizzazione del conflitto. In primo luogo laddove la deindustrializzazione è andata più avanti. Si può credere di superare questi ostacoli negando il ruolo centrale del lavoro salariato, opponendo l’operaio della grande fabbrica alla finta partita Iva o al precario di lungo corso, in una riedizione della mai del tutto sopita teoria sul conflitto tra “garantiti” e “non garantiti”. Oppure si può fare del lavoratore “immateriale”, quello legato alla comunicazione ed alle nuove tecnologie, la fiaccola per la liberazione dallo sfruttamento, il nuovo “soggetto”, tramite l’utilizzo “sovversivo” della rete, sbarazzandosi in un sol colpo della teoria del valore di Marx, della capacità del capitalismo di integrare i “creativi” e della dura necessità di un rovesciamento rivoluzionario del capitalismo. Come non vedere, però, che mobilitazioni di massa come quella della Fiom il 16 ottobre 2010 a Roma sono, in embrione, l’unità nella lotta dei più variegati settori di sfruttati? E quale potenziale di rivolta sociale si libererebbe, oggi, in Italia, se nella Fiom prevalessero posizioni slegate da un apoliticismo sindacale finto, in realtà ancora inserito in uno stanco gioco di sponda con pezzi del centro-sinistra?
A caccia di “nuovi” luoghi del conflitto
Ieri come oggi c’è chi pensa, come la redazione di Carta, che è il territorio il terreno di conflitto decisivo: “Il territorio come chiave per comprendere le dinamiche sociali ma anche come possibile risposta alla perdita d’identità che lo spaesamento porta con sé” (Carta, maggio 2000). Per parte nostra ricordiamo che i momenti di ascesa del movimento operaio, come i primi anni settanta in Italia, hanno generato i movimenti più potenti e pervasivi per il diritto alla casa, alla salute, ai servizi sociali ed alla tutela del territorio. Ed è proprio a partire dal riflusso delle lotte del proletariato che in tutti questi campi si sono avuti devastanti arretramenti, concretizzatisi anche nel crescente degrado delle periferie (“il territorio”).
Tra chi provò ad individuare con più chiarezza nuovi eventuali luoghi del conflitto c’è Marco Revelli, noto sociologo recentemente affascinato da Di Pietro. Le sue analisi, gonfie di invettive contro la forma partito e quella categoria dello spirito che ad alcuni piace chiamare Novecento, aprivano la strada al terzo settore (M. Revelli, P. Tripodi, Lo stato della globalizzazione, Libro del Leoncavallo, 1998). A più di dieci anni di distanza, chi ha occhi per vedere constata che, lungi dall’essere “una spina nel fianco del capitale”, lo sviluppo del terzo settore è uno dei grimaldelli coi quali il capitale stesso ha smantellato lo stato sociale, e che, sovente, dietro le cooperative no profit esistono invece grossi profitti basati sullo sfruttamento del lavoro materiale dei lavoratori delle cooperative stesse. Come sostenere anche oggi, senza essere preso per uno che ha degli interessi, che il terzo settore possa diventare “un luogo in cui effettivamente si può esercitare quel lavoro collettivo consapevole diretto non a produrre merci, ma socialità, quella risorsa scarsa che, appunto, l’economia postfordista consuma e distrugge” (M. Revelli su Almanacco di Carta, luglio 2000)?
Cambiavano dunque i “soggetti” e dovevano cambiare anche le “pratiche”. Molti appoggiarono l’idea di combattere le multinazionali con una catena alternativa di produzione e di scambio. I piccoli produttori del sud del mondo, meglio se di prodotti biologici, dovrebbero essere aiutati da un movimento di “consumo critico” nel nord del pianeta, indebolendo così il potere delle multinazionali. È però impossibile cambiare il sistema capitalista partendo dall’ultimo anello della catena, il consumo. Il “commercio equo e solidale” non può competere con la produzione di massa e l’odierno sistema di distribuzione delle merci. Sembrava che potesse essere sufficiente, oltre che possibile, cambiare le scelte di acquisto della popolazione, relegata al ruolo di consumatrice.
Le multinazionali agroalimentari e le grandi catene commerciali basano la loro supremazia sulla possibilità praticare prezzi stracciati e di controllare tutti i segmenti del mercato (proprietà dei terreni, produzione delle sementi, dei mangimi, macellazione, conservazione, ricerca scientifica, ecc.). Come si può realisticamente pensare di mettere in crisi questi colossi con un ritorno al piccolo commercio e alla piccola produzione?
Latouche, principale teorico della decrescita, lo pensava e lo pensa tuttora. In primo luogo, ci si passi che la rivendicazione della riduzione dei consumi risulta a dir poco grottesca in un periodo storico nel quale anche settori sempre più larghi di classe salariata dei paesi capitalisti avanzati stanno già subendo da almeno vent’anni una decrescita dei loro consumi (salvo temporanei ed illusori indebitamenti), dovuta alla riduzione del salario reale sotto gli attacchi del capitale. Per Latouche il principio della decrescita è il ritorno al localismo, in evidente opposizione alla globalizzazione. La società dovrebbe diventare un insieme di piccole municipalità organizzate in “bioregioni” autonome dal punto di vista alimentare e successivamente economico e finanziario. è una restaurazione dell’economia contadina, con il ritorno all’agricoltura e all’orticoltura. Latouche rimpiange il bel tempo antico quando “la maggior parte del tempo si rimaneva nello stesso posto, coi piedi ben piantati per terra. Un campanile al centro e l’orizzonte tutto intorno delimitano un territorio sufficiente per la vita di un uomo.” Eventualmente, aggiunge, si può “viaggiare virtualmente senza muoversi da casa” (Latouche, Per una decrescita felice).
Di conseguenza, il punto non è il capitalismo: “l’eliminazione dei capitalisti, l’interdizione della proprietà privata dei mezzi di produzione (…) precipiterebbe la società nel caos e sarebbero realizzabili soltanto con un terrorismo generalizzato…”. Il capitalismo ce lo dovremmo dunque tenere perché la classe lavoratrice farebbe peggio della borghesia e poi, non pago, Latouche scrive che il socialismo non è nemmeno tanto diverso dal capitalismo perché entrambi centrati su modelli produttivisti. In realtà una lettura seria de Il Capitale smentisce le critiche di un certo ecologismo al cosiddetto “produttivismo” di Marx: “(…) ogni progresso compiuto nell’agricoltura capitalistica equivale a un progresso non solo nell’arte di derubare l’operaio, ma anche in quella di spogliare la terra, ogni progresso che aumenta la sua fertilità in un certo lasso di tempo equivale a un progresso nella distruzione delle costanti sorgenti di tale fertilità.”
Scorciatoie o burroni?
Teorie sbagliate portano conseguenze negative e veri e propri disastri. Nonostante la spinta anticapitalista indubbia, le espressioni ufficiali del movimento restarono molto al di sotto di una posizione rivoluzionaria. Tra tanti documenti del genere, possiamo ricordare il documento finale del vertice alternativo di Ginevra: “Esigiamo il cambiamento radicale del Fmi e della Banca Mondiale poiché sono all’origine della povertà mondiale esacerbata da crescenti ineguaglianze. (…) La conferenza chiede: la trasparenza e la democratizzazione di Fmi/Banca mondiale (…). L’esistenza futura, la struttura e la politica di queste organizzazioni devono essere determinate attraverso un processo democratico”. Il riformismo, qui, non è nemmeno nascosto.
I limiti politici e teorici del movimento no global dispersero buona parte del potenziale rivoluzionario. Gli anni seguenti videro l’accentuarsi di fenomeni di spoliticizzazione: chi abbandonò la militanza, chi si impegnò nel Terzo settore o nel commercio equo e solidale. Un capitolo a parte andrebbe previsto per chi approfittò di quel movimento e della sua rappresentazione nei media per fare un bel balzo fino al Parlamento o quasi. Dieci anni dopo, attorno alle mobilitazioni dei metalmeccanici o della scuola, vediamo alcuni protagonisti di quegli anni tornare ad avere momenti di ribalta.
Gli ex disobbedienti, ad esempio, ora piuttosto frammentati, sono stati tra i promotori dell’assemblea alla Sapienza con Landini nella quale è stato lanciato il progetto di Uniti contro la crisi. Nell’assemblea di fondazione di Uniti contro la crisi Casarini ha fatto autocritica rispetto al potenziale di liberazione contenuto nel lavoro immateriale ed anche sulle teorie non lavoriste. Aldilà di quanto questa possa essere una mossa diplomatica in una logica d’apparato, quello che non vediamo è una seria discussione di bilancio sulle idee che hanno animato il movimento dieci anni fa.
Molte di queste idee ricompaiono nella retorica sui “beni comuni” o sul primato della società civile rispetto ai partiti. Ritorna in altre forme la discussione sul Novecento, temuta e demonizzata fino alla nausea dalla sempre più afona sinistra di questi decenni.
Quello che è cambiato è decisamente il contesto. Oggi la classe operaia, da Pomigliano a Mirafiori, è tornata ad essere il motore del cambiamento e un punto di riferimento per chiunque voglia lottare. Le rivoluzioni nel mondo arabo, come le mobilitazioni di massa in Spagna e in Grecia, abbattono dittature decennali e pongono in discussione le fondamenta del sistema capitalista. La discussione che ci serve è più che mai quella su come unire le idee rivoluzionarie del marxismo alla classe lavoratrice.